Genio e dissipazione
Gli schizzi cestinati di Richter. Bacon, Kafka, san Tommaso e l’opera d’arte nell’epoca della sua smaltibilità tecnica
Considerata la sua professione, direttrice della Marlborough Gallery, Miss B era un’appassionata di arte. Ma non è per questo che salvò dalla dissipazione d’artista molte opere di Francis Bacon. C’entra di più il mercato. La galleria lo aveva sotto contratto, e piazzò Valerie Beston, Miss B, direttamente nello studio di Bacon, incaricata di requisire le opere appena terminate, impedendo così all’artista di distruggerle per insoddisfazione. Anche buona parte delle opere di Alberto Giacometti, che di Bacon fu un quasi gemello di tormenti, sarebbero perdute se suo fratello Diego non avesse provveduto a preservarle, spesso nottetempo, dalla smania di Giacometti di rimettervi mano in continuazione. Il processo vinto giorni fa a Colonia da Gerhard Richter, ottuagenario pittore tedesco tra i più grandi dell’ultimo secolo, contro un artistucolo spiantato che aveva raccattato dal bidone della spazzatura quattro schizzi buttati da Richter per poi rivenderli, è un caso diverso: a chi appartiene la proprietà materiale e intellettuale di un’opera di ingegno? E una volta che è diventata spazzatura?
Questione sottile, su cui forse il giudice ha visto giusto poiché il trafugatore, condannato a una multa di tremila euro, non ha salvato un’opera d’arte, e nemmeno se l’è ritrovata casualmente tra le mani. Sapeva a chi apparteneva il bidone, e che avrebbe potuto trarne vantaggio. Poiché è ingiusto sospettare d’avarizia uno come Richter, le cui opere vanno vendute per milioni di dollari, va presa sul serio la sua motivazione: “Io non voglio che questi schizzi esistano sul mercato dell’arte”. Non lo voleva nemmeno Bacon, probabilmente, ma quantomeno lui aveva un contratto con una galleria. Tutto qui? O resta la domanda: a chi appartiene davvero un’opera d’arte? Que reste-t’il de nos amours?, cantava Charles Trenet. Ma che fine farà tutto il (nostro) creare e dissipare? Se il genio è patrimonio di tutti, che limite ha il nostro volere, il nostro copyright su noi stessi, nell’epoca del furto delle identità digitali?
La sopravvivenza di capolavori alla stessa volontà distruttiva degli autori è uno dei migliori paradossi dell’essenza dell’arte. A partire dal celeberrimo tra tutti, il tradimento dell’amico Max Brod che disattese la volontà di Kafka di distruggere i suoi inediti. Ci saremmo persi Il processo, Amerika, nonché l’imponente archivio di lettere e scritti fino ad oggi rimasto chiuso nel caveau di una banca svizzera, e che ora un tribunale ha deciso possa essere trasferito presso la Biblioteca nazionale di Israele, a disposizione di studiosi (ed editori). Altri casi sono più casuali. Un Rimbaud ormai fuori di testa dimenticò le copie di Una stagione all’Inferno in una tipografia di Bruxelles e solo trent’anni dopo uno studioso le ritroverà. Non c’è solo il tormento o la follia. Un santo posato come Tommaso d’Aquino prima di morire disse al suo fidato scrivano Reginaldo che la Summa Theologiae “gli sembrava paglia”, probabilmente le avrebbe dato fuoco. Reginaldo considerò che non fosse il caso, altrimenti la storia della filosofia avrebbe preso un altro indirizzo.
Ma nemmeno questo è il caso degli schizzi di Richter. Che invece hanno a che fare con qualcosa più vicino a noi e all’opera d’arte nell’epoca della sua smaltibilità tecnica. Talento del mercato in virtù della negazione del mercato, Banksy ha prodotto la famosa gag del suo quadro fatto a strisce nel mentre la casa d’aste lo stava battendo. Per affermare, in teoria, l’indiscussa proprietà intellettuale, o la sua inesistenza. Con il calcolato risultato di moltiplicare il valore di un’arte volutamente trasformata in materiale da cestino. Forse siamo nell’epoca dell’economia circolare delle opere dell’ingegno: il talento si ricicla e non va mai sprecato. Ma la monnezza di Roma, sarà tutta della Raggi?