Una scena dell'opera "L'angelo di fuoco" di Sergej Prokofiev nell'allestimento del teatro dell'Opera di Roma: Alejo Pèrez sul podio, regia di Emma Dante (Fermo immagine dal video dell'Opera di Roma)

Diavolo d'un russo

Marina Valensise

A Roma “L’angelo di fuoco”, l’opera macabro-grottesca di Prokofiev che nasce in realtà dalla storia di un impossibile triangolo amoroso

Sergej Prokofiev era in America da quasi due anni quando si mise a scrivere “L’angelo di fuoco”, l’opera che non avrebbe mai visto rappresentata. Una rarità che il Teatro Costanzi ripropone in russo con quattro repliche fino al 1° giugno, un bel cast diretto dall’argentino Alejo Pérez e la regia di Emma Dante che dà il meglio di sé in questa favola torva e sadomaso sulla passione delirante tra un’isterica, invasata di un angelo che l’ha sedotta e abbandonata, e un cavaliere lussurioso che cerca di salvarla. Prokofiev era un tipo solare, molto ironico e dotato di crudele levità. Quando la ricca Nina Mersherski, pronta a fuggire con lui, gli diede buca perché sequestrata dal padre, osservò gelido: “Se la merce non è pronta all’ora indicata non si acquista più” e la piantò (aneddoto di Anna de Lozena citato da Piero Rattalino, “Prokofiev”, ed. Zecchini 2003).

 

Come mai allora si volle cimentare con quel tema infernale, tratto da un romanzo di Valerij Brjusov? Approfittando dell’invito di un produttore di macchine agricole americano, aveva lasciato l’Urss in piena regola. “Ho lavorato piuttosto duro e vorrei respirare una boccata d’aria fresca”, dichiarò al commissario del popolo. “Non vi pare che qui oggi ce ne sia abbastanza?” obiettò Lunacharskij e Prokofiev prontamente rispose: “Sì, ma vorrei l’aria naturale del mare e degli oceani”. Fu così che quello spilungone biondo, compositore da quando era piccolo, la spuntò: “Voi siete un rivoluzionario in musica, noi nella vita. Dobbiamo lavorare insieme”, promise Lunacharskij senza ostacolarlo. Così, il 7 maggio 1918 Prokofiev prese la Transiberiana, diretto in Giappone e da lì in America. Ai primi di settembre approdò a New York, mèta di molti russi emigrati come Sergej Rachmaninov, che dava concerti a tutto spiano, e il ballerino di Diaghilev, che l’accolse in casa e sulle note delle “Visions fugitives” creò una coreografia per il Brooklyn Museum.

 

Prokofiev aveva 29 anni. Enfant prodige e autodidatta grazie alla madre pianista negli anni dell’infanzia in Ucraina, vissuta a Sontsovka, tenuta di cui il padre era amministratore, si era diplomato al Conservatorio di San Pietroburgo in composizione e in pianoforte, aveva vinto il Premio Rubinstein e già composto alcune sonate, i primi due concerti, la “Suite scita”, i “Sarcasmi”, i “Canti” sui versi dell’Achmatova… “Con quell’aria da ragazzo, che mantenne per tutta la vita, sembrava più giovane di quel che era”, ricorderà Anton Rubinstein. “Piuttosto alto, robusto, timido e maldestro, aveva i lineamenti di un negro bianco, naso appiattito e spesse labbra rosse. Le sopracciglia erano quasi invisibili a forza di essere chiare e chiari i capelli e il colorito, che la più piccola emozione faceva arrossire”.

  

Iniziata in America l’opera che il compositore non avrebbe mai visto rappresentata. Ora al Teatro Costanzi con regia di Emma Dante 

Era la prima volta nella sua vita che doveva badare a se stesso, lontano dall’adorata madre vedova, dalla zia Tanja, che per lui bambino cantava nel “Gigante”, la prima opera composta a otto anni. Iniziò a dare una serie di concerti e grazie a MacCormick firmò un contratto con l’Opera di Chicago diretta da Cleofonte Campanini, fratello del tenore Italo, che aveva portato in America la “Butterfly” di Puccini e l’“Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea. L’accordo, sponsor i grandi produttori di agrumi di Florida e California, era la riduzione musicale di una favola del veneziano Carlo Gozzi “L’amore delle tre melarance”, pubblicata da Meyerhold nel 1914. Ma l’improvvisa scomparsa di Cleofonte mandò tutto per aria. Prokofiev chiese invano un indennizzo per il rinvio; sull’orlo della bancarotta prese a dare un concerto dopo l’altro, e l’onda del fallimento lo spinse a cimentarsi con “L’angelo di fuoco”.

 

  

“Un giorno, gironzolando al Central Park, contemplavo i grattacieli pensando con fredda rabbia alle meravigliose orchestre americane che non volevano interessarsi alla mia musica, ai critici che rimasticavano a iosa cose ridette mille volte e si prendevano volgarmente gioco delle mie innovazioni, ai manager che organizzavano tournée solo se accettavi di suonare cinquanta volte lo stesso programma di pezzi universalmente noti, temendo l’inedito come la peste”. Quel giorno venne a sapere del romanzo di Brjusov e si incuriosì per quel racconto passionale, ambientato nella Germania del XVI secolo, scritto da un simbolista, animatore di riviste e cultore di magia nera. Fitto di note, era apparso in volume nel 1909, col solito espediente del vecchio manoscritto riesumato per caso, e un sottotitolo da paura: “L’Angelo di fuoco, ovvero narrazione veridica, in cui si racconta del diavolo, più volte apparso in veste di spirito luminoso a una fanciulla tentandola a diverse azioni peccaminose; e delle pratiche contrarie a Dio di magia, astrologia, grazia e negromanzia; del giudizio su di essa fanciulla sotto la presidenza di Sua Eminenza l’arcivescovo di Treviri; e altresì degl’incontri e colloqui col cavaliere e triplice dottore Agrippa di Nettesheym, e col dottor Faust, scritta da un testimone oculare” (la traduzione è di Cesare G. De Michelis, per le Edizioni e/o).

 

Privo di committenze, senza contratti né prospettive di lucro, mosso da pura ambizione, Prokofiev si mise al lavoro e iniziò a scrivere il libretto. Lui che era un provocatore nato e sin da piccolo sapeva rovesciare il lato prevedibile del dramma, si tuffò a pesce in quell’atmosfera macabro-grottesca descritta da Brjusov e ora esaltata dal nuovo allestimento dell’Opera di Roma e dalla regia di Emma Dante, che per ciascuno dei cinque atti di quel folle libretto, scanditi da un danzatore di break dance che balla a testa in giù nel ruolo dell’Angelo, ha ideato due quadri, ambientandoli ora nel ventre della terra, catacombe di anime morte come quelle palermitana dei Cappuccini, ora a casa dello scienziato occultista, tra una quinta di libri, una collezione di ruote armillari e un tavolino a scomparsa, e infine nel convento di monache dove Renata, la protagonista, decide di rinchiudersi salvo finire vittima di un fatale destino.

 

Diversamente da Diaghilev e Stravinski, che ritenevano l’opera una forma musicale moribonda, Prokofiev la considerava ancora vitalissima. Comporre “L’angelo di fuoco”, come scrive Harlow Robinson, per lui era anche un modo di dimostrare che oltre ai pezzi impertinenti che l’avevano reso famoso, sapeva scrivere musica seria su un tema complicato. La scelta, del resto, corrispondeva al suo stato d’animo, preoccupato com’era per la salute della madre, fuggita dal Caucaso e approdata da profuga sulle Isole Principe, vessato dagli impresari che gli avevano fregato due terzi del compenso dei concerti a Montreal e in Quebec, insofferente alla vita da emigrato eppure incerto sul ritorno in Russia. Non sapeva d’imbarcarsi in un’impresa che sarebbe durata quasi sette anni. Cominciò a scrivere nel 1921 e continuò nell’estate 1922 quando, rientrato in Europa con la madre, prese in affitto una casa a Ettal, in Baviera, a tre chilometri da Oberammergau, villaggio ancora medievale dove si celebravano i riti della Passione e si respirava l’atmosfera della caccia alle streghe. L’ultimo processo per stregoneria, infatti, era stato celebrato a Würzburg nel 1749, contro una suor Maria Renata Singer, che aveva lo stesso nome dell’eroina di Brjusov.

  

Lo scrittore, il poeta e l’amante infelice che lasciò la Russia nel 1911 alla volta di Roma. Ne parla Nina Berberova nella sua autobiografia 

All’inizio del 1923, lo raggiunse Lina “Llubera” (il suo nome d’arte) Codina, la soprano russo-spagnola conosciuta a New York e scritturata come Gilda a Milano, dove terrà un recital alla Società delle nuove musiche. “Gli italiani – scriverà Prokofiev che la accompagnava al pianoforte – sono stati molto carini, vanno pazzi per Verdi e Puccini, e pensavo che avrebbero storto il naso nei miei confronti, e invece mi hanno accolto con molto calore e grandi applausi, anche se mi hanno sottopagato con sole cento lire”. Nel settembre 1923, incinta del loro primo figlio, Prokofiev se la sposa. Il mese dopo riparte per Parigi, dove Marcel Darrieux suona il Primo concerto per violino, e dove l’anno dopo si trasferisce con moglie e figlio. Intanto continua a scrivere, compone la Quinta sonata, torna in America per una serie di concerti, cercando di completare l’orchestrazione dell’“Angelo di fuoco”.

 

Nel 1926 sbarca in Italia per una tournée con tappe a Roma, Siena, Genova, Firenze, durante la quale va a trovare Gorki a Sorrento e riesce persino ad avere udienza dal Papa, restando impressionato dal cerimoniale vaticano, che terrà a mente per il quinto atto dell’“Angelo di fuoco”. La partitura però batte la fiacca. Prokofiev scrive e riscrive il libretto, scomponendo la matassa della trama di Brjusov, riducendola a poche scene, e puntando su vari Leitmotiv per definire ogni singolo personaggio, come quello di Ruprecht che s’apre su un movimento ascendente e si chiude sul ritmo militare, mentre quello di Renata è in tre sole note affidate all’acuto dell’oboe e percorse, come spiega Giovanni Bietti, dall’intervallo di quarta aumentata, e cioè il diabolus della tradizione medievale, per non parlare del tema lirico dell’Angelo… Ma è soltanto nel maggio 1926 che Prokofiev scoprirà in modo del tutto fortuito la verità: quel romanzo ambientato nella Germania delle guerre di religione altro non è che un romanzo a chiave sul triangolo impossibile tra lo stesso Brjusov, Nina Petrovskaya e il poeta Andrej Belyj.

 

A rivelarglielo è Anna Petrovna Ostroumova, pittrice dalla gradevolissima conversazione presso la quale posa per un ritratto. L’anno prima in Crimea, l’Ostroumova aveva dipinto il ritratto di Belyj, il seduttore dai boccoli d’oro “che incantava le donne col suo fascino quasi magico, mostrandosi a loro in un alone mistico che sembrava escludere in anticipo qualsiasi sospetto di pretese sensuali da parte sua”, come scrive Vladislav Chodasevic in “Necropoli”, romanzo sulla dissoluzione della spiritualità russa a opera dei soviet (tradotto meritoriamente da Adelphi). Prokofiev lo conosceva bene. Di Belyj aveva letto “Primo incontro”, il suo requiem in forma di poema, pubblicato dall’esilio nel 1921, e l’avrebbe rivisto l’anno dopo a Berlino, sulla via del suo ritorno in Urss. Brjusov invece non lo conosceva. Morfinomane, zizzanioso, cattivissimo e pieno di sé, era morto a Mosca nel 1924. “Era un diavolo, con la bocca da tigre e lunghe ciglia che all’età di 55 anni ancora si divertiva a sbattere”, gli confida l’Ostroumova.

  

“Le orchestre americane non volevano interessarsi alla mia musica. I critici si prendevano gioco delle mie innovazioni”

Quando Brjusov morì, raccontò l’Ostroumova, gli trapanarono il cranio per estrarne il cervello, e in mancanza di meglio lo riempirono di pagine della Pravda infilandole appallottolate dentro la calotta. “Così fu sepolto con un giornale bolscevico al posto del cervello, vendetta del fato per la defezione al comunismo, intrapresa non per convinzione, ma per mero interesse”, commenterà Prokofiev nei diari, altro capolavoro del Novecento (leggete il volume III, “Prodigal Son,1924-1933”, a cura di Anthony Phillips, Faber & Faber). Quanto al personaggio di Renata, si fondava su una donna reale “che apparentemente è ancora viva e abita a Parigi”. Ormai era tutto chiaro: “Brjusov (Ruprecth) era innamorato di lei, la quale a sua volta era innamorata di Heinrich. E l’aspetto più piccante della vicenda è che questo Heinrich altri non era che… Andrej Belyj, che Brjusov sfidò addirittura a duello. Il duello non ebbe luogo, ma io stesso ricordo che Belyj ne parlò nei suoi ‘Ricordi su Blok’, sebbene sia sempre stato avvolto nella densa nebbia delle dispute letterarie…”.

 

Prokofiev non sapeva però che Nina Petrovskaya, l’amante infelice, sedotta e abbandonata prima da Belyj e poi da Brjusov, era partita dalla Russia nel 1911 alla volta di Roma e Berlino. Nella sua autobiografia (“Il corsivo è mio”, sempre Adelphi) Nina Berberova, che all’epoca viveva con Chodasevic, la ricorderà vecchia, zoppa, infelice, esule a Berlino all’inizio degli anni Venti. Un giorno si presentò da loro con Nadja, la sorella un po’ bacata: “Nina, tarchiata, la faccia olivastra piena di porri, le mani tozze, un lungo abito nero frusciante con lo spacco e un enorme cappello nero con una penna di struzzo e un mazzo di ciliegie nere, mi sembrava molto vecchia e fuori moda. La Renata dell’‘Angelo di fuoco’, l’amore di Brjusov, l’amica di Belyj, non me la immaginavo così. Nei suoi profondi occhi neri c’era qualcosa di inquietante, e persino di angoscioso: a voce bassa diceva che gli aveva scritto una lettera (non chiamava mai Brjusov per nome) e ora si aspettava che lui le rispondesse e la richiamasse a Mosca. Le ciliegie sul suo cappello oscillavano e frusciavano come una foglia appassita; aveva uno strano modo di esprimersi… Mentre mi baciava sentii odore di tabacco e di vodka. Una volta Chodasevic rientrò terrorizzato: aveva passato tre ore con lei e Belyj che regolavano tra loro vecchi conti. ‘Era tutto come nel 1911’, dice, ‘con la differenza che tutti e due erano così vecchi e tremendi che per poco non sono scoppiato a piangere’”.

  

Ambientato nella Germania del XVI secolo, il romanzo è di Valerij Brjusov, un simbolista, animatore di riviste e cultore di magia nera

Anni dopo, la Berberova e Chodasevic si trasferirono a Parigi, e quando Nadja morì, ospitarono Nina nel loro appartamento in rue Lamblardie: “Di buon mattino, facendo in modo che non me ne accorgessi, andava a bere vino nel bar all’angolo di Place Daumesnil, poi faceva il giro di tutti i medici russi, implorandoli di prescriverle la codeina, che aveva su di lei un effetto particolare: sostituiva, seppur in maniera poco efficace, le droghe a cui era assuefatta. La sua esistenza era diventata tragica dal giorno stesso in cui aveva abbandonato la Russia. Nessuno le domandò di cosa fosse vissuta a Roma durante la Prima guerra mondiale: probabilmente anche di elemosine, se non peggio. La notte non riusciva a dormire, aveva bisogno di rivangare il passato. Chodosevic stava a conversare con lei nella così detta ‘mia’ stanza. Io mi coricavo sul divano in camera sua. Estenuato per i discorsi e il fumo, intontito dalle sue lacrime da ubriaca e dal delirio provocato dalla codeina, verso il mattino, tutto intirizzito, distrutto, veniva a coricarsi accanto a me. Ogni tanto cercavo di costringere Nina a mangiare qualcosa (non toccava quasi cibo), a fare il bagno, a lavarsi i capelli, a fare il bucato, ma ormai non era più buona a nulla. Un giorno se ne andò e non ritornò più. Era senza soldi (anche noi del resto). Una settimana dopo la trovarono morta in una stanzetta del pensionato dell’Esercito della salvezza: aveva lasciato aperto il gas. Era il 23 febbraio 1928”.

 

Lo stesso anno, a Parigi, ci fu la prima esecuzione in concerto dell’“Angelo di fuoco” e Bruno Walter promise a Prokofiev di portarlo alla Staatsoper di Berlino, ma alla fine non se ne fece niente. Nemmeno in Urss l’opera venne mai rappresentata, troppo decadente, troppo lontana dal realismo socialista allora in voga. E Prokofiev morì il giorno stesso della morte di Stalin, senza poter assistere alla prima mondiale del suo capolavoro, nel 1955, con la direzione di Nino Sanzogno, la regia di Giorgio Strehler e i costumi di Ezio Frigerio, alla Fenice di Venezia.

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