L'incendio di Notre-Dame (foto LaPresse)

Il rogo di Notre-Dame e la mentalità magica

Guido Vitiello

L’esitazione tra pensiero logico e pensiero magico è qualcosa a cui ci siamo assuefatti quasi senza accorgercene

Davanti a Notre-Dame in fiamme, mentre oscillavo come tutti tra due congetture – incidente o attentato? – ho trovato il tempo di compiere su di me un piccolo esercizio di introspezione, una cosa da psicologia sperimentale ottocentesca; e ne sono riemerso con l’idea che il terrorismo ha cambiato le nostre abitudini di vita meno di quanto ci piace credere, ma in compenso ha cambiato, e a fondo, le nostre abitudini mentali. La prima cosa che mi è passata per la testa, osservando quel rogo, è la reminiscenza di una pagina di Jung sul pensiero magico letta qualche tempo fa: “Per noi è naturale dire: questa casa è bruciata perché il fulmine l’ha incendiata. Per il primitivo è altrettanto naturale dire: un mago si è servito del fulmine proprio per incendiare questa casa”. E per noi abitanti del mondo dopo l’11 settembre? L’esitazione tra pensiero logico e pensiero magico è qualcosa a cui ci siamo assuefatti quasi senza accorgercene, nei grandi e nei piccoli eventi, che sia l’incendio di una cattedrale o di un autobus romano (e oscilliamo anche in quel caso tra due sigle diversamente minacciose: Isis o Atac?). Può durare un’ora, un giorno, una settimana: non sappiamo esattamente come reagire finché non arriva la rivendicazione, che è per noi nuovi primitivi la firma dello stregone che si è servito del fulmine. E può capitare in ipotesi che il mago – ora che le reti terroristiche sono strane varietà di franchising che possono decidere se consentire l’uso del loro marchio, se dare il loro patrocinio simbolico – metta la firma su un sortilegio che non ha compiuto, o su un incidente dovuto al caso.

 

Sappiamo che non è stato un fulmine a incendiare Notre-Dame, eppure – ecco la seconda cosa che mi è passata per la testa, in quelle ore – si è ormai acclimatata nelle nostre abitudini mentali l’idea che anche i fenomeni naturali debbano essere sottoposti allo stesso tipo di scrutinio delle azioni umane, all’esitazione cioè tra spiegazioni razionali e spiegazioni stregonesche. Il che vuol dire, banalmente, che la mentalità magica si è fatta strada in noi molto più a fondo di quanto sospettiamo. Il primitivo che sonnecchiava in noi, e che ora è sveglio e sinistramente pimpante, porta a vedere dietro a ogni cosa – un terremoto, la diffusione di un virus, la malattia di una pianta – l’ipotetica presenza di una volontà maligna; e dal sottomondo umbratile delle credenze superstiziose, come dalla periferia brulicante della lunatic fringe, questo modo di pensare si è impiantato saldamente al centro ben illuminato del discorso pubblico. Mi è tornato allora in mente un film degli anni Novanta, “Ipotesi di complotto”, in cui Mel Gibson era un tassista convinto che la Nasa stesse creando ad arte terremoti per uccidere il presidente. Chissà se, a rivederlo oggi, molti spettatori lo troverebbero altrettanto stralunato.

 

Cause naturali usate come armi da volontà stregonesche; e anche – questa la terza idea che mi ha attraversato la mente davanti all’incendio della cattedrale – cose e situazioni della vita quotidiana che diventano imprevedibilmente minacciose, come un camion che di punto in bianco si mette a correre all’impazzata travolgendo tutti. È la rottura di un patto tacito, di una sorta di codice militare della vita quotidiana – qualcosa di simile all’infrazione che si consuma negli “Uccelli” di Hitchcock. Ma se ogni evento, naturale o umano, può essere interpretato o rivendicato come terrorismo; se ogni cosa, anche la più innocua, può essere usata come arma di un attentato; se la minaccia può venire da ogni direzione, ebbene: il terrorismo diventa pressoché indistinguibile dal caso o dal destino, i fulmini dello stregone e i kalashnikov del jihadista non sono altra cosa dai “colpi e le frecce dell’oltraggiosa fortuna” di Amleto. Altro modo per dire che il terrorismo fallisce come forma perversa di comunicazione politica, perdendosi nell’indecifrabile, ma trionfa suo malgrado come sottotesto metafisico. E ci avvicina, passo dopo passo, al primitivo di Jung: “Tutto ciò che non è in regola, tutto ciò che inquieta, spaventa, o stupisce, è dovuto secondo lui a quello che noi chiamiamo soprannaturale. Ma per lui non è soprannaturale, anzi appartiene al mondo della sua esperienza”. Ecco un’altra impalcatura traballante dell’edificio occidentale che dovremmo mettere in sicurezza.

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