Piero Gandini, l'uomo della luce
Da scapestrato figlio di papà a presidente del polo dell’arredo italiano. Le lampade, i designer e la disruption
Piero Gandini ha un nome e una faccia da cantante o da stilista, invece è un imprenditore: per di più bresciano. Ricci, gel, completo e camicia scura, aria stropicciata-gaudente, arriva in ufficio come reduce da una notte brava. Il Gandini arriva, di corsa, Ferrari FF metallizzata, un assistente gli porta un caffè e ci si aspetterebbe che gli porgesse anche una Gitane o Gauloise, e invece l’assistente gli dà dei galletti del Mulino bianco. Come a ristabilire l’equilibrio: è un imprenditore piedi per terra, mica uno scapestrato. Dice “Ciao bello”, anche se non ci conosciamo. E poi intinge il primo galletto nel caffè.
Questo qua è il suo terzo atto, perché è stato prima figlio di papà come si vuole ribelle, poi promettente seconda generazione, adesso globalizzatore verso l’ignoto. Il Gandini, tra uno shooting con Philippe Starck e una vita in giro per il mondo, riceve però a Bovezzo, luogo mica tanto ameno, su uno stradone, la via Triumplina, che guarda alla Val Trompia, vallata dove fioriscono gli animal spirits bresciani, l’acciaio e i rubinetti e le armi. Erede della Flos, che ha illuminato le case degli italiani-bene per il Novecento e oltre, l’ha rilanciata e poi venduta, inglobata in un polo dell’arredamento ganzo che si chiama Design Holding. Adesso si appresta a presenziare al primo Salone del mobile – il Bilderberg valoriale lombardo – non da padrone delle lampade ma da presidente di questa holding, che ingloba i mobili di B&B e le lampade di Louis Poulsen, aziendona danese – oh yeah – iconica, che la sua conglomerata si è comprata. La conglomerata è nata coi denari globali di Carlyle e milanesi della Investindustrial di Andrea Bonomi (magari, come la mitica nonna del Bonomi, Anna, sognava solo prodotti delle sue aziende nel bagno, il dentifricio Durban’s e il sapone Mira Lanza, noi un giorno si potrà avere solo roba Design Holding in salotto).
L’infanzia, Gandini ha studiato a Brescia. “Studiato è una parola grossa”. “Sono andato per un po’ all’Arnaldo”, il liceo classico, la Eton locale, che ha sfornato l’occhiuto senatore Pillon e l’artista Vezzoli. “E poi sono andato a Milano, ho frequentato un po’ il Politecnico, c’era Castiglioni, il Cici, che da sempre lavorava con mio padre, e quell’anno faceva un corso insieme a Enzo Mari. Diversissimi. Tema di ricerca di Mari: ‘la morte’. Per mesi, dunque, ricerche su cimiteri napoleonici, sepolture, una pesantezza micidiale. Castiglioni invece saltava sulla cattedra, si sa che era uno divertente. Per il resto inventavo falsi esami, andavo a donne, facevo casini. Ma mi hanno beccato e mi hanno spedito in Germania, dove avevamo una consociata, un paesotto vicino a Colonia, sembrava Chiari” (paesone della bassa bresciana, non ridente). “Poi mio papà mi ha richiamato qui a Brescia e ho cominciato a occuparmi di prodotti”.
Erede della Flos, che ha illuminato le case degli italiani-bene per il Novecento e oltre, l’ha rilanciata e poi venduta
Altro galletto. Il padre era il leggendario Sergio Gandini. “Piemontese, figlio di un maresciallo della Finanza”. Non fondò lui la Flos, ma rilevò nel ’64 quella leggendaria startup che era nata più su, a Merano, due anni prima. “Un commerciante di lampade, Arturo Eisenkeil, aveva visto per la prima volta la resina con cui imballavano gli aerei militari in America, la spruzzavano e da ragnatela diventava una roba tipo pelle bianca translucente. Si chiamava cocoon. Allora fanno un’azienda insieme a Dino Gavina e fondano la Eisenkeil Cocoon, con i disegni di Achille e Pier Giacomo Castiglioni e Tobia Scarpa”, dice Gandini “Ma non hanno soldi e a quel punto entrano gli imprenditori Cassina, quelli dei mobili”. Nasce la Flos, nel 1962, appunto a Merano. Nascono i primi pezzi iconici (aridaje), la Arco, la Toio, disegnate dai Castiglioni. (Castiglioni, soprattutto Pier Giacomo, per anni è lo spirito guida della casa: sfornerà lampade avvolte nei bozzoli di cocoon, che annerite dal tempo aleggiano ancor oggi nelle magioni mondiali di aristocrazia architettonica). Ma il business non funziona. “A quel punto dicono: proviamo coi bresciani: mia mamma era loro cliente”.
Infatti a casa Gandini non c’era solo il padre, c’era anche questa madre quasi più ingombrante, la Piera, Piera Pezzolo Gandini, la Florence Knoll della macroregione. “Aveva dei negozi di arredamento, si chiamavano Stile, tre tra Brescia e Cremona, erano un misto tra negozi e gallerie d’arte”, dice Gandini con understatement, son stati infatti gli show room che hanno insegnato alle classi affluenti del Nord Italia a metter su casa. “Mio papà lavorava in azienda con lei, questi negozi li avevano creato con un’altra coppia bresciana. All’inizio la gestiva un po’ come attività collaterale”. Famiglia abbastanza atipica: discussioni di politica, “bombardati da input della madonna: mia mamma era femminista, si parlava dell’aborto, del nucleare. Però disciplina micidiale. E sana cultura bresciana dei piedi per terra. Se parlavi male dei professori, ti dicevano: prima prendi 9 poi critichi. Se prendi 2 il torto è tuo”.
Lui è rimasto e anzi ha rilanciato, a Bovezzo. Non ha fatto il classico figlio che si piazza a Miami e campa di rendita, se va bene risparmiando l’azienda, se va male mettendoci il becco e quindi affossandola. “Eh, ci avrei messo la firma, a Miami, all’epoca”. “Scrivi Miami ma sei di Brescia”, canta Gue Pequeno, e invece è Miami che è venuta a Brescia, nel senso di grandi designer, che Gandini junior è andato a stanare in giro per il mondo e ha portato a Bovezzo. Da dove vengono irrorati i manufatti in ogni angolo del globo: designed in Brescia, produced in macroregione. “Noi non produciamo niente, qui facciamo solo sviluppo prodotto, controllo qualità, uffici, magazzini”, il resto è fuori, nelle mille fabbriche e fabbrichette dell’indotto bresciano. Ma perché non si gode la vita sperperando denari lontano da Bovezzo? “Sarà che sono competitivo di natura. Anche con le mie bambine, giocavamo a Forza 4 la sera, se perdevo non riuscivo poi a dormire” (le tre figlie sorridono in una maxi fotografia di Ramak Fazel in questo ufficio-loft tutto bianco, tra una storica lampada di Castiglioni e un pezzo della Parentesi usato come fermaporta). “Qui c’è una cultura vera del design. Anche le moquette ne sono intrise”, dice il Gandini entusiasmandosi. La transizione familiare è stata “anche troppo rapida, perché mio padre si è ammalato ed è morto presto”.
“Non faccio la vita del ricco, non ho barche o aerei”. Le case, “vuote, perché a fine giornata non ne posso più di design. Solo qualche quadro”
Ma la disruption è iniziata prima, e ha il nome di un designer che diventa celebre in Italia grazie a lui, Philippe Starck, e di una lampada, la Miss Sissi, prima lampada tutta di plastica della storia della Flos. “In realtà Starck l’aveva già chiamato mio padre, e con noi aveva fatto l’Arà, un corno d’acciaio cromato, molto complesso: però la Sissi fu una rivoluzione. Una lampada di plastica che costava pochissimo, “ma non è stato neanche quello. Anche la Parentesi costava poco. Ma questo era un prodotto sovversivo, un abat-jour di plastica molto scema concettualmente” – il Gandini da imprenditore ogni tanto ritorna stilista, e usa questo linguaggio, un po’ iperbolico e un po’ teenager – “due tocchi di plastica che sembravano disegnati da un bambino, in un’azienda che invece aveva una sofisticazione tra forma e funzione altissima”.
“Ci fu una riunione verso fine anno che mi ricorderò sempre. Io avevo una piccola squadra mia, due prototipisti e due tecnici, dovevamo portare a mio padre i progetti che avevamo sviluppato in tutto l’anno, e noi avevamo solo quella, la lampada di plastica. Mio padre disse: ma cos’è quella roba lì? Gli stampi per produrla tra l’altro costavano un sacco di soldi, duecento milioni di lire, mio padre disse: ‘Non se ne parla neanche’, ma io siccome volevo lanciarla per Natale gli stampi li avevo già fatti, altrimenti non avremmo fatto in tempo”. Se ne vendettero 8.000 nei primi dieci giorni, centomila l’anno successivo Fu proprio un cambio d’epoca, considerando che il design era ancora una roba molto seriosa e Starck non aveva fatto ancora tutti gli oggettini, e che anche la Alessi non aveva invaso il mondo di prodotti simpatici e sorridenti.
È andato a stanare i grandi designer in giro per il mondo e li ha portati a Bovezzo. I prodotti lavorati nelle mille fabbrichette del bresciano
Castiglioni, dioscuro funzionalista del design di famiglia, cosa disse? “Come prodotto gli piacque, come gli era piaciuta la Arà. Stimava Starck. Aveva però sempre dei dubbi su come il designer francese si poneva coi media, Starck era infatti famoso perché diceva cose come: ho disegnato questa sedia perché mi è apparsa in sogno mentre ero in aereo, Castiglioni invece partiva scrupolosamente dalla funzione”. “Negli anni Novanta, grazie a una mia ex morosa tedesca che era una pr, facemmo un servizio pazzesco su Max: una ventina di pagine, curato proprio da Starck. Lo feci vedere a Castiglioni, lui se lo guarda, io gli traducevo gli slogan che erano in inglese, lui capisce e apprezza, dice, ah bravi, poi chiude la rivista, e solo allora si accorge che è una rivista di moda, e sbianca, neanche fosse radioattiva. Lui in quella roba lì non ci si trovava. Quando scattammo la famosa campagna per la Brera, altra lampada di Castiglioni, che nelle foto di Jean Baptiste Mondino, gli stava appoggiata in testa, lui era tutto contento. Ma la volta dopo, per la riedizione della Luminator, la sua lampada a forma di cerino, lui doveva posare stando in equilibrio su una gamba sola, e ‘la gambetta, sun mia un balerìn mi”, protestò: non gli piaceva diventare lezioso per comunicare un suo prodotto”.
Con il giovane Gandini arriva il pluralismo. “Prima c’erano Castiglioni e Tobia Scarpa; poi arriva Starck. Io ho voluto aprire questo schema, è un po’ finita la cappella dove si andava a pregare tutti insieme”. Nella cappella bresciana del design ha fatto entrare “Jasper Morrison, Kostantin Grcic, i fratelli Bouroullec”. Miami a Brescia. La sua principale attività è infatti andare in giro per il mondo a stanare nuovi designer, anche a loro insaputa. “Anastassiades aveva un piccolo atelier a Londra”, dice di uno dei suoi talenti di punta oggi, un anglocipriota che fa delle sculturine di luce molto secessioniste, approfittando delle potenzialità dei led. Con Ron Gilad, altra vedette della luminaria inventata da Gandini, “lui era chiuso nel suo loft un po’ fatiscente a Brooklyn, un tavolo pieno di prototipi, non aveva neanche i soldi per andare a comprare le sigarette”, scherza. ‘A me non interessa niente del design’, ha cominciato. Ho cercato di convincerlo a trasformare in prodotti i suoi oggetti di atelier. ‘Perché dovrei farli diventare prodotti?’, lui mi risponde: ‘Io non voglio fare soldi nella vita’”. Bestemmie per un orecchio bresciano.
E il Gandini come spende tutti i suoi soldi? Si narra che abbia venduto molto bene, per qualcosa meno di mezzo miliardo, ma lui naturalmente fa lo gnorri, “non faccio la vita del ricco, non ho barche o aerei. Le barche semmai le affitto, non sono mica scemo. Compro soprattutto materassi, ecco, materassi da mettere a terra per le mie case, che sono rigorosamente vuote, perché a fine giornata non ne posso più di design. Solo qualche quadro”. Neanche una lampada, davvero? “Se proprio, una Taccia, di Castiglioni, che fa la luce perfetta”. Lui è proprio appassionato del prodotto. Gli piace molto la tecnologia. “Dall’elettricità siamo passati all’elettronica”, è un suo motto. Però non a tutti i costi (piedi per terra bresciani): “I led.
Philippe Starck diventa celebre in Italia grazie a lui. Miss Sissi, la prima lampada tutta di plastica nella storia della Flos
All’inizio erano tutte puttanate, tutti mettevano i led, cambiavi colore e avevi le case gialle rosse e blu, un’orgia di gadget”, dice, “ma poi man mano che la qualità dei led è cresciuta e si è capito anche come interpretarli, noi siamo arrivati tardi, adesso facciamo solo led”. Gli piace anche l’illuminazione per architettura, tagli di luce che scompaiono nei soffitti e nelle pareti. “Oggi l’illuminazione per architettura rappresenta la metà della nostra produzione”. “Assistiamo a una smaterializzazione, tutto tende a diventare più piccolo, siamo in questa fase in cui gli oggetti scompaiono. Il computer non serve più, la macchina fotografica non serve più, la calcolatrice non serve più, la radio non serve più. Tutto finito nel telefono”.
Anche lui ha smaterializzato. Ha venduto tutto. Ride. “Da una parte ho pensato che le aziende devono uscire dalla dimensione famigliare, che è anche un problema. Può andarti bene, con la nuova generazione che è brava, o può andarti male. Ma non puoi chiedere alle seconde generazioni di vivere in posti così, a Bovezzo, a Crusinallo, a Meda, in paesi da ventimila abitanti, in ventisette cugini e con gli zii, a queste nuove generazioni che conoscono il mondo, hanno studiato a New York e a Londra. Da una parte è molto bello, certo, porti avanti dei valori, dall’altra il livello di complicazione rispetto al livello di possibilità è troppo alto”.
Però tu smentisci la tua stessa teoria. Stai a Bovezzo. “Ma io sto sempre in giro. E poi ho mandato affanculo tutti. Io ho cambiato il logo aziendale in una notte, senza neanche dirlo a mio padre. Mia sorella pianse, le pareti della casa sembravano venire giù per le urla. Non è un metodo che consiglierei a tutte le transizioni familiari. Io poi ero anche quasi figlio unico, perché mia sorella si è sempre occupata d’altro, fa il medico: ma se hai sette cugini, tre fratelli, come fai?”.
Adesso il Gandini continuerà ad andare in giro per il mondo a stanare designer, non solo per le sue lampade ma pure per i danesi e per i mobilieri brianzoli della B&B; ora infatti saluta, deve correre a Milano per un consiglio di amministrazione: si capisce che di questa holding non sarà un presidente solo formale. Si appresta a fiondarsi sulla BreBeMi, la Brescia-Bergamo-Milano, l’autostrada dei capitalisti (che ha un sovrapprezzo rispetto a quella normale, ma non ha l’autovelox. E’ forse l’unica autostrada business class del mondo. Di sicuro una cosa che a Miami se la sognano).
Perché Leonardo passa a Brera