I cugini Giuseppe Tomasi e Lucio Piccolo. Ritratto di un'élite in una Sicilia di preziosa favola
Due capolavori, due biografie che si intrecciano in un’unica solitudine. Il principe di Lampedusa e il barone di Calanovella coltivarono il diritto di essere isola nell’isola. E capirono subito, e favorirono, il valore letterario dell’uno e dell’altro
Come tutte le storie siciliane del Novecento, questa storia si svolge perlopiù dentro una casa, ma siccome questa storia è due storie allora anche le case sono due, almeno due e molte di più. Due sono gli scrittori protagonisti, almeno due i capolavori letterari, due le biografie che si intrecciano: c’è una parola tedesca per raccontare la relazione, né solo di parentela né solo intellettuale, fra i cugini Lucio Piccolo di Calanovella e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la parola è Zweisamkeit. Se Einsamkeit significa solitudine, Zweisamkeit è la “solitudine in due”, la beatitudine elitaria di una coppia che basta a sé, ha bisogno soltanto di un ritiro e di un giardino, vuole vivere asserragliata in maniacale riparo dall’alterità. Così, nella nostra storia a due voci che si svolge fra Palermo e Capo d’Orlando, in provincia di Messina, nel secolo scorso, ci sono due rami di una famiglia riservata e luminosa, una famiglia che ha fatto della diversità uno stile e una meta, che non si è incomodata né di piacere ad altri né di somigliare al popolo, e che ha vissuto con pienezza una solitudine aristocratica ed eccentrica, venuta allo scoperto solo a tratti e mitizzata dopo la morte dei suoi due più noti esponenti.
Innominata nelle poesie e logos strabordante nel romanzo, l’isola è sempre presente fra luci e buio, fruscii e chiese, incantesimi e follie
Oggi, quell’élite, con i due cugini isolati in lunghe giornate trascorse a parlare con i morti, a guardare l’isola di Salina che emerge nell’orizzonte di un parco orlandino e si profila nitida tra la pianura dei limoni, la distesa fitta degli ulivi, i colli e un mare senza confini – oggi quell’élite sarebbe tacciata di disimpegno, di mancata partecipazione a chissà che bene comune, a chissà che obiettivo sociale. Strafottente di ogni giudizio coevo o postumo, nelle stanze di Villa Piccolo, nei lunghi soggiorni presso i cugini Lucio, Casimiro e Agata Giovanna, Giuseppe Tomasi scrisse buona parte del Gattopardo, mescolando sulla pagina tutte le case della sua vita, mentre fuori scorrazzavano i fantasmi dei cani di famiglia, i cui nomi arabi sono oggi ricordati da piccole, precise lapidi: Mustafà, Alì, Muhammed, Pascià… Le stramberie, prime fascinazioni dell’elitismo di Villa Piccolo, ricascano su questa storia duplice e sulla vita di entrambi: avrebbe potuto, Tomasi, scrivere il suo capolavoro in un altro luogo?
I due cugini Lucio Piccolo di Calanovella e Giuseppe Tomasi di Lampedusa
L’elitarismo, dunque. L’isolamento del principe di Lampedusa e del barone di Calanovella non fu ordinario snobismo ma profonda richiesta estetica, esercizio di diritti fondamentali: il diritto di due creature nobili e selvatiche di fuggire l’affollata
Una famiglia che ha fatto della diversità uno stile e una meta, che non si è incomodata né di piacere ad altri né di somigliare al popolo
omologazione dei circoli palermitani, il diritto di due eruditi di essere letterati senza pagare pegno alla mondanità, il diritto a una solitudine assoluta e rumorosa, popolata dai fantasmi degli avi e dalle anime degli animali domestici seppelliti nel giardino della più misterica fra le due dimore. Il diritto a essere isola nell’isola: Giuseppe varcò lo Stretto per lunghi soggiorni all’estero da cui sempre rientrava, Lucio si spostò molto poco e, quanto a suo fratello Casimiro, si favoleggia che non si allontanò mai dalla Sicilia. Al giornalista Vanni Ronsisvalle, Casimiro confessò di aver visto per tre volte lo spettro di un cane morto anni prima: chi ha bisogno di scoprire il mondo se il mondo, nella sua manifestazione più spettacolare, viene a palesarsi direttamente in giardino? Il viaggio di Casimiro era attraversare la notte, ogni notte: di giorno dormiva, finché nel tardo pomeriggio si alzava, si radeva, si vestiva di tutto punto e attendeva le apparizioni. Studioso di metapsichica, era convinto che, nello sforzo di materializzarsi, i fantasmi dei gatti, dei cani e degli avi provassero un’insaziabile sete, perciò disseminava la villa di ciotole d’acqua.
La sorella, la baronessa Agata Giovanna, nel frattempo si vantava di aver portato e fatto attecchire in Sicilia la puja, una siepe tropicale che dava un fiore blu: a che serve andare incontro all’esotico, quando l’esotico sei tu, è casa tua? Se pure avessero molto viaggiato, i tre baroni di Calanovella non avrebbero scoperto nulla di più interessante di loro stessi. Quando Vincenzo Consolo, con l’entusiasmo dei provinciali, si trasferì a Milano dove sperava di trovare chissà che respiro, chissà che sommovimenti, Lucio provò a dissuaderlo così: “A Milano, con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno più fascino, suscitano interesse e curiosità”.
Se pure avessero molto viaggiato, i tre baroni di Calanovella non avrebbero scoperto nulla di più interessante di loro stessi
Fare avanti e indietro da Roma poteva servire a Leonardo Sciascia per le sue attività editoriali e politiche, trasferirsi a Milano poteva essere un’agognata meta per le ambizioni letterarie di Vincenzo Consolo, ma a Lucio Piccolo e Tomasi di Lampedusa non serviva viaggiare per sentirsi migliori, o per avere conferme e approvazioni. Tomasi poteva cercare corrispondenze delle sue letture, poteva desiderare di essere altrove per un tempo sufficiente a sentire rinascere il desiderio di tornare, ma la verità è che l’Europa, tutta l’Europa di cui i due cugini avevano bisogno si offriva dagli scaffali di quelle residenze che pure mezze crollate non morivano, non morivano mai; l’Europa non era spostarsi, era rimanere immobili e protetti nell’accurata costruzione di biblioteche originali e così poco localistiche dentro cui dialogavano Stendhal, Proust, Cervantes, Balzac, Dylan Thomas, W. B. Yeats, e ancora Omero, Lucrezio, Campana, D’Annunzio, i maestri del romanzo storico per l’uno e gli scritti esoterici per l’altro. La stessa via dell’isolamento eurocentrico fu poi proseguita da Gesualdo Bufalino, che fece di Comiso il centro del mondo e diventò uno scrittore siciliano traducendo Baudelaire; e, come accadde a Bufalino, anche per i cugini la fortuna editoriale arrivò tardiva o postuma.
Villa Piccolo, a Capo d’Orlando, in un acquerello di Casimiro Piccolo, fratello maggiore di Lucio.
Nelle sue stanze Giuseppe Tomasi scrisse buona parte del “Gattopardo”
Sia Piccolo che Tomasi erano spinti dal desiderio di salvare la Sicilia, o meglio Palermo, o meglio Capo d’Orlando, quel capo che prende il nome dal furioso paladino di Carlo Magno – di salvare tutto da un presagio di decadenza e sempre imminente scomparsa, di fissare quel mondo, il loro mondo, il mondo della famiglia dentro cui erano nati, e di immortalarlo in
A San Pellegrino Terme, Lucio Piccolo, presentato tra le novità più straordinarie della stagione, arrivò con il cugino e un servitore
fretta, come se stessero vivendo un’eterna vigilia della perdita. Tomasi regalò il suo passato al genere del romanzo storico e Piccolo alla scelta della lirica; e se fu Tomasi a scrivere la lettera con cui il cugino poeta si proponeva a Montale, fu poi Piccolo a perorare la causa del Gattopardo dopo il gran rifiuto di Vittorini a cui tre lettori avevano dato parere negativo. Ovvero, andò così: che innanzitutto giunsero a Eugenio Montale i versi di Lucio Piccolo accompagnati da una lettera in cui si diceva qual era l’intenzione, “rievocare e fissare un mondo singolare siciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da un’espressione d’arte. E ciò, s’intende, non per una mia programmatica scelta di un soggetto, ma per una interiore, insistente esigenza di espressione lirica. Intendo parlare di quel mondo di chiese barocche, di vecchi conventi, di anime adeguate a questi luoghi, qui trascorse senza lasciar traccia”. Quella lettera sembrò a Montale fastidiosamente descrittiva e gli creò un pregiudizio, smentito dalla lettura dei versi che invece lo ammaliarono, poi pubblicati con la sua introduzione e sotto il titolo di Canti barocchi. Insospettito dal divario fra un eccesso di parole e la reale, perfetta consistenza del materiale poetico, e trovata conferma nello stesso sospetto dichiarato da Montale, Sciascia ne chiese conto a Lucio che ammise: la lettera l’aveva scritta Giuseppe.
Uomini novecenteschi con tutto l’800 ancora addosso. Introvabili oggi le poesie dell’uno, mentre il libro dell’altro è acclamato e ristampato
Intanto, però, anche grazie a quella lettera, il tramonto di un’epoca era stato immortalato nelle nove liriche in cui, mai nominata, compare la Sicilia magica e mutevole che fugge dalla cartolina, quella Sicilia che pochi riescono a vedere. Evocata per mezzo dello stile e del lessico, l’isola si materializza così: “Pertugi, sgabuzzini, ambienti / nascosti tra le quinte / dove monomania / di specchi in ombra / accolse i sedimenti / d’epoche smorte, di fasi sbiadite / che il riflusso dei giorni in un torpore / lasciò fuori del sole”. Ancora oggi ogni siciliano impara la luce e il buio dalle poesie di Lucio Piccolo, ogni siciliano da lui impara che cos’è la morte e perché non si muore davvero: “Quando viene l’oscurità, e la casa si interiorizza, diventa ombra, spazio in cui andiamo errando e ritrovando le figure care, persone care che ci sono state vicine”, spiega Piccolo a Ronsisvalle.
L’editore Mondadori, dunque, pubblicò i Canti barocchi con la prefazione di Montale, che raccontò di aver ricevuto un libriccino “stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili”. Veniva, quel libriccino, da Capo d’Orlando, ed era uscito dallo stabilimento Progresso di Sant’Agata di Militello; leggendo quelle parole poco lusinghiere sul suo operato, il tipografo don Ciccino Zuccarello ritenne “frusti e poco leggibili” un’espressione intollerabile e, offesissimo, si mise a urlare “Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!”. Due anni prima, nel 1954, a San Pellegrino Terme si era tenuto un convegno di giochi letterari: fu lì che, per la prima volta, Giorgio Bassani vide Lucio Piccolo, presentato tra le novità più straordinarie della stagione, accompagnato da un cugino e da un servitore. L’apparizione del trio entrò nella leggenda: un poeta cinquantenne elegante e distratto, vestito di sicilianissimi abiti scuri, un erudito sessantenne taciturno, alto, corpulento, pallido, e infine un domestico abbronzato che non perdeva mai d’occhio gli altri due, preoccupandosi di farli tornare sull’isola così come l’avevano lasciata, vegliando che nulla del continente intaccasse quella loro inarrivabile aria demodé. Bisognava che i cugini, sconosciuti al grigio mondo editoriale e di certo piombati lì per deviarne almeno provvisoriamente il pigro andazzo, non fossero in alcun modo corrotti dalla breve incursione extraisolana – e chissà che quel servitore non fosse anche lui un vigilante fantasma.
L’Europa non era spostarsi, era rimanere protetti nell’accurata costruzione di biblioteche originali e così poco localistiche
In ogni caso, l’eccitazione destata dai cugini si esaurì nel giro di pochi giorni; presto si spense la curiosità di Cecchi, Piovene, Comisso, Parise e gli altri della combriccola per gli strani siciliani che si diceva leggessero Husserl e Wittgenstein in originale; la visione fu archiviata nell’aneddotica, e perlopiù dimenticata. Le poesie di Piccolo, per qualche periodo, restarono vive, suscitando echi immediati e potenti (“Hai visto quante soddisfazioni si è preso Lucio?” volle raccontare Casimiro alla madre morta, e lei dall’aldilà rispose battendo un sonoro colpo di approvazione al tavolo). Quella fortuna critica, però, non ebbe strascichi e non si ripeté. Trascorsi cinque anni dal convegno, giunse a Bassani un manoscritto che lo colpì; narrava le vicende di un certo principe Fabrizio di Salina, di suo nipote Tancredi Falconeri, dell’irresistibile Angelica Sedara, di Concetta e di un cane chiamato Bendicò. A Bassani, che lavorava per Feltrinelli, il romanzo piacque moltissimo, e una volta scoperto che era stato scritto da quel Tomasi che aveva brevemente conosciuto, poi morto per un tumore e la cui causa era stata ancora portata avanti dal cugino, si risolse a pubblicarlo; il resto è storia, dal successo di vendite e di critiche (con l’elogio di Eugenio Montale – di nuovo lui – che comincia la sua recensione così: “Lampedusa. Chi era costui? Fino a ieri nessuno poteva dire che questo fosse il nome di uno scrittore”) fino allo Strega strappato a Mario Praz, il grande favorito del 1959 con La casa della vita (quell’anno in gara c’era anche Pasolini con Una vita violenta). Un defunto, dunque, toglieva dalle mani il premio al designato destinatario: a Roma non si era mai visto niente del genere, ma a Roma cosa potevano sapere delle forze magiche degli spettri di una villa orlandina affacciata sulle Eolie? Potere della Zweisamkeit, della solitudine in due che la morte non aveva interrotto ma rafforzato.
Presto si spense la curiosità di Cecchi, Piovene, Parise per gli strani siciliani che si diceva leggessero Husserl e Wittgenstein in originale
La Zweisamkeit è una condizione che di rado le coppie raggiungono e di solito consumano in fretta, invece per il barone di Calanovella e il principe di Lampedusa fu solida e ininterrotta, ben dopo la vita: l’autoestromissione come esilio fertile di idee fece di loro gli esponenti di un’aristocrazia perpetua. L’affermazione della loro fortuna, oggi, può essere sentita così: esisto perché mi estraneo da ciò che mi circonda, esisto perché non mi confondo e sono uno soltanto, anzi due soltanto. Esisto in quanto isolato e nell’isolamento io stesso divento letteratura, la nobiltà perde ogni connotazione di classe e si fa élite per sopravvivere al tempo, per restare nella storia. Così, in quel loro modo complice e inaccessibile, i cugini che facevano a gara a chi di libri ne sapeva di più, a chi era più abile a scovare novità sconosciute, sempre si sostennero da vivi e da morti, si fecero sgarbi e scherzi, ebbero in custodia l’uno le scritture dell’altro; Zweisamkeit è anche l’irriducibile solitudine di ciascuno all’interno di quell’intesa: nessuno scrittore potrebbe essere più diverso dal poeta Lucio Piccolo del romanziere Giuseppe Tomasi – e viceversa.
Le poesie dei Canti barocchi e la storia del Gattopardo contengono tracce diverse di una Sicilia innominata nell’uno e logos strabordante nell’altro, ma sempre redistribuita fra luci e buio, fruscii e chiese, incantesimi e follie. E case, moltissime case: torniamo dunque a loro e ripartiamo da Villa Lampedusa a San Lorenzo Colli, nata alla fine del Diciottesimo secolo e abitata anche dagli Alliata di Villafranca, che vi portarono sostanziali modifiche, finché nel 1854 fu comprata da Giulio Tomasi, nonno di Giuseppe e ispiratore del gattopardesco don Fabrizio. Giulio la pagò con i soldi del risarcimento per l’espropriazione dell’isola di Lampedusa e ne fece la sede del suo osservatorio astronomico. Ecco, siamo lì: nel luogo conosciuto come Osservatorio ai Colli, con lo studio al pianterreno e la specola al primo piano, i telescopi e l’affascinante strumentazione di un aristocratico ottocentesco; ecco, siamo lì, creature in carne e ossa prendono forma tanto dentro la storia familiare dei Lampedusa quanto dentro il romanzo dei Salina. “Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina apparvero subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo”. Ecco, siamo lì, fra miti, simboli, stemmi e metafore: la casa innesca, nasconde, trattiene e imprigiona, non custodisce ma disperde. “Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone”, dice di sé Tomasi di Lampedusa, e la casa del Gattopardo è ricolma di oggetti che esplodono di una vita segreta. Ma cinque sono le case citate nei ricordi d’infanzia da Tomasi, che ne rievoca la frequentazione e le sorti. Della prima è sufficiente dire: “La amavo con abbandono assoluto”. Tra quelle mura il piccolo Giuseppe era signore, sovrano, governava e regnava su figure affettuose, per lui l’infanzia è territorio mitico, ideale. Dentro quelle case parlano le stanze: la stanza delle carrozze, quella delle bambine, le cucine. Parlano gli oggetti, e uno ci porta direttamente a villa Calanovella: “Al mio capezzale pendeva una specie di bacheca Luigi XVI, in legno bianco che racchiudeva tre statuine in avorio, la Sacra Famiglia, su fondo cremisi. Questa bacheca si è miracolosamente slavata e pende adesso al capezzale del letto nella stanza in cui dormo nella villa dei miei cugini Piccolo a Capo d’Orlando. In questa villa del resto ritrovo non soltanto la Sacra Famiglia della mia infanzia, ma una traccia, affievolita, certo, ma indubitabile della mia fanciullezza a Santa Margherita e perciò mi piace tanto andarci”.
Il diritto di due eruditi di essere letterati senza pagare pegno alla mondanità, il diritto a una solitudine assoluta e rumorosa
Se delle mura sontuose che ispirarono Il Gattopardo oggi resta poco, la residenza dei Calanovella, sulle colline intorno a Capo d’Orlando, con i suoi angoli fantastici, la biblioteca con migliaia di volumi, la collezione di acquerelli magici e il cimitero dei cani di famiglia è diventata un museo che attrae un piccolo costante flusso di originale turismo. Villa Vina, così chiamata dal nome di un torrente (in origine forse vena d’acqua, Villa Vena), la signora di tutto era una donna: Donna Teresa Tasca Filangeri vi si era trasferita negli anni Trenta insieme ai tre figli, Agata Giovanna, Casimiro e Lucio, voltando le spalle ai salotti di Palermo per trovare un luogo da cui conoscere il mondo senza il volgare obbligo di farne parte. Da lì, i tre fratelli non uscirono più: Agata si dedicò alla botanica e alla cucina, Casimiro alla fotografia, alla magia e alla pittura, Lucio alla poesia e all’esoterismo. O meglio: Agata coltivava orchidee, Casimiro dipingeva acquerelli liberty che ritraevano santoni e ciambellani, Lucio subiva la rapida dissolvenza dell’interesse letterario per il suo involontariamente esotico personaggio. Intanto, nella stanza degli ospiti, Giuseppe si autoimprigionava e scriveva, così che oggi dentro quelle pareti protette da ettari di terreno non vive solo il fantasma di Lucio (e quelli di Teresa, di Agata, Casimiro, dei cani) ma anche l’ombra inquieta dell’autore del Gattopardo.
Se un segreto dev’esserci, nella singolare a-sicilianità dei due scrittori più siciliani che l’isola abbia prodotto, quel segreto vive nella casa, e in tutte le case che hanno sfiorato. “Da molt’anni sono morti / i mandolini e le chitarre / ma questa notte / girano le serenate / tanto è antica la luna / e battono gli sportelli a gli androni / e risplendono i vetri / dall’alte balconate”, recitano versi di Lucio Piccolo tratti da Plumelia, e antica è la luna in una villa tanto sacra che meriterebbe di essere visitata a piedi nudi, per affondare nel suo mistero. “Come siamo poi lontani da ogni parnassianesimo e dannunzianesimo; e com’è scarnito, macerato e assottigliato il linguaggio!”, scrive Montale nella sua prefazione, ritraendo in poche parole lo stile di Piccolo. E
Voltarono le spalle ai salotti di Palermo per trovare un luogo da cui conoscere il mondo senza il volgare obbligo di farne parte
ancora: “Il suono di corno che ci giunge dal Capo d’Orlando non è l’Olifante di un sopravvissuto, ma una voce che ognuno può sentire echeggiare in sé”. Lucio Piccolo è un poeta del nostro tempo, constata Montale, talmente contemporaneo che non si sa che futuro avrà, talmente contemporaneo che il presente l’ha già buttato fuori. Allora, fantasma di una fulminea e trascorsa ventura, Piccolo cerca la giusta sorte per il romanzo di un altro fantasma, quello del cugino. Oggi che dell’uno le poesie sono introvabili mentre dell’altro il libro viene acclamato e ristampato e anche il più bello dei racconti, Lighea, gode di una certa circolazione, possiamo ancora, sempre rivedere i cugini nell’eterno scendere dal treno che dalla Sicilia li portò a San Pellegrino Terme. Sono lì, alteri e goffi e riservati, uomini novecenteschi con tutto l’Ottocento ancora addosso, scrittori lunari e spiritisti, imbevuti di matematica e storia e astronomia in ogni lembo della giacca, occulti eruditi che tanto sapevano senza essere sapienti, immateriali visioni carnevalesche in abiti composti, macchie di colore ultraterreno orgogliosamente estranee all’unico mondo che ai nostri occhi limitati è dato di vedere.