La scultura "Building Bridges" dell'artista Lorenzo Quinn (Foto LaPresse)

Perché un mondo sinistro e minacciato è quello più interessante per l'arte

Sofia Silva

La 58° Biennale di Venezia, il direttore Rugoff e i 79 artisti. Perché questa edizione sarà diversa da tutte le altre

Venezia splende con sempre maggior fulgore. Nel corso degli ultimi anni, le gallerie internazionali Victoria Miro, Alma Zevi, Alberta Pane, oltre che la russa V-A-C Foundation si sono affiancate a Fondazione Prada, alla Pinault Collection, alle istituzioni e ai grandiosi musei veneziani per far sì che Venezia sia la città dell’arte anche nei mesi invernali. Se poi si pensa a questi mesi primaverili ed estivi, le chiese e i nobili palazzi sfilano in rassegna, ognuno custodendo mostre di inestimabile valore: Palazzo Grimani con Helen Frankenthaler, Palazzo Contarini Polignac con Günther Förg, la Chiesa di Santa Maria della Visitazione presenta James Lee Byars, le Gallerie dell’Accademia mostrano Georg Baselitz, Palazzo Cavanis espone Pino Pascali, per citarne alcuni.

 

I detrattori delle grandi kermesse internazionali possono poco contro quella che chiamo “emozione da Giardini”, l’eccitazione che ogni due anni preannuncia l’ingresso ai Giardini della Biennale, quel mini-mondo di architettonica grazia che, tra l’acqua e i pini, presenta al visitatore gli artisti del proprio tempo. Ralph Rugoff della Hayward Gallery di Londra è il direttore della 58° Biennale d’Arte di Venezia. Per la mostra internazionale, che come da tradizione occupa gli spazi delle Corderie e Artiglierie dell’Arsenale e del Padiglione Centrale ai Giardini, Rugoff ha scelto il titolo “May You Live in Interesting Times”.

 

“Che tu possa vivere in tempi interessanti”, racconta il direttore, è un antico (e inautentico) anatema cinese rievocato dal parlamentare britannico Sir Austen Chamberlain alla fine degli anni Trenta. I “tempi interessanti” appartengono alla crisi e all’inquietudine. Rugoff ha invitato 79 artisti a riflettere “sugli aspetti precari della nostra esistenza attuale, fra i quali le molte minacce alle tradizioni fondanti, alle istituzioni e alle relazioni dell’ordine postbellico”. Insomma, chi attendeva l’avvento di una Biennale puramente formalista, castamente fenomenologica e art for art’s sake fino alla più sublime ottusità, dovrà protrarre il proprio sperare. Pur sostenendo che l’arte non può esercitare forze in ambito politico, Rugoff crede nella funzione sociale dell’arte e a questa dedica la propria Biennale. Per il direttore l’arte sembra quasi costituire uno strumento ausiliario del pensiero sociale, una chiave per accedere a una kata-strophé del punto di vista sul dato di fatto.

  

 L'opera dell'artista romeno Andra Ursuta alla Biennale di Venezia (Foto LaPresse)


  

Oltre al già citato Chamberlain, i nomi evocati da Rugoff nella propria dichiarazione di poetica sono quelli di Leonardo da Vinci e Vladimir Lenin, teorici dell’interconnessione tra le cose. Nel 2015 il curatore Okwui Enwezor, tristemente e prematuramente deceduto quest’anno, proponeva in occasione della Biennale costanti letture da “Il Capitale”; mentre Rugoff annuncia una serie di “incontri ludici” che coinvolgeranno gli spettatori. La storia della Biennale è sempre più una storia di diversi approcci all’idea di militanza. Per l’art system, nel corso degli ultimi dieci anni, la “funzione sociale dell’arte” è stata al contempo missione, religione, luogo comune e tabù. L’arte visiva, in ogni suo linguaggio, sta cambiando in maniera talmente repentina da sfuggire alle analisi e alle teoresi. Parafrasando il titolo di Rugoff, si respira una strana aria. Per questo, ancor prima di giudicare il reale impianto curatoriale e artistico di questa Biennale, è interessante analizzare le precise parole del Direttore; per esempio: “Un’intelligente attività artistica richiede la creazione di forme che mettano in risalto ciò che le forme stesse nascondono e le funzioni alle quali ottemperano. La Mostra metterà l’accento sull’arte che sta tra le categorie, e che mette in discussione le ragioni del nostro pensare per categorie”. All’arte è dunque affidato il compito di svelare la mistificazione delle forme esistenti (sociali, politiche) tramite forme nuove.

 

In un articolo pubblicato da “The Art Newspaper”, il premio Pulitzer per la critica d’arte Jerry Saltz si congratula con Rugoff per aver scelto di lavorare con artisti nati in maggioranza negli anni Settanta e Ottanta. Abbandonando la pratica ormai piuttosto consolidata di imperniare le grandi rassegne intorno a nomi del secondo Novecento o a maestri misconosciuti, Rugoff punta tutto sull’arte creata in questo decennio; il più giovane artista è Augustas Serapinas (nato nel 1990 in Lituania, vive e lavora a Vilnius). Tra le opere di Serapinas presenti in Biennale, la serie “Chair for the Invigilator” (2019), sedute rialzate simili a quelle dei bagnini o dei vigilanti, utili a guardare la folla da una posizione al contempo pragmatica e trionfale.

 

Martine Gutierrez è nata nel 1989. In “Indigenous Woman” utilizza il proprio corpo per inscenare false pubblicità facendo la parodia della feticizzazione delle identità etniche. Lawrence Abu Hamdan è nato nel 1985. Musicista sperimentale, lavora con tutto ciò che è ascrivibile alla sfera del suono nella pratica forense; dunque il suono e le sue alterazioni in connessione all’idea di traccia e sorveglianza. Soham Gupta è nato nel 1988. Le sue serie fotografiche presentano ritratti di persone immortalate di notte lungo le strade dei sobborghi di Calcutta. L’artista invita i propri soggetti a scegliere una posa, ad assumere una posizione narcisistica; ne risulta un ritratto della povertà del tutto inedito, crudo e avulso dal vittimismo.

 

La mostra internazionale della Biennale presenta inoltre il lavoro di due artiste italiane: Lara Favaretto (classe 1973) e Ludovica Carbotta (classe 1982). Carbotta espone il work in progress “Monowe”, iniziato nel 2016. “Monowe” è una città immaginaria, a metà tra rovina e cantiere, destinata a un unico individuo che appare unicamente nelle vesti delle infrastrutture o delle tracce oggettuali che lo concernono.

 

“May You Live in Interesting Times” è la mostra internazionale di una Biennale precisa, architettata con coerenza, semplicità e una certa morigeratezza, priva di orpelli anche nella grande maggioranza dei padiglioni nazionali. Ne emerge un mondo risolutamente e metabolicamente sinistro, un universo che ha accettato, incorporato e iniziato a sorvegliare elementi ambigui, ricco di oggetti dalle vistose ambivalenze formali, analizzate, smontate, rimontate con dichiarato sospetto. La figurazione è greve, non surreale né iperrealistica, bensì aumentata, alienata al punto da anestetizzare lo spettatore verso qualsiasi forma di distopia. Questa Biennale non parla del mondo che sarà, ma del mondo che è già, dietro a quello che noi vediamo; la stragrande maggioranza delle opere è interpretabile come un bozzetto rivelatore, talvolta perverso, di un corrispettivo prodotto finito (normalizzato, edulcorato) introdotto nel reale quotidiano.

 

Per questo quando si riprende il vaporetto o il motoscafo diretti a una festa o a una cena, dopo aver spanto d’arte la propria mente per ore e ore, il veneziano teatro delle acque, nella sua fragilità che non pensa al domani, appare dolce e commovente, non seducente, ma rassicurante.

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