Roman Stanczak, “Flight”, 2018. Padiglione Polonia (foto LaPresse)

Com'è confusa e felice Venezia

Michele Masneri

La nebbia ai Giardini, il labirinto italiano, gli spritz e il fuorisalone. Un giro alla Biennale d’arte

Si chiama “May you live in interesting times”, la Biennale d’arte che apre oggi al vasto pubblico a Venezia, intendendo forse “Instagram times”, perché poi l’unico motivo vero per cui si è tutti qui, ammettiamolo, è di postare foto e stories imprescindibili. “Interesting times”, citando il vecchio proverbio-minaccia politico, perché i tempi interessanti son sempre sinonimo di casino e guai; e questa cinquantottesima edizione intende riassumere tutte le complessità e perplessità della nostra interessantissima epoca.

 

La Biennale apre oggi al pubblico, ma già è visitata e storicizzata dal popolo delle anteprime, che veste come quello della moda, solo un po’ più finnico, con molti cappottini nordeuropei, tutine, occhialetti d’oro tondi, e in generale meno burinaggine asiatica e meno marchi. Questa élite antipopulista sciama tra i giardini e l’Arsenale, e tra le centinaia di eventi collaterali, tra vaporetti e passatoie, spritz e peoci, gondole made in China ed eventi tutti imperdibili ed esclusivi: come al solito si corre da una parte all’altra senza il tempo di soffermarsi su nulla; così la complessità sfugge e si finisce per apprezzare soprattutto le opere-basic più immediate. Come non amare dunque il nebiun sprizzato dagli augelli del padiglione centrale ai Giardini, colossale nube acquea opera di Lara Favaretto, che ci rende tutti gorilla nella nebbia e pare la più interessante trovata per dare l’idea della gran confusione sotto il cielo veneziano-globale? Il risultato poi genera subito perfetti equivoci su Instagram: madonna! Che tempo! Hai portato l’ombrello? dicono anche dei sofisticatissimi che son rimasti a casa, e allora finalmente gli si può sbottare in faccia: è un’opera! E loro: stravolti. E però, il curatore della mostra, l’americano Ralph Rugoff, aveva avvertito, invitando “a guardare con sospetto a tutte le categorie, i concetti e le soggettività che sono date per indiscutibili”, contro ogni semplificazione. E gli artisti lo prendono in parola, si son scervellati.

 

L’edizione 2019 si chiama “May you live in interesting times”. Anche se i tempi interessanti sono sempre sinonimo di casino e guai

Così pure lo spruzzino instagrammabile non è che parte di un’opera più vasta, i vapori provengono e conseguono infatti da uno stanzino in cui oggetti vari sono accatastati in una specie di ufficio oggetti smarriti, con parole e definizioni intercambiabili (“surplus”; “cosmopolita”; “fantasma”; “confine”), risultato di segrete riunioni di intellettuali che clandestinamente si riuniscono e le spostano arrivando a lingue e significati provvisori; e il vapore che sale dal tetto del padiglione giustamente è come fumo dal cervello (citazione di Alighiero Boetti, “mi fuma il cervello”, appunto). I francesi, nel padiglione attiguo, fanno intanto vapore pure loro (appropriazione culturale? Chissà se lo sa la Meloni).

 

 

 

Altra opera-mondo (mondo-cane), è il robottone spazza-sangue dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu (foto sopra): che in una teca gigantica di sette metri per sette nel padiglione centrale dei Giardini effettua movimenti tipo catena di montaggio a ripulire un pavimento da un liquido alla Dario Argento, ogni tanto sculettando e dandosi un buffetto sulle metalliche membra; della serie sta mano po’ esse piuma e po’ esse fero (ma i cinesi sembrano sempre prendere queste biennali molto come uno Smau delle potenzialità tecnologiche anche paurose: al bellissimo padiglione della Repubblica popolare all’Arsenale, forse sponsorizzato da Huawei, ecco video giganti con zoom invasori di ogni privacy e riconoscimenti facciali e riprese satellitari). Sempre rimanendo alle dittature, hard o soft, gli amici russi mettono in scena nel loro padiglione moresco una parabola del

Opera-mondo (mondo-cane), è il robottone spazza-sangue dei cinesi. Neoclassico, tipo “Via col vento”, il padiglione americano

figliol prodigo, opera più celebre dell’Ermitage qui ripresa dal regista star Alexander Sokurov in una installazione un po’ oscura e inquietante che mostra un atelier d’artista affacciato su un mondo di tumulti e guerre (e il senso, forse, è: carissimi europei, siam qui con le braccia aperte, ma state all’occhio). Di fronte, per smorzare il pathos geopolitico, tante signorotte lapponi scutrettolano un po’ sovrappeso e curvy tra i padiglioni finnici tutti dedicati agli innalzamenti dei mari e ai climate change; mentre gli americani nel loro padiglioncino neoclassico tipo Via col Vento scelgono un raffinatissimo ottantenne come Martin Puryear per mettere in scena grandi sculture un po’ da Anish Kapoor, escatologiche o gastrointestinali, che poi si rivelano essere berretti frigi, simbolo supremo di questa libertà agognata. Libertà da cosa? A caso: dalla mascolinità tossica (e così, grandi corni d’alce a testimoniare tribù scomparse “per troppo testosterone”); dal colonialismo (e giù raffinatissime carrozze in equilibrio e in bilico); tutto però in raffinate palette di colori dal grigino al marrone al bordeaux per raccontare un concetto ormai rarefatto, la “libertà” cui è dedicata la sua esposizione, insomma anche qua un bel concetto che si porta su tutto come un tailleur Armani, ma poi a definirla son guai.

 

E l’Italia, l’Italia come sta? Al padiglione italico la confusione è totale, voluta; il curatore gender fluid, Milovan Farronato, confuso e felice, ha messo su un labirinto bifronte in cui perdersi facilmente tra specchi, false prospettive, buchi tipo tana del topo; teche come in un museo di provincia degli anni Ottanta, tra piazzole con sdraio e ombrelloni dove altoparlanti cantano Bella Ciao in molteplici lingue, e presepi come quello di Liliana Moro, affollatissimo, con una famiglia naturale alla frutta: Gesù bambino sta solo con la Madonna, mentre San Giuseppe latita, è sceso di sotto in una specie di party pieno di gente sbevazzante col calice alla Teomondo Scrofalo, forse rimando ai calicini della stessa Biennale. San Giuseppe beve. Giustamente. Per dimenticare, questi tempi complessi; e come biasimarlo, leggendo la citazione calvinista nel catalogo-libro d’arte assai chic (calvinista nel senso di Italo: “Le macchine sono più avanti degli uomini; le cose comandano le coscienze; la società zoppica e inciampa da tutte le parti cercando di tener dietro al progresso tecnologico”, scriveva Calvino nella sua “Sfida al labirinto”, correva l’anno 1962, ma non pare cambiato molto).

 

Confusione anche geopolitica: il padiglione del Venezuela proprio chiuso sbarrato, il padiglione bellissimo disegnato da Carlo Scarpa. Qualcuno depone una rosa rossa sulla scalinata, un pensiero corre a Caracas dove salta la corrente e serpeggia la rivolta, e insomma non si avrà tempo né soldi per l’arte (dovrebbe servire come esempio, diciamo. Con la dittatura non si mangia). Poi però ecco la notizia, il padiglione aprirà, dice il presidente Paolo Baratta, che quest’anno festeggia la sua ventesima edizione. Aprirà tra qualche giorno. Il 17. Forse gli dovranno riallacciare la corrente.

 

A nessuno è venuto in mente di metter su un bel padiglione “Casa Pound” magari ricreando gli interni dell’abitazione veneziana del poeta

Ma se “esce” il Venezuela, entrano nuovi paesi, Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan; e il primo diventa subito tormentone (“vai a vedere il Ghana”, “vale la pena solo il Ghana”, ti scrivono anche delle dame da Roma che hanno visto delle stories di qualcuno che forse ci è andato o ha ripostato qualcun altro). I tormentoni cambiano di ora in ora, “pazzesco il lituano”, e allora tutti al lituano, dove una spiaggia immaginaria pullula di suoni e canti (mentre all’ultima Biennale d’architettura il non plus ultra era il padiglione Vaticano). Mitologie anche per feste e party e i collaterali dove tutti corrono stravolti, “a quello francese 4.000 ospiti mentre c’erano solo 300 inviti”, e poi si rimane sempre fuori a bere degli spritz già vituperati dal New York Times: il quotidiano americano ha decretato proprio ora che il drink veneziano fa schifo. Giornalismo a orologeria.

 

Ci mancava solo questo: avanti allora tra le calli i campielli i porteghi e i sotoporteghi a cercare di decifrare la realtà complicatissima in un fuorisalone delirante tra entrate “priority” dei vaporetti e il cancello elettrico tipo Faac che sbatte contro un muro, opera dell’indiana Shilpa Gupta non lontano da un muro trumpiano col suo fil di ferro (altre metafore). Quello degli “interesting times” era poi un detto che usava volentieri anche la compianta Hillary Clinton, e qui allora ecco in un Despar che era un tempo un cinema, tutte le 60mila email dell’ex segretario di Stato finite sul server incriminato tra il 2009 e il 2013. Stampate, impilate, da un’idea del critico e artista americano Kenneth Goldsmith all’interno del Teatro Italia, ex sala cinematografica inaugurata nel 1916 che tre anni fa è stata convertita in un supermercato della catena di supermarket, allestito dal duo Francesco Urbano Ragazzi con riproduzioni dello Studio ovale.

 

Al padiglione polacco, invece, un’Ustica dell’1 per cento, con l’oggetto e fondale principe di tutte le instagrammature, il jet privato, squarciato in due tra i sedili (in pelle) contorti e rivoltato tipo tarte tatin (“Flight”, opera di Roman Stańczak). All’Arsenale, tra le motovedette dei Carabinieri e della Polizia, e non lontano da yacht sibaritici di visitatori della Biennale molto liquidi, ecco il natante ideologico, la Barca Nostra dello svizzero Christoph Büchel, lo stesso che quattro anni fa aveva fatto già parlare di sé con la creazione di una moschea per il padiglione islandese. Quest’anno invece ci presenta il relitto squarciato del peschereccio libico simbolo della strage di migranti avvenuta il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia. Fece 700 vittime. Dopo il recupero a 350 metri di profondità, dal giugno 2016 il barcone si trovava al pontile Nato della Marina militare di Augusta, dove era stato trasportato, dopo la rimozione e il riconoscimento delle centinaia di salme ancora dentro lo scafo. Partito dalla Sicilia il relitto è giunto nel porto commerciale di Venezia e poi una chiatta lo ha trasportato nel bacino dell’Arsenale. La barca, tutta sfondata, è arrivata finalmente qui ed è stata issata con fatica su dei trespoli d’acciaio che si son pure piegati (altre metafore); dovrebbe proseguire il suo viaggio verso Bruxelles in un road show di massima visibilità (e la Diciotti? La vedremo presto a Manifesta? A Documenta? Alla Serpentine? Che valore può avere di mercato?).

 

Al padiglione italiano ci si perde tra specchi e false prospettive, tra piazzole con sdraio e ombrelloni dove altoparlanti cantano “Bella ciao”

Anche la monnezza va sempre tantissimo: sacchi di indifferenziata in gabbie toraciche ai Giardini (“Divorce Dump”, dell’artista romena Andra Ursuta, che smaltisce reperti di un matrimonio andato male) alternati a mucche su rotaie e moto segate in due con tute da motociclisti reduci da importanti accidenti stradali; e finti sacchi Ama però iperrealisti in marmo dello scultore Andreas Lolis; invece sacchi di plastica che pisciano nel padiglione spagnolo. E poi addirittura l’isola-cornucopia di rifiuti plastici dello statunitense Christian Holstad, parcheggiata di fronte a Cà Giustinian per sensibilizzare gli umani sull’uso della plastica (ma la cornucopia di monnezza non andrà a Bruxelles, pare. Rimane qui).

 

 

Lara Favaretto, “Thinking Head”, 2018 (Courtesy: La Biennale di Venezia)

  

Per districarsi in tutto questo ben di Dio, il curatore Rugoff ha inventato due proposte, due percorsi culinari come ai ristoranti stellati: uno di terra (all’Arsenale) e uno di mare, ai giardini, con ingredienti diversi degli stessi artisti (Favaretto per esempio ha la nebbia leggera ai Giardini, e mammozzoni di cemento in cui si è rotolata all’Arsenale). Il pubblico, ulteriormente disorientato, vorrebbe solo ubriacarsi di spritz, ma non si può più bere neanche quello. Tempi interessanti. E però, a nessuno è venuto in mente di metter su un bel padiglione “Casa Pound” magari ricreando gli interni dell’abitazione veneziana del poeta, che qui visse e fu sepolto a San Michele accanto a Stravinskij e Daghilev; che stories si sarebbero fatte, che polemiche. Altro che Salone del Libro.

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