Il Diletto Dittatore
Proibire Identità (e bellezza) per abolire l’Invidia. Un gran romanzo del 1960, molto attuale
[Leggere letteratura è il modo migliore per aprire spazi di riflessione quando l’orizzonte del pensiero sembra farsi sempre più chiuso e stagnante. Dopo il successo di “Liberi dal populismo”, il Foglio e Liberilibri danno vita a una nuova collana composta di testi narrativi che sfideranno il lettore a rimettere in discussione i più consolidati paradigmi culturali contemporanei. Si inizia con “Giustizia facciale-prima parte”, il romanzo distopico di Leslie Poles Hartlet]
Nel mondo emerso dalla Terza guerra mondiale, che ha ridotto la popolazione della Terra a pochi milioni di persone, in Inghilterra comanda un dittatore benevolo e invisibile. Tutte le politiche sociali sono tese all’eguaglianza, all’indifferenziazione, all’aspirazione verso l’identico così da non generare il terribile sentimento dell’invidia che è la porta attraverso cui entrano nella società i sentimenti peggiori: il risentimento, l’odio, la volontà di uccidere, ovvero tutte quelle pulsioni che hanno portato il mondo ad autodistruggersi. Identità e invidia sono quindi considerate le due polarità attraverso cui orientarsi, le due I: la I buona (l’Identità) e la I cattiva (l’Invidia).
Sono questi i presupposti di “Giustizia facciale”, la distopia uscita dalla penna del grande e trascuratissimo autore inglese Leslie Poles Hartley, un soccorrevole inferno egualitario tanto preoccupato di tenere a bada il sentimento sempiterno dell’invidia da voler rendere tutti i volti di donna uguali a quelli delle altre. Uscito nel 1960, questo libro si distingue da tanti altri racconti distopici dello stesso periodo innanzitutto per la rappresentazione del regime, non ferreo e brutale ma benevolo, animato dai migliori sentimenti e che vede negli uomini dei discoli che devono essere accompagnati sulla retta via senza mai dimenticare che l’animo umano è sempre incline a riempirsi di invidia e a generare guerre. Bisogna proteggere i cittadini da loro stessi, cittadini considerati come Pazienti e Delinquenti da curare con amore per farli guarire dalla loro malattia morale.
Il pregiudizio contro la bellezza è, in un certo senso, l’argomento principale del libro. Ma è solo quello più apparente. Le donne sono distinte in tre categorie principali, alfa beta e gamma, in ordine di bellezza. L’uniformazione al grado beta, attraverso una plastica facciale, è l’obiettivo del regime di modo da poter tenere una pace sociale generale. Il cambiamento di faccia non è mai un obbligo, ma viene considerato una pratica di uniformazione da buon cittadino (femmina) per spingere verso la I buona ovvero l’identità e combattere quella cattiva ovvero l’invidia. Viene considerato non un obbligo ma quasi un dovere civico, anche perché il volto uguale non è un mero affare esteriore ma stimola un più profondo conformismo che favorisce l’eguaglianza generale.
L’eroe del libro è, in questo scenario, inevitabilmente una donna: Jael. Lei è un’alfa bocciata, molto bella ma non perfetta, e ci tiene a mantenere la sua distinzione, a non essere uniformata al grado beta, a mantenere la propria identità individuale. A un certo punto dice: “Dopotutto è il mio viso. Ritengo di avere il diritto di tenermelo.” L’affermazione di una volontà individuale che supera qualsiasi pacifica e asettica spinta di pace nell’indistinzione per non suscitare invidia. Perché per placare l’invidia ci si può solo abbassare, mai elevare. La contentezza che si può suscitare negli altri attraverso un bel viso va bene, ma solo se non genera l’invidia degli altri. Ma la contentezza che il viso di Jael potrebbe effettivamente suscitare negli uomini genererebbe l’invidia delle loro mogli, e sarebbe quindi un male, il peggiore. La giovane vive però questa sua volontà di riconoscimento individuale con angoscia perché sa del biasimo della comunità. Le dicono infatti: “Non riuscirai mai a essere felice sinché non penserai, sentirai e agirai come gli altri”. L’uniformazione della faccia è l’aspetto più inquietante di questa dolce dittatura. Ma nella distopia di Hartely, la necessità di arginare l’invidia pervade ogni aspetto della società. Dice il Diletto Dittatore: “La nostra missione è quella di salvarvi da voi stessi”. Efficacemente, Gianfranco de Turris descrive lo scenario di questo nuovo pedagogico mondo: “L’architettura delle case è a fungo, un piano, due massimo […]; nei cinema si proiettano solo film della guerra trascorsa per farne vedere gli effetti; nelle chiese della Religione Contemporanea voluta dal Dittatore si cantano solo litanie; esistono i casinò dove si possono vincere cifre modeste; lo svago è peraltro obbligatorio; lavorare sì, ma non in maniera eccessiva e forsennata; non esistono lame, ma solo temperini di cinque centimetri… Particolarmente invisa, per i rischi che comporta, è l’automobile; di conseguenza i mezzi di locomozione sono a trazione animale, e se vi sono auto o autobus pubblici (non privati) non possono superare i dieci all’ora; gli stessi pedoni si devono muovere piano, a non più di quattro chilometri orari. Basta sacrifici al ‘Dio della Velocità’”. Al di là della straordinaria piacevolezza del romanzo, l’attualità della riflessione di Hartely è impressionante. Dal metoo, alla cultura gender, fino all’iperproliferazione dei diritti, viviamo in un momento storico in cui la tendenza egalitaria e verso l’indistinzione, quello che, con il titolo di un fortunato libro italiano, potremmo chiamare il desiderio di essere come tutti, costituisce una nuove legge morale e quasi un programma politico. Questo libro di Hartley è un efficace antidoto culturale.