Il medico delle fake news
Incontro con Patrick Soon-Shiong, lo scienziato anticancro che s’è comprato il Los Angeles Times
Fra tutti gli imprenditori americani che per qualche ragione di coscienza o mania hanno rilevato quei manufatti radioattivi chiamati giornali, il dottor Patrick Soon-Shiong è forse il più pazzesco. Sessantasei anni, uomo più ricco di Los Angeles, è uno degli scienziati in prima linea nella lotta contro il cancro, e infine è colui che ha rilevato per una cifra sconsiderata lo scalcagnato LA Times un anno fa. E’ un dottorino cinese dall’aria placida, soft spoken, doppiamente immigrato, ma che incarna il sogno californiano siliconvallico più di tutti. Famiglia cinese, scappata in Sudafrica dopo l’invasione giapponese, è riuscito a beccarsi in pieno gli ultimi scampoli di apartheid: dieci fratelli, figlio di un droghiere. Né bianco né nero. I cinesi in Sudafrica sottostavano a status kafkiani: “Non potevamo votare né avere proprietà, m, a differenza dei neri, potevamo andare al cinema”, dice Soon-Shiong a Firenze agli studenti che affollano l’incontro dell’Osservatorio permanente giovani-editori organizzato dal vulcanico Andrea Ceccherini, e poi dopo conversando col Foglio. Il padre droghiere aveva l’hobby della medicina e guariva un po’ di vicini con le tradizioni di casa. “Ho sempre sognato di fare il medico ma in Sudafrica solo un cinese su 100 poteva studiare. Le scuole erano talmente pessime che non c’era un insegnante di scienze, così prendevo dei libri e me li portavo a scuola, e li leggevo”. Soon-Shiong è un appassionato di carta e alla fine si è comprato appunto il La Times, giornale alto e stretto e sconclusionato, un “locale” illeggibile devastato dall’ondata delle fusioni che seguirono la prima crisi dei quotidiani, quando si pensava che accorparne a mazzi avrebbe funzionato. Entrato a far parte del gruppo Tribune di Chicago, l’accoppiata non ha mai funzionato, “150 software informatici diversi, la sede era stata venduta a un real estate canadese, fuori era tirata a lucido ma dentro cascava a pezzi, così non abbiamo potuto far altro che andarcene”, dice Soon-Shiong. Così è stato abbandonato il vecchio fascinoso palazzone di Downtown Los Angeles e si son trasferiti tutti a Silicon Beach, la sede distaccata della Silicon Valley pieds dans l’eau, nella baia di Santa Monica. “Forse la verità è che non si sono mai presi, Chicago con la California”, gli risponde Norman Pearlstine, già editor del Wall Street Journal, che Soon-Shiong si è portato a Los Angeles come pezzo pregiato di East Coast e pure qui a Firenze. Snocciolano i dati del disastro con un certo compiacimento. “Abbiamo solo 150 mila abbonati digitali contro i 3,5 milioni del New York Times. Stiamo ricominciando praticamente da zero. Adesso ci stampiamo perfino il giornale da noi, abbiamo il nostro studio di produzione, facciamo tutto in casa”.
Un dottorino cinese dall’aria placida, doppiamente immigrato, ma che incarna il sogno californiano siliconvallico più di tutti
“Io non investo per far soldi, ma su progetti che hanno un valore. Salvare la democrazia, e con questa i giornali, lo è”
Per produzione intende tv, che è un tassello importante dell’impero mediatico di Soon-Shiong: annuisce la moglie, Michele B. Chan, già attrice in MacGyver, che adesso guida il ramo televisivo delle aziende del marito. Pare che lei sia parte del successo del marito. “Abbiamo un nostro canale tv, uno show, abbiamo il più grande festival del libro della nazione”, dice lui. “Puntiamo molto sull’integrazione di tutto. Perché ormai si vive in una costante ricerca dell’attenzione dei lettori, e a questo non si scappa”. Il modello di business di questo giornale che ha strapagato – 500 milioni di dollari, il doppio di quanto il collega Jeff Bezos ha pagato il ben più solido Washington Post, come continuano a rinfacciargli – non è ben chiaro. “E’ passato solo un anno, stiamo ancora studiando”, dice. Ha fatto però scelte peculiari: per esempio ha aderito al nuovo Apple News Plus, cioè il sistema della Apple che fa una specie di Netflix delle notizie, succhiando buona parte dei ricavi ai produttori delle news. Il New York Times e l’aristocrazia editoriale americana hanno arricciato il naso, considerandolo un taglieggiamento, loro invece hanno accettato, “non credo che ci porterà via pubblico cannibalizzandoci”, dice. “Darà invece accesso ai nostri contenuti a tante persone che prima non ci leggevano. E comunque noi siamo troppo piccoli per poterci permettere il lusso che il Times ha avuto”.
“Abbiamo appena assunto 160 analisti”, dice orgoglioso, e per lui l’approccio medico e quello editoriale non cambiano molto. Così come quello imprenditoriale. Vuole vederci chiaro. “Ho investito in Zoom, l’azienda di videoconferenze che si è appena quotata in Borsa a Wall Street e che ha fatto il botto, perché conosco il fondatore ed era un business ben fatto e ne vedevo le possibilità: per esempio per la videomedicina, farsi visitare da un paese sperduto coi migliori dottori, è una cosa molto interessante”. Lui mette tutto insieme, la medicina i brevetti l’editoria gli investimenti. Del resto la sua fortuna viene da un farmaco anticancro, l’Abraxane, che ha sviluppato in proprio dopo aver fondato un suo laboratorio negli anni Ottanta, e oggi l’ha reso un discreto billionaire con 9 miliardi di dollari di patrimonio. Ed è proprio la lotta al cancro la vera sfida della sua vita. “Tutti noi siamo esposti ai tumori, ogni giorno della nostra vita”, dice, gelandoci un po’ il sangue. “Ma per fortuna abbiamo le cellule natural killer, cellule che sono la barriera del nostro sistema immunitario e che non permettono a quelle cancerogene di crescere”. Queste cellule replicate in laboratorio sono per lui “la terapia del futuro, una terapia che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante e che ci permetterà di sconfiggere per sempre il cancro”. Lui ci crede. Ma non solo (qui scatta l’imprenditore); vuole una specie di Amazon delle staminali: “Immaginate cosa potrebbe rappresentare se queste cellule killer potessero essere spedite ovunque nel mondo”. Lui ovviamente sta lavorando a questo, col suo ramo genetico che si chiama NantKWest e che nei prossimi mesi annuncerà miracolosi ritrovati che forse salveranno il mondo dal cancro e certamente lo renderanno ancora più ricco. Del resto, “No money, no mission, mi dicevano le suore da cui studiavo in Sudafrica”.
“Stiamo avendo risultati straordinari. Nove persone dopo due anni di trattamenti sono perfettamente guarite”, dice il dottor Soon-Shiong. Il suo obiettivo finale è “creare un vaccino anticancro che ci liberi dalla chemioterapia”. E “rendere il cancro una malattia cronicizzabile come l’Aids. Sconfiggere non solo il cancro ma anche la paura del cancro”.
Diagnosi video, cellule che viaggiano, umanità senza cancro e umanità che torni a leggere i giornali: nel mondo favoloso di Soon-Shiong tutto si tiene e tutto fa ben sperare, e in questo è squisitamente siliconvallico: lui prende una parte della realtà che non funziona (malattie, pezzi di corpi, società, giornali), la studia, impiega le migliori risorse tecnologiche ed economiche, e risolve il problema. O almeno ci prova. Così, anche questo giornale, non si capisce come davvero potrebbe non prosperare sotto la sua cura. Speriamo che vada bene – non tutto nel magico mondo di Shiong finisce come nelle favole, le azioni delle sua azienda di genetica sono andate giù, qualcuno gli ha fatto causa per l’Abraxane, ma succede, a questi livelli. Qualcun altro – il fondatore del fondo Blackstone – lo chiama invece il Thomas Edison del Ventunesimo secolo: lui intanto si permette anche degli sfizi, ha rilevato il 4,5 per cento dei Lakers, la squadra della sua città (rilevando la quota di Magic Johnson). Tutto locale, californiano, losangelino a chilometri zero.
E in fondo sta forse qui la motivazione: già, la motivazione per cui queste schiere di ubercapitalisti stanno salvando i giornali. Ultimo è stato Marc Benioff, il nuovo re di San Francisco che si è regalato per celebrare il suo nuovo status il grattacielo più alto della città (la Salesforce Tower, dal nome della sua azienda) e poi Time Magazine; ma prima c’era stato Bezos col Washington Post, e poi la vedova di Steve Jobs che si era regalata l’Atlantic, il più antico mensile americano. I personaggi sono molto diversi tra loro, e le ragioni pure, dal sedersi finalmente a tavola con dei potenti, a una originale forma di beneficenza, a una passione infantile tipo le auto d’epoca.
Però il caso di Soon Shiong pare diverso. Certo, c’è un po’ di classico “give back”, cioè ridare indietro parte della fortuna che si ha avuto (lui e la moglie sono scatenati benefattori, e fanno anche parte del club che si impegna a dar via il 90 per cento di eredità, insieme a Bill Gates e Warren Buffett). “Perché sono pazzo”, dice, quando gli chiedi perché l’ha fatto, perché ha comprato un giornale. E anche che “non è diverso dagli altri miei investimenti. Io non investo per far soldi, ma su progetti che hanno un valore. Salvare la democrazia, e con questa i giornali, lo è”. Però forse è una roba ancora diversa: lui il sogno americano “anzi californiano” l’ha vissuto tutto: è arrivato dal Sudafrica prima in Canada, e poi negli Stati Uniti, dove entra a Ucla e ne esce chirurgo. All’università a Los Angeles pubblicazioni, premi, fa il primo trapianto di pancreas nella Costa Ovest. Poi un altro trapianto unico nel suo genere al mondo, trapianto di isole pancreatiche (le cellule del pancreas che producono insulina), operazione leggendaria, ma dopo cinque anni di ricadute il paziente si suiciderà. Lui però non si scoraggia, va avanti.
“Abbiamo appena assunto 160 analisti”, dice orgoglioso, e per lui l’approccio medico e quello editoriale non cambiano molto
La sua fortuna viene da un farmaco anticancro, l’Abraxane, che oggi l’ha reso un billionaire con 9 miliardi di dollari di patrimonio
La similitudine oncologica è in agguato, sarebbe facile dire che curare il cancro e curare l’informazione sono la stessa roba. Lui però ci crede. “Ormai non ci sono solo le fake news, ci sono i fake video, sono sempre di più, video che girano sui social con personaggi che non sono quelli che sembrano, è tutto manipolato dalle tecnologie”, dice. Implora gli studenti: “Leggete i giornali, leggete i libri, leggete insomma sulla carta almeno un po’, perché se vi informate solo sul web ne uscirete con un cervello modificato!”. “Abbiamo una generazione ormai abituata a leggere articoli corti e con una soglia di attenzione bassissima”, insiste. “Leggere ormai è quasi un’attività dolorosa”. “Qualche ragazzino viene da me e mi chiede: ma come si fa a leggere? Non è allarmante? Ma noi con la tecnologia vogliamo rendere la lettura un’attività che torni a essere piacevole”. E’ preoccupato soprattutto per l’invasività del web. “Lo sapete che Google legge tutte le vostre mail, una per una, e può usare i contenuti per i suoi fini? Non so se lo sapete, ma voi siete il prodotto, non i clienti”. “Noi dobbiamo portare la sfida a Google e Facebook, e dobbiamo informare soprattutto i giovani che tutto quello che fate online viene letto e rivenduto agli inserzionisti. Magari i giornali hanno paura a scriverlo, ma io no”. E infine raccomanda di leggere “Zucked”, il manifesto più duro che sia mai stato scritto contro Facebook, opera di un ex finanziatore e consigliere di Marc Zuckerberg, Roger McNamee.
Forse Soon-Shiong si sente investito di una missione: in generale tutti questi danni, tutte le Brexit, le Cambridge Analytica, le economie dell’attenzione son state fatte seicento chilometri più su, nella Silicon Valley che ha prodotto Facebook e Twitter e Google, un tempo olimpo di oligarchi carini in tuta e infradito– oggi mostri sottoposti a pubblico ludibrio.
Dunque avrebbe senso che anche l’antiveleno debba provenire dalla vecchia cara California. Forse il dottore buono doppiamente immigrato si immolerà per tutti i californiani sconfiggendo il cancro e i social network: “La California è il posto migliore, il più interessante del momento, non so se ve ne rendete conto. Tutto viene da lì, le scoperte tecnologiche, l’intrattenimento, gli stili di vita, il cibo, la ricerca. Saremmo il quinto stato più ricco del mondo, se fossimo indipendenti. E io il sogno americano, anzi californiano, l’ho vissuto davvero”.
“Vogliamo un giornale più ampio, regionale, non credo al localismo estremo”, dice, e in fondo negli ultimi anni ci si lamentava molto laggiù, nello stato che produce più ricchezza e mitologia del paese, di non avere un quotidiano prestigioso quanto il New York Times (vecchia rivalità tra le Coste, complessi mai sanati). Non può esserlo certo il San Francisco Chronicle, una specie di Parioli Pocket della Silicon Valley. Tutti pensavano a fondare qualcosa di nuovo. Nessuno onestamente avrebbe scommesso sul ridicolo Los Angeles Times, e su un medico cinese-sudafricano che vuole salvare il mondo: o forse, solo la sua California.