Una vedova che balla il twist
Dalla Belle époque agli anni 50, con una banca da salvare: Michieletto reinventa l’operetta di Lehár a Roma
Certo, il fantomatico stato di Pontevedro non esiste più. Pure l’ambasciata è scomparsa e vedremo cosa resta della “colonia pontevedrina a Parigi” adesso che il Pontevedro è diventato una banca. Una specie di istituto di credito cooperativo di provincia, dove i locali depositano da generazioni i propri risparmi e rischiano di farsi inghiottire dalla speculazione internazionale. Una banca come tante, come quelle che pullulano nella provincia veneta colpita dalla crisi finanziaria, che Damiano Michieletto ben conosce. E infatti per la sua regia della “Vedova allegra”, anzi “Die lustige Witwe”, l’operetta di Franz Lehár che da oltre un secolo spopola nei teatri di mezzo mondo, e dopo il tripudio alla Fenice domani sera arriva al Teatro dell’Opera di Roma (con cinque repliche, martedì 16, mercoledì 17 e giovedì 18 alle ore 20, venerdì 19 alle 18 e sabato 20 alle 16.30), il regista veneziano mette mano al libretto, cambiando scene, costumi, ambientazione. Scompaiono coi loro baffi a uncino e i favoriti i diplomatici Belle époque, dandy scanzonati a caccia di dote, e però inclini alla gozzoviglia con le ballerine di can can. Resta il barone Zeta, non più ambasciatore ma direttore della banca Pontevedro, molto attento alle riserve di capitale. E resta, anche lui in doppiopetto, il conte Danilo Danilowitsch, il quale non è più segretario d’ambasciata, ma un bancario frustrato che ricompensa la noia da contabile frequentando un nightclub, e viene comunque invitato dal direttore a corteggiare prima e poi a impalmare la ricca vedova Hanna Glawari, onde salvare l’istituto dal default. Anche la vedova subisce una metamorfosi. Niente velette, abiti lunghi col busto inguainato nelle stecche di balena. La lustige Witwe di Michieletto è una donna emancipata, milionaria molto disinibita, libera e padrona di sé. Potrebbe sposarsi e non sposarsi, dilapidare il suo patrimonio o reinvestirlo, scegliere fior da fiore fra i suoi pretendenti o tornare al vecchio flirt di gioventù, Danilo, che non l’aveva sposata per ragioni castali. Perfetta figura contemporanea, indossa abiti tinta pastello in stile Balenciaga o Christian Dior, con ampie gonne svasate fino al ginocchio, giacchine attillate per sottolineare il vitino di vespa. E anziché lanciarsi in languidi giri di valzer, polke e mazurke, preferisce scatenarsi in rock and roll e boogie boogie acrobatici, come una fan di Elvis Presley, o dimenarsi nel twist, e persino evocare il charleston. Eh sì, perché se la “Witwe” di Lehár, come ricorda Giovanni Bietti, è una Tanz-Operette, un’operetta danzante, dove ognuno dei tre atti si svolge in una sala da ballo, ambasciata, salotto Glawari, saloni del parigino Chez Maxim, Michieletto, affiancato alla regia da Eleonora Gravagnola, si diverte a dar corso alla sua fantasia disinibita, per reinventarsi una Vedova allegra a suo, e nostro, uso e consumo.
Scompaiono i dandy scanzonati a caccia di dote, il conte Danilo non è più segretario d’ambasciata ma un bancario frustrato
Da perfetto antistoricista, rivendica una lettura fuori tempo, fregandosene dei ragionamenti fondati sul senno di poi e dell’interpretazione di un’opera alla luce di quanto accade dopo, nella fattispecie l’Austria felix alle prese con quella “fröhliche Apocalypse” (la gaia apocalisse secondo la diagnosi di Hermann Broch) che di lì a poco porterà alla Grande guerra e dunque al crollo dell’imperialregia monarchia. Michieletto guarda soprattutto alla resa scenica, alla credibilità dei personaggi, alla loro efficacia. Per questo, ha deciso di traslare l’opera dai primi del Novecento alla fine degli anni Cinquanta: “Le cose vanno prese per quello che sono, non sono la testimonianza di qualcosa che viene dopo. Dunque, inutile dire che, negli anni Cinquanta, finita la guerra, c’era il bisogno di divertimento che portò poi al boom economico”. Allora, se solo conta il teatro e la sua verità, che è l’illusione teatrale, alcuni dettagli si possono cambiare, senza che cambi la sostanza . “Il mondo delle ambasciate lo trovo un po’ sterile. Nessuno di noi vive in un’ambasciata o la frequenta” spiega Michieletto, “perciò ho voluto radicalizzare la natura dell’opera, e trasferirla in una banca di provincia in crisi”.
E la natura dell’operetta di Lehár è la potenza del denaro, con la minaccia del fallimento che incombe sui pontevedrini, siano essi gli abitanti del fantomatico staterello dietro al quale la cortesia diplomatica un secolo fa impose ai librettisti di camuffare il piccolo regno di Montenegro, schiacciato fra tre grandi imperi, ottomano, russo e austriaco, siano essi i piccoli risparmiatori veneti esposti dalla speculazione al rischio di default. In entrambi i casi, l’unico modo per scongiurare il peggio è attrarre i capitali della ricca vedova, facendola impalmare da un funzionario fidato, d’ambasciata o di banca che sia, ma sempre in nome della patria, “das Vaterland”, la casa madre, come impone senza incongruenza il patriottismo bancario. Altro motivo di libertà della regia sono poi le danze. Per utilizzare le coreografie legate al rock, al twist, al boogie boogie, Michieletto sposta l’azione dal salotto di casa Glawari a una una balera, altro luogo ameno oggi scomparso, dove un tempo si ballava al suono di un’orchestrina. E infatti, l’orchestrina lascia la buca dell’orchestra, per salire sul palcoscenico e mettersi a suonare le musiche previste da Lehár, seguendo un ritmo incandescente, che esalta il brio e l’effervescenza del divertimento popolare.
“Vivere a Vienna, in quella città ospitale, era meraviglioso”, scriverà Zweig, che aveva 24 anni quando debuttò “La vedova allegra”
Tanta libertà sembra però scontrarsi col rispetto dell’originale in tedesco del libretto che Michieletto rigorosamente segue. E invece no. Anche qui, il criterio guida è la credibilità degli attori, e cioè l’efficacia teatrale. “Non è l’opera che deve abbassarsi allo spettatore, ma lo spettatore che deve tendere verso la natura dell’opera”, spiega il regista, parando l’accusa. E perciò bando all’anacronismo di una traduzione (inaudibile oggi l’edizione in italiano di Mauro Bolognini diretta da Daniel Oren nel 1991) e, già che ci siamo, bando pure ai doppiatori che ci impediscono di gustare i film nelle voci originali degli attori. Il pubblico romano del Costanzi, che premia con crescente attenzione la programmazione del soprintendente Carlo Fuortes e del direttore artistico Alessio Vlad, ai quali da quest’anno si è aggiunto, come direttore musicale, Daniele Gatti (e la rivista Forbes parla ormai di “The City’s Silver Lining”) vedrà dunque cantare e recitare in tedesco, nei costumi di Carla Teti, fra le scene di Paolo Fantin e con le luci di Alessandro Carletto, sia gli interpreti (Anthony Michaels-Moore nei panni del barone Zeta, Paulo Szot in quelli di Danilo, Nadja Mchantaf nel ruolo di Hanna Glawari, Adriana Ferfecka in quello di Valencienne…) sia il coro del maestro Roberto Gabbiani. Li vedrà ballare nelle coreografie di Chiara Vecchi come gli attori di un musical degli anni Cinquanta, (Szot, che ha già cantato al Costanzi nel “Naso” di Shostakovic, non per caso, ha iniziato la sua carriera proprio a Broadway) anche se a dirigerli ci sarà il wagneriano e mozartiano Constantin Trinks, al suo debutto romano, dopo aver cantato in un coro i madrigali di Palestrina a Santa Maria del Popolo. E in un gioco scenico pieno di equivoci, gelosie, agnizioni, vedremo rispettare le consegne di un regista imprevedibile, in grado di trasfigurare il più polveroso dei melodrammi in un’opera viva, vitale, ultracontemporanea.
E’ anche vero che la “Witwe” polverosa non fu mai. Da quando fu rappresentata per la prima volta a Vienna il 28 dicembre 1905, al Teatro an der Wien, è un blockbuster internazionale. Successo a Vienna, repliche immediate a Londra, Berlino, San Pietroburgo, Milano, nel 1907 al Dal Verme, Parigi nel 1909, e da allora migliaia di rappresentazione e almeno cinque riduzioni cinematografiche per mano di registi del calibro di Ernst Lubitsch, con Maurice Chevalier e Jeanne Donald, o di Erich von Stroheim. Insomma, un’aura consolidata di allegria e dissipazione in nome dell’amore che trionfa, sull’orlo dell’apocalissi, non senza peripezie da teatro di Goldoni, con un ventaglio che passa di mano in mano, rivelando le più inconfessabili verità dei sentimenti.
Da perfetto antistoricista, il regista rivendica una lettura fuori tempo. Al centro dell’operetta la potenza del denaro
Autore di questa partitura sofisticata, ispirata a Strauss e Debussy, sorprendente per la varietà delle melodie, irresistibile per il mix di tradizioni musicali, raffinata per le citazioni (Schubert, Schumann, Brahms, Offenbach, Wagner), dove la vitalità del ritmo segna ogni singola frase e ogni battuta, fu un magiaro. Lehár Ferenc, in arte Franz Lehár, nato a Komárom in Ungheria, studia a Praga con Antonin Dvorák, entra nell’esercito dell’imperialregia monarchia e come direttore delle bande militari per anni gira in lungo e in largo le province dell’impero, suonando musiche popolari ceche, ungheresi, boeme, galiziane, rutene e italiane, un immenso bacino al quale attingere in quel mosaico multietnico che era l’impero di Francesco Giuseppe. Ma il merito del successo planetario fu anche dei librettisti, Victor Leon e Leon Stein, alias Victor Hirschfeld e Leo Rosenstein, due ebrei assimilati e gaudenti che dopo aver sceneggiato “L’Attaché d’Ambassade” vaudeville di successo del francese Henri de Meilhac, socio di Ludovic Halévy, decidono di affidarne la partitura a quel trentacinquenne magiaro, compositore semisconosciuto, autore di un famoso valzer (“L’or e l’argent”, composto per un ballo della principessa Metternich nel 1899) e destinato dopo tanta gloria a una fine infelice, morirà nel 1948 tacciato di filonazismo. Fu così che nel turbinio di festi e balli della Vienna imperialregia, descritta da Schnitzler, Zweig, Canetti e Joseph Roth, nacque “Die lustige Witwe”. Quirino Principe ricorda che Alma Mahler nel 1939 raccontò nelle sue memorie che nel 1907 andò a vedere l’operetta di Lehár col marito, grande compositore e direttore dell’Opera di Vienna. “‘La Vedova allegra’ ci mise così di buon umore che, tornati a casa, ci mettemmo a ballare e ricostruimmo memoria il valzer di Lehár”, scrive Alma Mahler Gropius Werfel ormai vedova di Mahler e moglie in terze nozze del verdiano Franz Werfel. “Anzi accadde una cosa comica”, continua la Vedova delle Arti, “per quanto ci sforzassimo non riuscivamo a ritrovare una certa modulazione; ma eravamo allora tutti e due di un intellettualismo tanto snobistico che ci vergognavamo di comprare il valzer. Andammo insieme nel negozio di musica Doblinger, e mentre Mahler intavolava una conversazione col direttore sulla vendita delle sue opere, io mi misi a sfogliare, con finta noncuranza, i numerosi spartiti e pot-pourri della ‘Vedova allegra’, finché non trovai il valzer e la modulazione che cercavo. Allora mi avvicinai a Mahler che si congedò subito, e per la strada gli cantai la modulazione, perché non mi sfuggisse di nuovo…”.
Una partitura sofisticata, ispirata a Strauss e Debussy, irresistibile per il mix di tradizioni musicali. Mise di buon umore anche i Mahler
Ancora oggi, dietro l’apparente frivolezza del chiacchiericcio in una banca di provincia, dei balli in una balera, dei sogni di un bancario senza illusioni, l’operetta di Franz Lehár, questo sottoprodotto dell’opera considerata la quintessenza del Kitsch, continua a metterci di buonumore, anche se sotto il divertimento pulsa la malinconia dell’amore di fronte alla fragilità della felicità, allo svanire della giovinezza, e al tramonto delle illusioni. Pazienza allora se un grande interprete della cultura della Krisis come Hermann Broch, (leggete “Hoffmanstahl e il suo tempo”, saggio del 1949, tradotto da Adelphi) parla di Vienna come “centro del vuoto europeo” e di “un disperato vuoto di valori” che trova conferma nell’operetta viennese, “imitazione appiattita a pura idiozia, dell’opera buffa e del suo romanticismo in parte amabile, in parte insulso” e pazienza se ne legge il successo mondiale come “il segno premonitore del precipitare del mondo intero in un inarrestabile vuoto di valori, destinato a crescere inesorabilmente”.
E invece Stefan Zweig, che aveva 24 anni quando debuttò “La vedova allegra”, e finirà bandito dall’Anschluss, privato di tutto, beni, identità e futuro, e suicida in Brasile con la moglie ventiduenne, trent’anni dopo avrebbe ricordato con nostalgia il privilegio di vivere nella capitale di un impero multietnico e vitale, sebbene decadente e in balia di tensioni ferali: “Vivere a Vienna, in quella città ospitale, pronta ad accogliere qualsiasi novità proveniente dall’estero e a donarsi completamente con generosità, era meraviglioso. Godersi la vita nella sua atmosfera lieve e come quella parigina pervasa di serenità era la cosa più naturale del mondo”. E infatti, Vienna, come tutti sanno – continuava Zweig nel suo libro postumo del 1942 (“Il mondo di ieri”, tradotto da Garzanti e da Mondadori) all’epoca era una città gaudente dove la cultura, con le lusinghe dell’arte e dell’amore, serviva a estrarre dalla materia informe dell’esistenza… “Suonare, danzare, recitare, conoscere l’arte della conversazione, sapersi comportare con eleganza e cortesia – ciascuna di queste cose veniva coltivata a Vienna come una vera e propria arte”. All’epoca il primato sociale – altra indicazione strategica per capire l’humus dell’operetta di Lehár – non spettava alla vita militare, e nemmeno a quella politica o economica, bensì al teatro e ai programmai del teatro imperiale, che per i viennesi era molto di più che un semplice palcoscenico sul quale recitavano degli attori: “Era il microcosmo che riproduce il macrocosmo, lo specchio attraverso il quale la società contemplava la propria immagine riflessa, l’unico vero Cortegiano del buon gusto”. Sarà per questo che oggi la Vedova allegra continua a parlare anche a noi contemporanei, cinici spettatori disillusi della fine dell’amore? Di sicuro, grazie alle diavolerie di Michieletto, l’illusione teatrale ci costringe a fare i conti, di nuovo e sempre, col segreto lavorìo del cuore.