Jonathan Franzen (foto LaPresse)

Salvare il pianeta e/o salvarci dall'atrofia digitale. Moralità difficili

Alfonso Berardinelli

Per uno scrittore, ragionare può essere meglio di raccontare. Un po’ troppo ambientalismo autobiografico, ma con idee

C’è qualcosa che ho capito meglio leggendo il libro di saggi La fine della fine della terra di Jonathan Franzen (Einaudi, pp. 208, euro 18,50), libro in cui a volte si ragiona e a volte si racconta. Non ho potuto evitare di riflettere sul suo raccontare e ragionare. Quanto ad attitudini narrative, per quanto mi riguarda, sono vicino allo zero: non riesco ad andare oltre le dieci o venti righe. Ma non è la prima volta che noto, quando provo a leggere narrativa di oggi, quanto può essere noioso uno storyteller che non si identifica abbastanza con chi lo leggerà. Succede anche fuori dalla letteratura, con persone che ti raccontano troppo in dettaglio troppe cose di altre persone di cui non ti importa niente. Franzen mi sembra un romanziere piuttosto intelligente, molto consapevole e ambizioso, a cui manca tuttavia, come a molti contemporanei, il dono di catturare l’attenzione del lettore già con il ritmo e il tono delle prime frasi, con la scelta immediata e naturale delle cose da dire o non dire. Credo che questo sia il primo e più vero problema del romanzo e riguarda più il personaggio e l’ambientazione che la trama. A volte succede perfino a Dickens e a Proust di cominciare a essere noiosi quando credono di divertire molto o di coinvolgere profondamente, mentre sembrano chiusi nella propria testa. E’ più difficile che succeda con Omero o Cechov, Svevo o Dostoevskij.

 

Sto diventando noioso? Era solo per dire che ogni lettore è come è, nessun lettore è perfetto e ogni testa di scrittore ha il suo cervello. Il semplice “raccontare storie”, che oggi è una fissazione, non è detto che attragga i lettori, se il raccontare non è nello stesso tempo un modo di ragionare. C’è poi chi trova noioso il ragionare o fingere di farlo senza mai circostanziare il chi, il dove e il quando, il come e il perché. E questo succede a diversi filosofi moderni, da Kant in poi.

 

Tornando a Franzen, fin dalle prime righe di questo libro di saggistica viene lodata la saggistica, anche se poi l’istinto dello storyteller gli prende troppo spesso la mano e ogni tanto aneddoti piuttosto inutili soverchiano idee interessanti.

 

La fine della fine della terra è una raccolta di pezzi o troppo autobiografici o molto ambientalistici in cui emerge il lato maniacale dell’autore. Come birdwatcher e ambientalista non è un buon narratore e d’altra parte non sono molte le idee comunicate di cui non fossimo già al corrente. Mi sembra che i saggi più interessanti siano “Salva quello che ami” e “Capitalismo in iperguida”. Nel primo vengono discusse le passioni e le vocazioni morali e politiche universalistiche alimentate esclusivamente da idee giuste e doveri che si presentano per principio indiscutibili. La questione è posta con il massimo di chiarezza in una delle pagine iniziali: “Sarà perché sono cresciuto in una famiglia protestante e poi sono diventato ambientalista, ma ho sempre trovato una certa affinità spirituale tra l’ambientalismo e il puritanesimo del New England. Entrambi i sistemi di credenze sono ossessionati dall’idea che essere umani significhi di per sé essere colpevoli. Nel caso dell’ambientalismo, l’idea è fondata su prove scientifiche (…) gli esseri umani sono assassini universali del mondo naturale. E ora i cambiamenti climatici ci hanno fornito un’escatologia per fare i conti con il nostro senso di colpa: presto, in un domani infernalmente surriscaldato, arriverà il giorno del giudizio. A meno che non ci pentiamo e cambiamo vita. Saremo tutti peccatori nelle mani di una Terra infuriata con noi. Sono ancora sensibile a questo genere di puritanesimo (…) Ma da quando ho cominciato a osservare gli uccelli e a preoccuparmi per il loro benessere, ho sentito il richiamo di una varietà di cristianesimo che controbilancia l’altra, ispirandosi all’esempio di san Francesco d’Assisi nell’amare le creature concrete e vulnerabili che abbiamo sotto gli occhi”.

 

Direi che qui ci siamo. Il saggista parte da uno spunto autobiografico per arrivare alle idee e trova una buona e utile idea per arrivare a un impegno ambientalista personalmente motivato. Per non diventare ideologico e nevrotico, il senso di colpa deve riguardare il senso di responsabilità verso qualche essere vivente che si ama. Risulta abbastanza chiaro che Franzen ama più gli uccelli che gli esseri umani, e questa è una delle tante forme di misantropia tipica dei moralisti sociali. Il suo è comunque un amore reale (benché un po’ maniacale, come tutti) e “l’amore dà più motivazioni del senso di colpa”. Ma perché il romanziere Franzen dimentica che non c’è vero senso di colpa senza un vero amore?

 

Il messaggio è che nessuna buona coscienza universalistica è immune da ipocrisia se non rivela un autentico impulso “egocentrico”. Voler salvare la Terra e l’intero genere umano è bello e generoso, ma richiede un’immaginazione morale e direi filosofica non comune, simile a quella di coloro che dicono di volere una rivoluzione sociale radicale senza dirci per il bene di quali esseri umani e in vista di quale modo di vivere. L’ambientalismo di un innamorato osservatore degli uccelli avrà appunto qualcosa di maniacale, ma è credibile. L’ambientalismo di noi italiani credo che sia più credibile soprattutto se riguarda la qualità del cibo, l’ultimo valore a cui ci aggrappiamo in un mondo troppo incerto e carico di problemi la cui soluzione, semmai ci sarà, viene rimandata a un futuro ignoto.

 

Nel breve saggio “Capitalismo in iperguida” Franzen commenta e approva il libro di Sherry Turkle La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale. Qui approvo anch’io, perché una delle mie idee fisse è che senza conversazione non c’è cultura, anche nel caso che ci siano informazione, erudizione e studio. “La nostra estatica sottomissione alla tecnologia digitale” dice Franzen “ha portato all’atrofizzazione di capacità umane come l’empatia e l’introspezione”. Sono in aumento le persone “che hanno adottato nuove tecnologie in cerca di maggiore controllo, ma hanno finito per sentirsi controllate da esse (…) comunicano senza sosta ma hanno sempre più paura delle conversazioni faccia a faccia (…) Molti elementi della nostra umanità sono a rischio quando li sostituiamo con la comunicazione elettronica” fatta di “messaggistica compulsiva”, “tirannia delle email di lavoro” e “attivismo on-line”. E ovviamente “le nostre tecnologie digitali non sono politicamente neutre”.

 

E’ vero, ma in che senso? Non nella lotta fra destra e sinistra, credo, ma perché mutano e peggiorano, impoveriscono la qualità psicomentale e sociale dei rapporti comunicativi. Una peggiore socialità non produrrà mai una migliore politica. E poi esiste anche l’alimento mentale, oltre che quello fisico. Al mondo non c’è niente di puro, ma contaminazione, veleni e mancanza di sapori sono cose reali, sia quando si mangia che quando si parla.

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