Quel geniale Salone del mobile nato a Weimar
Il centenario del Bauhaus. Nel 1919 si uniscono a Walter Gropius i migliori ingegni del tempo, non solo tedeschi, e la modernità irrompe nel design e nell'architettura
Volete abbandonarvi al comfort di una comoda “seduta” (così oggi si chiamano quelle che un tempo erano, familiarmente, sedie) senza ricorrere al mobiliere pubblicizzato sulla rivista patinata, senza spendere troppo e però evitando di cadere nelle cianfrusaglie del low cost cinese? Rimboccatevi le maniche e fabbricatevela da voi, nel garage o in casa, con materiali di vostro gradimento e con fatica minima, magari divertendovi anche. Non sarete un’eccezione, una stranezza. La sedia, la seduta, è da sempre il pezzo forte su cui si cimentano arredatori grandi e piccoli e anche architetti, ce ne sono in giro, persino in bella mostra nei musei, decine di modelli, i più strani e inusuali, in legno come in polipropilene. Altrimenti, sarà sufficiente che andiate al bar sotto casa, i bar hanno sedie abusatissime repliche di famosi modelli.
Una fucina sperimentale per la creazione di un mondo fiducioso nell'avvenire. L'utile e il bello, insieme, avrebbero garantito il progresso
e persino la felicità
Comperatevi dunque da un buon ferramenta (se vorrete utilizzare il legno ricorrerete invece a Ikea) un metraggio sufficiente di tubi di acciaio di un paio di centimetri di diametro, e attrezzatevi di pinze e morsetto da tavolo. Impiegando luccicante acciaio nichelato la sedia verrà ancor più elegante. Se sarete abbastanza bravi (non ci vorrà molto ad apprendere l’essenziale) in poco tempo avrete lì, bellamente piantata davanti a voi, l’ossatura della sedia, da completare con il piano di seduta e la spalliera, che potranno essere di tela, di plastica o, se ne avete la possibilità, di pelle. Attenetevi, per ogni buon conto, alle istruzioni messe a punto, cento anni fa, nel laboratorio del Bauhaus. La tecnica è quella, ben nota, da sempre impiegata per saldare magari i tubi di una caldaia, tra fiamma ossidrica e cannello saldatore a benzina; la novità forte e caratterizzante è che a lavorarci non sarà l’artigiano ma l’operaio che, accantonando per una volta la sua praticaccia meccanica e ripetitiva, potrà tornare a confrontarsi con il capomastro delle guglie delle cattedrali di Wells o di Durham, intrecciate tra loro in modo di far rimbalzare e scaricare dall’uno all’altro di quegli enormi tronchi misteriose linee di forza, individuate e incanalate dall’ingegno umano.
Quella che vi abbiamo descritta è la seduta disegnata, o meglio inventata, nel 1925 da Marcel Breuer (foto sopra) nel clima culturale, tecnico e didattico dello Staatliches Bauhaus, il mitico istituto di istruzione artistica di cui quest’anno si celebra il centenario. Il Bauhaus ebbe le sue sedi dal 1919 a Weimar – effimera capitale della Germania in cerca di nuova identità – poi, dal 1925, a Dessau (con il nome di “Istituto superiore per la strutturazione formale”) e infine a Berlino dal 1932 al 1933. Erede delle avanguardie anteguerra, fu una scuola, ma rappresentò anche il punto di riferimento per tutti i movimenti d’innovazione nel campo del design e dell’architettura, legati al razionalismo e al funzionalismo del Movimento Moderno. Per il centenario, in Germania si preparano celebrazioni, commemorazioni, convegni, ecc., che si spera non siano solo formali. Non sarà mai troppo l’impegno speso a ricordare un’iniziativa che ha rivoluzionato il concetto e la pratica del design industriale, e non solo. Oggi c’è chi vuole sminuirne l’importanza negando che ci sia mai stato uno specifico “stile Bauhaus”, ma è difficile non pensare che, uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, la Germania cercò di riguadagnare credibilità e fiducia raccogliendo il meglio dei suoi ingegni intorno a un’iniziativa dalla forte valenza unitaria, sociale, democratica, ma anche artistica. E fu il Bauhaus: un laboratorio non chiuso e identitario ma aperto ed elastico, crocicchio di varie sperimentazioni sul tema della casa, Haus, intesa nel suo senso più largo, come Casa dell’uomo. E quale fosse l’uomo sulla cui misura costruirla ce lo aveva detto, qualche secolo prima, Leonardo, disegnandone la perfetta e armonica membratura, dalle proporzioni iscrivibili nel cerchio o nel quadrato. Il Bauhaus fu o venne letto anche come una fascinosa ideologia. Arrivava dopo la tempesta dell’espressionismo, ma la guerra non era passata invano, entro poco tempo sarebbe spirato per l’Europa il venticello del “rétour à l’ordre”.
La sedia, da sempre il pezzo forte per architetti e artigiani. La tecnica, ben nota, per saldare i tubi: la seduta di Marcel Breuer del 1925
Se la sedia di Breuer incontrasse i vostri gusti, potreste fruttuosamente approfondire consultando i disegni, progetti, studi e realizzazioni di una infinità di altri oggetti di uso comune, dai tavoli ai piatti, alle posate, le saliere, i bicchieri, le bottiglie, fino alla familiare teiera che nei paesi nordici sostituisce la caffettiera nostrana: nel Bauhaus e dintorni si ridisegnava e riprogettava l’intera casa, a partire dall’edificio, esplicitamente fatto consonare con ogni minimo particolare dell’arredamento: una tensione unitaria già presente, peraltro, nell’opera di William Morris (1834-1898) che, influenzato dal pensiero e dalle teorie di John Ruskin (1819-1900), fondò laboratori per produrre artigianalmente sedie, tavoli, bicchieri, cucchiai, ecc., decretando l’affermazione dello stile detto, appunto, delle “Arts and Crafts”, cioè delle Arti e Mestieri, un fruttuoso incontro tra artigianato e architettura. Il precetto dell’unità progettuale era stato già rigorosamente applicato nel prospetto e negli interni della Glasgow School of Art, precorritrice opera di un altro grande modernista, Charles Rennie Mackintosh (1868-1928), dove ogni accessorio, ogni mobile e sedia, anch’essa disegnata dall’architetto, si solleva a opera d’arte autonoma ed esemplare. Il capolavoro di Mackintosh, purtroppo, è andato recentemente semidistrutto a causa di un incendio, ma si spera di recuperarne e ricostruirne l’essenziale.
Sia nell’edificio tedesco che in quello scozzese si lavorava con l’intento esplicito o implicito di unificare e “normalizzare” tutte le componenti di un arredamento. Fu la necessaria premessa per una eventuale produzione di massa a carattere industriale, che stava allora stimolando interessi molteplici.
La Bauhaus non nasceva dunque come un fiore del deserto, dal nulla, per spontanea gemmazione. Fu punto di confluenza di esperienze varie, che avevano in comune, diciamo al novanta per cento, l’ambizione di fondere assieme due “valori” visti piuttosto fino ad allora come separati e distinti se non addirittura antagonisti: il bello e l’utile. Una caffettiera? Di per sé un oggetto semplicemente utile doveva adempiere passivamente alla funzione che gli era richiesta; nessuno avrebbe chiesto a una caffettiera di essere bella. Oggi una vecchia caffettiera di lamierino zincato può essere esposta permanentemente al Victoria and Albert Museum – il più importante museo a livello mondiale dedicato alle arti applicate e alle arti minori – come esemplare d’epoca, e noi potremo definire eleganti le sue linee, ma alla nascita essa era vista come un semplice bricchetto dal lungo becco, fabbricato da un anonimo artigiano di provincia, abbandonato ad affumicare, senza rimorsi, sul focolare, tra ceneri e faville.
Alla scuola del Bauhaus confluirono i migliori ingegni del tempo, non solo tedeschi: il Bauhaus fu fucina sperimentale – e intimamente transnazionale – per la creazione di un mondo nuovo pensato a misura d’uomo, aperto e fiducioso nell’avvenire dell’umanità. L’utile e il bello, fusi assieme, avrebbero garantito il progresso e perfino, si poté pensare, la felicità. Per capire quale fosse l’essenza dell’ambizione culturale che nutriva la Bauhaus, potremmo assumere come simbolo la maniglia per una porta progettata, un po’ dopo, dall’architetto Alvar Aalto, esponente di quella scuola finlandese che ha prodotto artisti eccellenti e opere prestigiose. Aalto prese in mano e strinse un pugno di cera molle. Induritasi, la cera conservò l’impronta delle dita che l’avevano stretta: era divenuta una maniglia, anzi era la maniglia perfetta, perché nata direttamente dalla funzione. L’esperimento di Aalto esprimeva valori di stampo “organicistico” che si saldavano con il rigoroso vangelo astrattista.
Il mitico istituto di istruzione artistica fu un punto di riferimento e d’innovazione nel campo del design e dell’architettura
Fondatore e primo animatore del Bauhaus fu Walter Gropius, cui si deve anche il progetto della sede di Dessau. Gropius era stato nelle trincee della Prima guerra mondiale, e ne era uscito disgustato dalla violenza e dagli orrori visti e partecipati. Si studiò di creare qualcosa che valesse a evitare il ripetersi di quegli orribili eventi. Alla fine della guerra il Kaiser Guglielmo II rinunciò al trono, e nacque una Germania che si pensò potesse essere finalmente democratica. Fu la Repubblica di Weimar (1919-1933). Gropius volle contribuire alla ricostruzione del paese devastato e in ginocchio, mettendo in piedi un’istituzione che fosse di esemplare ammaestramento per la Germania ma anche per il mondo tutto. Il Bauhaus doveva essere, nei suoi intendimenti, una scuola capace di fornire ai giovani gli strumenti intellettuali e pratici per costruire una società più evoluta e meno egoistica, una scuola di arte e design capace di svolgere anche una azione di riforma sociale. Doveva essere una scuola multidisciplinare, con un programma di studi flessibile e non convenzionale, tale da stimolare gli studenti a scoprire e a sviluppare le proprie potenzialità artistiche. Gli venne proposto di assumere a Weimar la direzione di un complesso scolare nato dalla fusione tra il locale Istituto superiore di Belle arti e la Scuola di Arti applicate del Granducato di Sassonia. Divenne, grazie al suo impegno, lo “Staatliches Bauhaus in Weimar”, con l’obiettivo di unire un “programma di studi teorico di un’accademia d’arte” e un “programma pratico di una scuola di arti applicate”. Docenti e studenti d’arte dovevano anche imparare a sporcarsi le mani, assieme agli artigiani: “L’artista è solo un artigiano a un livello superiore”. Contemporaneamente, Gropius criticava la politica di produzione in serie praticata dal Deutsches Werkbund, perché sminuiva il valore dell’individuo, un comportamento – disse – che aveva portato il paese alla guerra.
Accanto a lui, in una comunità di intenti che richiamava non casualmente le cooperative o comunità muratorie (“massoniche”) medievali, lavorarono personalità come Lyonel Feininger, Paul Klee, Vasilij Kandinskij, il fotografo Moholy-Nagy, Oskar Schlemmer, Marcel Breuer, e gli architetti Hannes Meyer e Ludwig Mies van der Rohe, che per alcuni anni ebbero anche l’onere della direzione. Meyer era interessato piuttosto ai temi sociali e all’ambiente, deviò verso concezioni collettivistico-comunistiche per trasferirsi infine nell’Unione sovietica, ancora immersa nell’aura delle sue avanguardie. Ma fu il solo, gli altri si guadagnarono la nomea di alfieri di una democrazia fortemente umanistica.
Erano tutti, potenzialmente, dei geni, inventavano a getto continuo oggetti impareggiabili. Nel 1932 la scuola fu trasferita a Berlino, ma nell’aprile del 1933 veniva brutalmente soppressa dal regime nazista, per il quale costituiva un pericoloso “covo del bolscevismo culturale”. All’internazionalismo della Bauhaus il nazismo preferiva un’arte tutta “blut und boden”, spudoratamente spacciata come la vera erede dell’esaltato wagnerismo e del razzismo “ariano”.
Nell’esperienza del Bauhaus il più rigoroso professionismo si accompagnava, e non marginalmente, con un senso ludico straordinario. L’istituto lavorava nella stessa direzione dello sperimentalissimo collettivo del “Monte Verità”, il polo di attrazione di artisti che, cercando una vita alternativa tra il blocco capitalista e quello comunista, si accasarono nella regione
Prima l’oggetto utile doveva solo adempiere alla funzione che gli era richiesta: nessuno avrebbe chiesto a una caffettiera di essere bella
dei laghi del nord Italia per realizzare le loro utopie. L’episodio fu effimero, ma vale la pena fornirne un ritrattino sintetico. I fondatori giunsero da ogni dove: Henri Oedenkoven da Anversa, la pianista Ida Hofmann dal Montenegro, i Gräser – l’artista Gusto e l’ex ufficiale Karl – dalla Transilvania, ecc. Uniti da un ideale comune, liberi finalmente dalle costrizioni della civiltà, avvolti in tuniche grecizzanti e fluenti, con i capelli sciolti sulle spalle, costruivano e abitarono spartane capanne in legno, rilassandosi con l’euritmia della danza e bagni di sole integrali, esponendo i corpi a luce, aria, sole e acqua. La loro dieta escludeva cibi animali e si basava interamente, secondo un ricorrente mito igienista, su piante, verdura e frutta. Adoravano la natura, predicandone la purezza e interpretandola simbolicamente come l’opera d’arte ultima. “Il prato di Parsifal”, “La rocca di Valchiria” e “Il salto di Harras” sono nomi che con il tempo furono adottati addirittura dalla popolazione di Ascona, la quale inizialmente aveva considerato con sospetto la comunità.
Peter Behrens fu uno dei primi architetti ad applicare (si vedano le Officine Fagus, progettate nel 1911 assieme ad Adolf Meyer; la Torre Einstein del 1919 – alta 156,9 metri – il Seagram Building, completato nel 1958) i princìpi del Movimento Moderno. Il Movimento, nato all’inizio del ’900, si fondava sulla ricerca della fusione tra l’organizzazione – basata su un sistema cooperativo attraverso il quale i partecipanti si impegnavano a ottenere l’emancipazione della donna, l’autocritica, nuovi modi di coltivare la mente e lo spirito, e pensava di realizzare un mitico ritorno alle origini, alla purezza. Questa esperienza esistenziale cercava, sostanzialmente come il Bauhaus, di realizzare uno stile di vita alternativo alla banalità del presente.
Dalla fucina intellettuale del Bauhaus uscirono prodotti di intenso design, come tappeti e arazzi multicolori, copertine di libri, manifesti, la storica sedia squadrata di legno e tessuto disegnata da Oskar Schlemmer nel 1922 e oggi conservata al Museo Pompidou, la “Tischlampe” (foto sopra) e le “Teedose” (teiere) di Wagenfeld, la “Kaffemashine” di Theodor Bogler, il progetto di scala elicoidale di Katharina Ulrich per la Scuola commerciale di Henry van de Velde, la legatura per le opere di Hölderlin in tavolette di legno unite con semplici cordelline, le multicolori “griglie” (“gitterbild”) di Josef Albers, il grandioso progetto di Gropius per un “Totaltheater” (teatro totale), ma anche minimi oggetti fabbricati fantasiosamente, usando fiammiferi incollati assieme o figurine di pochi centimetri ritagliate nella carta e con sagome di ballerini e ballerine di un magico teatrino. Lucia Moholi riprogettava in estrema semplicità funzionale una completa attrezzatura per il tè, Paul Klee colorava una Schauspieler Masker (1922), una maschera teatrale oggi conservata al Museum of Modern Art di New York, Andor Weininger si sbizzarriva a concepire, nel 1927, una “Ballerina” dalle astratte forme di coni e sfere. Forse lo stimolo a questa costruzione dal nulla (“nichilismo”?) fu la drammatica esperienza della guerra, dopo la quale ci si illuse di poter rifare il mondo da cima a fondo, ancora una volta rinnovando il mito leonardesco dell’homo novus, un mito senza tempo di volta in volta foriero di risultati positivi ma anche, non raramente, negativi. Qualcosa resta in piedi, di tanta energia progettuale: la “Haus am Horns” di George Muche in collaborazione con lo Studio Gropius, o la ricostruzione della “Direktorenzimmer” della Bauhaus di Weimar. Forse si può rintracciare anche altro, qua e là.
Gropius nasce a Berlino il 18 maggio 1883. Figlio di un famoso architetto, decide a sua volta di studiare architettura. Nel 1907 inizia a lavorare sul tema del rapporto tra la forma di un edificio e la sua funzione. Nelle sue officine Fagus iniettò lo spirito del Movimento: le fabbriche dell’800 erano buie e malsane, la fabbrica di Gropius ha grandi vetrate che favoriscono l’ingresso della luce; nelle fabbriche ottocentesche tutte le fasi produttive si svolgevano in un unico ambiente, una sorta di enorme capannone, la fabbrica di Gropius era suddivisa in settori, ognuno adibito a una diversa fase della produzione, in tal modo favorendo rapidità ed efficienza.
Gropius era stato nelle trincee e ne era uscito disgustato. Si studiò di creare qualcosa che valesse a evitare il ripetersi di quegli orribili eventi
Nel 1919, in quella deliziosa ed elegante Weimar che nel Settecento e nell’Ottocento era stata uno dei centri propulsivi della cultura tedesca, dove dimorarono personaggi del calibro di Bach, Herder, Liszt, Goethe, Wagner, Mardersteig, Schiller e Nietzsche, Gropius fonda la scuola di architettura che chiamerà Bauhaus, cioè “casa del costruire”. Il Bauhaus, sotto la sua guida, è la prima istituzione scolastica a insegnare i precetti del Movimento Moderno. Lo sforzo di Gropius e della sua creatura è coniugare la creatività artistica con le esigenze del mondo industriale, tema cruciale di un tempo che vide il passaggio dall’artigianato al meccanicismo e cercò di guidarne gli esiti. Nel 1924 il Bauhaus si trasferisce a Dessau, e Gropius realizza la nuova sede dell’istituto. L’edificio riassume gli elementi dell’architettura a lui cari e destinati a una lunga e fortunata vita: ampie vetrate, separazione netta tra i locali e impiego di materiali nuovi, come il cemento armato.
Nel 1933 sale al potere il Partito nazista. Gropius, che ha collaborato spesso con artisti ebrei e comunisti, è sospetto ai vertici del Partito. Lascia il paese e nel 1934 si trasferisce a Londra. Tre anni dopo accetta la cattedra di Architettura presso l’Università di Harvard, negli Stati Uniti. Nel 1946 fonda un nuovo studio architettonico: “The Architects Collaborative”, il Collettivo degli architetti. Lo studio progetta numerosi edifici, come il Graduate Center di Harvard, completato nel 1950, e l’archivio del Bauhaus, realizzato successivamente a Berlino nel 1979. Non credo che il vigoroso progetto per la sede della “Chicago Tribune” sia stato realizzato, le immagini che ne abbiamo parlano di altro. Insegnò a Harvard, mentre Moholy-Nagy aprì a Chicago un “New Bauhaus”, e sempre a Chicago Mies van der Rohe progettò lo “Iit”, un parallelepipedo composito, completamente rivestito di grandi vetrate. Lui, come in generale gli eredi del Bauhaus, aveva un rapporto con la natura felice ma anche distaccato dalla natura, non voleva che il manufatto dell’uomo vi si immergesse e sprofondasse, come invece fece un contemporaneo non meno dotato di genio, l’americano Franck Lloyd Wright, il cui capolavoro è, come sappiamo, la casa sulla cascata,”Falling Water” (Pennsylvania, 1936-1937), nella quale l’empatia tra l’artefatto umano e la natura è totale. L’America fu ospitale e generosa, ancora una volta adempieva al suo compito. E vide essa stessa fiorire grandi architetti, Louis Henry Sullivan (Boston, 3 settembre 1856 – Chicago, 1924), ritenuto il progettista dei primi moderni grattacieli, è considerato il padre del Movimento Moderno negli Stati Uniti d’America per l’influenza teorica e pratica che esercitò sulla Scuola di Chicago dove appunto, alla fine dell’Ottocento, nacque questa nuova tipologia di edifici. Nello studio, che divise con Dankmar Adler, si formò Frank Lloyd Wright, ed è qui che per alcuni nacque il concetto di architettura organica.
Gropius muore il 5 luglio 1969 a Boston, all’età di 86 anni. Ancor oggi alcuni corsi di laurea, come quello di disegno industriale, sono in parte ispirati al Bauhaus di Gropius.