Cielo, la regina!
Una donna velata e una tragedia degli equivoci al servizio del belcanto: “La straniera” di Bellini, trionfo di due secoli fa, al Maggio Fiorentino
Una passione romantica in stile gotico medievale: l’opera, quarto titolo del compositore catanese, torna dopo una lunga assenza
Il soprintendente Cristiano Chiarot e il direttore musicale Fabio Luisi perseguono il revival filologico accanto alla sperimentazione
L’ansia di ripetere il successo del “Pirata”, la prima opera scritta per la Scala. Bellini, ventisettenne, era arrivato da un anno a Milano
Bellini ebbe l’idea della “Straniera” da Francesco Florimo, l’amico del cuore e suo alterego, “Florimetto, Stupidino, Calabresino”, al quale scriveva ogni due giorni per informarlo delle sue vicende teatrali e sentimentali, e chiedergli consiglio. Calabrese, originario di San Giorgio Morgeto, Florimo, il compagno di studi, era rimasto a Napoli diventando il bibliotecario di San Pietro in Majella. Fu lui a proporgli di mettere in musica quella commedia vista a teatro nel 1826 e tratta dal romanzo di un bonapartista molto rampante, e oggi del tutto dimenticato, il visconte d’Arlincourt. Bellini ne parlò al librettista Felice Romani che subito accettò di riunire “le migliori situazioni del romanzo” e cioè: arrivo di Arturo a Montolino, incontro con la Straniera, la scoperta di Valdeburgo, duello, processo, imeneo e morte. Bisognava scremare, sfrondare, semplificare. Bellini era da tempo alla ricerca di un soggetto con cui doppiare il successo del “Pirata”, la prima opera composta per la Scala e trionfalmente accolta. Per quel ventisettenne catanese, sbarcato da un anno a Milano grazie ai maneggi di Domenico Barbaja, l’impresario che controllava anche il San Carlo di Napoli e il Kärnertortheater di Vienna, era una scelta obbligata. Aveva passato tutto l’inverno ad aspettare la nuova scrittura. Dopo l’altro strepitoso successo in primavera a Genova di “Bianca e Fernando”, sua seconda opera, aveva rifiutato di farsi scritturare da Torino, perché “la compagnia era troppo debole” e lui era attentissimo non solo a scegliere i cantanti, ma a scrivere per loro. Aveva sperato in una commissione dalla Fenice di Venezia e intanto si era fatto tormentare dai dubbi, dall’ansia per le recite del “Pirata” a Napoli, con notizie altalenanti sul fiasco della Comelli e sulla prestazione di Rubini, il famoso tenore sul quale non avrebbe potuto contare per la nuova opera perché impegnato al San Carlo. E bisogna rileggere i suoi “Carteggi”, pubblicati due anni fa da Olschki a cura di Graziella Seminara, romanzo vivente del melodramma italiano ai primi dell’Ottocento, per ritrovare tutta la gamma dell’inquietudine vissuta dal catanese in quell’interminabile inverno del 1828 a Milano: “L’ozio mi annoia, il rischio mi confonde, lo stare molto tempo a non scrivere mi dispiace: perché sono costernato in un mare di dubbii e non so a che appigliarmi”, scriveva all’amico Florimo il 9 giugno 1828. Per “non perdere l’opinione di Milano”, bisognava non solo bissare il successo del “Pirata”, ma rilanciare con un’opera nuova, sorprendente, inattesa. Solo così si poteva sgominare la concorrenza e neutralizzare i tanti nemici che pure mostravano sorrisi compiacenti: “Tutti i miei amici, non dubbii come Melzi, mi dicono un’altro (sic) ‘Pirata’ non lo farò più”. Bellini era preoccupatissimo, angosciato e molto sospettoso. “Il mondo è cattivo” scriverà a Florimo il 16 agosto 1828 invitandolo a darsi da fare per favorire i suoi piani presso l’irascibile Barbaja: “L’uomo non accorto ne resta sempre di sotto; per ciò senza mai offendere le leggi d’educazione virtuosa, pensa sempre a te, ossia pensiamo sempre ai nostri interessi, (…) non sentire ciò che ti dicono, fà, opera, impegna, metti sossopra tutto per riuscire a ciò che tendiamo”.
Finalmente, Barbaja dopo non poche scaramucce e scene di gelosie, l’11 giugno gli propone varie scritture. Bellini sceglie la Scala per il Carnevale. “Questa scrittura, caro mio Florimo, è un dado che prendo e giuoco molto, ma se arrivo a incontrare la seconda opera a Milano più saremo contenti della gloria e della fortuna”. Tratta l’ingaggio e riesce a strappare mille ducati, “pare che ho fatto un piccolo salto” confessa a Florimo “perché per due opere nell’ultima mia scrittura ho avuto cinquecento ducati, e per la prima cento cinquanta”. Sempre attento al soldo, e pronto a difendere il proprio valore in un sistema che non tutela il diritto d’autore, Bellini è soddisfatto. In attesa di Romani da Genova, ha pure il tempo di riferire a Florimo i suoi “novelli amori” e in particolare quello per “una bella donnina, già maritata, in età di venticinque anni”, alias Giuditta Turina, con cui pensa di salvarsi “da una passione con una zitella, che mi potrebbe portare una catena eterna”. Finalmente Romani arriva, approva “La straniera”, ma lo mette sul chi vive: “Senza un bravo tenore per la parte di Arturo sarà una faccenda seria”. Ora Rubini è indisponibile e Bellini è nel panico: “Il soggetto se verrebbe Rubini mi darebbe la speranza di quasi esser certo della riuscita, poiché è abbondante di situazioni, e tutte nuove, e grandiose, ma senza Rubini io sono precipitato”. Da qui i rimproveri a Florimo, che s’era consigliato con l’infido Cottrau per impegnare Barbaja a svincolarlo, e l’invito a stare accorto. “Se tu ogni tanto ti potresti ricordare di Macchiavelli, pure noi senza aver bisogno di iniquità, possiamo intraprendere delle grandi imprese”. Il fatto è che senza il cast, Bellini non può iniziare a scrivere, e la nuova opera rischia di slittare. Il primo settembre, si chiude lo spiraglio aperto da Florimo: “Cottrau mi fulminizza: levati di speranza d’avere Rubini, poiché è affatto impossibile che Barbaja lo tolga a Napoli”, scrive Bellini all’amico. “Caro Florimo, la tua anima è d’angelo e non credere di misurare l’altrui alla tua: bada che tutto è doppiezza, e la frode ha più sembianze di verità, che la verità stessa…”, insiste ammonendolo a diffidare dagli amici. “Tu sempre mi frizzi, e mi rinfacci, per averti detto una volta che ancora sei collegiale, e forse se avrai l’occasione di girare un poco il mondo vedrai che non avea tanto torto. Ricordati d’essere de’ Scettici, che così non prenderai abbagli: pensa sempre al male, che poco errerai”.
“Mi hanno fatto sortire due volte nel primo atto, e cinque nel secondo, cosa che mai si è vista, da che esiste il teatro della Scala”
Dopo appena due settimane di prove, “La straniera” debutta sabato 14 febbraio 1829 alla Scala. Ed è un trionfo. “Non trovo termini come descrivergli l’incontro, il quale non si può chiamare furore, andare alle stelle, fanatismo, entusiasmo, ecc.”, scrive Bellini allo zio Ferlito, “gli assicuro che nessuno di questi termini basta per esprimere il piacere che destò: tutta la musica, la quale ha fatto gridare tutto il pubblico da matto.Tutti sono stati storditi, perché credeano che io non potessi fare un’altro ‘Pirata’, e l’aver trovato questa di gran lunga superiore, l’ha tutti sbalorditi di maniera che mi hanno fatto sortire due volte nel primo atto, e cinque nel secondo, cosa che mai si è vista, da che esiste il teatro della Scala”. Bellini può ben tirare un sospiro di sollievo. “Ha sorpassato ‘Il pirata’ di non poco”, scrive l’indomani della prima a Romani. “La cosa è andata come mai non l’abbiamo immaginata. Abbiamo toccato il cielo col dito. Il libro è d’una poesia, e d’un effetto di colpo di scena, da non potersi ideare di più, e specialmente le scene di Tamburrini al giudizio e della Lalande al Tempio, sono così divine che in teatro s’urlava, e tutte le signore sventolavano i loro falzoletti pel giubilo”.