Il senso della Cioran-Renaissance
La riscoperta del filosofo romeno, che può dire molto dell’Europa di oggi. Le lettere a un amico
"Ogni originalità – letteraria o altra – che non si paghi a caro prezzo, che non si espii, è gioco e acrobazia. E’ sempre la vecchia storia: si può credere soltanto ai martiri", scrive Emil Cioran nei Cahiers. E’ forse questo il suo paradosso, la sua forza, il motore di quella che si potrebbe definire un’autentica Cioran-Renaissance, che negli ultimi anni non è potuta certo sfuggire agli occhi dei più attenti frequentatori di librerie. Il filosofo romeno si impone ormai sugli scaffali e molte e continue sono le nuove pubblicazioni dedicate al pensatore di Rasina). Come se più che mai ci fosse bisogno di lui, delle sue parole, della sua ferocia, delle sue enormità. Questa rinata voglia di Cioran si spiega così, con le sue stesse parole: “Se, politicamente, abbiamo sperimentato una demenza finora sconosciuta, nel mondo dello spirito abbiamo solo un brulichio di minuscoli destini; con la penna, nessun conquistatore; null’altro che aborti, isterici, miseri casi”. Ecco, quindi, l’unico capace di scrivere “il libro del nostro tracollo”, quello della civiltà occidentale, dell’Europa di oggi, stanca soprattutto di se stessa.
Oggi più che mai, gli ultimi stanchi lettori tornano al “paradosso Cioran”, in un’epoca in cui gli scrittori non contano più nulla e allo stesso tempo tutti vogliono essere scrittori, persino i giornalisti, i quali infatti pubblicano libri e alla loro qualifica fanno aggiungere anche quella di “e scrittore”. Cioran stesso si accorse per primo di questa inarrestabile, funesta deriva, commistione tra ciò che è materia d’artista, la scrittura, e ciò che è invece cronaca, bigiotteria. La colpa? Di Voltaire: “Fu il primo letterato a erigere la sua incompetenza a metodo, a sistema. Prima di lui, lo scrittore, pago di stare a fianco degli avvenimenti, era più modesto: faceva il suo mestiere in un settore limitato, seguiva la sua strada e lì restava: per nulla giornalista, si interessava tutt’al più all’aspetto aneddotico di certe solitudini: la sua indiscrezione era inefficace. Con il nostro millantatore le cose cambiano”.
La Cioran-Renaissance prolifera quasi come fosse un vaccino che i malati e gli sconfitti della competitività e della globalizzazione, dell’accelerazione di tutti i processi economici, mentali, fisici si iniettano per elaborare meglio il concetto di disastro. Cioran si impone nell’epoca degli annunci di lavoro (non pagato) per candidati ideali: persone dinamiche, flessibili, solari, con tanta voglia di crescere insieme a “loro” (le aziende, le quali sono tutte “leader” del settore, naturalmente) e di imparare lavorando, in ambienti giovanili, dinamici, che offrono condivisione, crescita, lavoro in gruppo, tutto tranne i soldi, in una eterna “messinscena dell’agonia, il bisogno di dinamismo perfino nei rantoli”. I suoi anatemi sono fiele che ci riporta a una più profonda bontà, per sopportare e prendere atto della gratuità e della sciagura del quotidiano.
Se tutto sappiamo di Cioran, filosofo, Cristo mancato, compositore di anatemi confezionati in spartiti tradotti in altissima prosa francese, poco o nulla si conosce di Petre Tutea, suo inseparabile e al tempo stesso lontano amico, una delle personalità più importanti dell’élite culturale romena della Bucarest di inizio anni Trenta, “il solo vero genio che io abbia mai incontrato”, scriverà Cioran. Perché se oggi il concetto di genio è inseparabile da quello di “successo”, Cioran scriverà invece: “I soli romeni interessanti che abbia mai conosciuto erano dei “falliti” [...], vale a dire che si realizzavano nella “vita” senza elevarsi o abbassarsi a un’opera”.
E’ nella capitale romena, attorno alla figura di Nicolae Ionescu, docente di Logica e Metafisica all’università di Bucarest e direttore della rivista “Cuvântul”, grande mentore di quella che sarà la più importante generazione di intellettuali romeni, che il filosofo conosce e frequenta Tutea, il quale da fervente militante marxista nel 1932 fonda insieme la rivista “Stânga”, e successivamente traduce il suo radicalismo anticapitalista in posizioni più spiccatamente nazionaliste e reazionarie, divenendo simpatizzante del movimento di estrema destra legionario Garda de Fier.
Per comprendere meglio lo stretto rapporto di amicizia che lega i due pensatori romeni, giungono in libreria le lettere scritte da Cioran Tutea, raccolte nel volume “L’insonnia dello spirito. Lettere a Petre Tutea (1936-1941)”, edite da Mimesis e curate da Antonio Di Gennaro. Si può già scorgere un Cioran che progressivamente “esce” dalla Storia e – come scrive Antonio Di Gennaro nella sua “non-prefazione” – abbandona al tempo stesso qualunque velleità politica filo-legionaria, rompendo con “i ridicoli fanatismi e le improvvisate e avventate esaltazioni del proprio passato giovanile”. In una di questa lettere confesserà all’amico di sempre di aver voluto essere “un uomo politico solo per verificare il disgusto per gli uomini”, e descriverà la visione politica di Țuțea come “un misto di Platone, Hegel e nichilisti russi”.
Ma il fulcro della corrispondenza tra i due è da ricercare altrove, in un Altrove che non è politico ma “trascendente”. Se Cioran, nel 1937, pubblicherà a proprie spese Lacrime e santi – libro che susciterà molte polemiche per il suo contenuto ritenuto blasfemo – e lascerà successivamente la Romania per Parigi, Tutea invece – vittima dell’epurazione comunista – sconterà complessivamente 13 anni di prigionia, aggrappandosi al concetto di fede e rifugiandosi nella teologia. Dalla lettere traspare ancora un giovane Cioran felice “di essere lontano dai Balcani”, da quella Romania per lui ancora “insignificante” che giunse a comprendere solo molto più tardi. Da Parigi scrive: “Ho sempre disapprovato la tua generosità, la mancanza di narcisismo”, rinfacciandogli l’attaccamento alla patria. L’amico, molti anni più tardi, da Bucarest, risponderà: “Consentimi di affermare che sono simile a te, con la differenza che tu pratichi una sincerità illimitata, mentre il mio osare è limitato da credenze da cui non posso separarmi. Mi muovo tra Dio e il popolo cui appartengo”. Il 7 luglio 1974, a Bucarest, Țuțea scrive: “vorrei rivederti ancora una volta, prima di morire. In un deserto, non nell’Occidente dove tu vivi, perché puzza di putrefazione”.