Perché ha successo “Una piccola morte” di Mohamed Hasan Alwan
C’è vita oltre i romanzetti borghesi. Ma è mistica e viene da un librone sufi
Milano. C’è vita oltre Elena Ferrante: la casa editrice e/o ha appena mandato in ristampa un romanzo di cinquecento pagine sulla vita del grande mistico sufi Ibn ‘Arabi, nato in Andalusia e morto a Damasco a cavallo fra XII e XIII secolo: “Una piccola morte” di Mohamed Hasan Alwan. Non si può nascondere che sia un successo inatteso. E’ vero che l’editore è aduso a casi letterari, alla sua lungimiranza si devono, oltre al fenomeno “L’amica geniale”, “L’eleganza del riccio” o “La libreria del buon romanzo”, nonché l’importazione sistematica del grande Eric-Emmanuel Schmitt. E’ vero anche che Alwan ha vinto il premio internazionale per la narrativa araba, ma resta rimarchevole che il pubblico italiano premi un libro che in nota cita “La creazione dei cerchi e degli schemi” del matematico al-Hassar o “Il risveglio sulla via di Dio” di al-Habashi. Per fare un paragone occidentale, sarebbe come se andasse a ruba un romanzo-fiume su Jacopone da Todi nelle cui note appaiano il trattato sulle monete di Nicola Oresme e gli scritti teologici di Sigieri di Brabante, il tutto tradotto dal provenzale.
Di là dalla qualità letteraria, forse la ricetta del successo di Alwan in occidente sta nella combinazione fra esotismo, atemporalità e individualismo, saggiamente utilizzati. L’esotismo è la ricostruzione di un contesto estraneo al lettore. La trama prende le mosse da un’Andalusia all’epoca contesa da almoravidi, almohadi e franchi (che sarebbero in realtà gli europei in genere, designati in quanto cristiani come discendenti di Carlo Magno) e accompagna Ibn ‘Arabi da Siviglia a Marrakech, dalla Mecca all’Azerbaigian, in un’atmosfera in cui non c’è scontro di civiltà né mito della tolleranza poiché la storia è narrata da Ibn ‘Arabi stesso, per il quale queste categorie non esistono. La voce di Ibn ‘Arabi è sdoppiata. C’è quella narrante, apocrifa, e c’è quella originale, nell’esergo di ciascuno dei cento capitoli. Da queste frasettine si ricava un’immagine controversa del suo genio. Si alternano intuizioni folgoranti (“Il tempo è un luogo liquido e il luogo è un tempo solido”) a meri truismi (“Chi non ha saggezza, non ha giudizio”) a spigolature da auto-aiuto come “Il velo che hai addosso proviene da te” o “Il viaggio è un ponte verso noi stessi”. Inevitabile, in un autore lontano nel tempo ma meno alieno di quanto l’attuale distanza dall’islam faccia presumere.
Non a caso Alwan stende il proprio romanzo con uno stile che è del tutto contemporaneo sia quanto a struttura sia nei termini (nella traduzione di Barbara Teresi si trovano “periostio”, “supererogatorie”, “è il massimo”, “va in trance”). Colloca così il mistico fuori dal tempo, come si conviene a un pensatore convinto che nascendo si parta per un esilio da cui si ritorna solo ricongiungendosi all’infinito. Un romanzo che ha l’eternità per orizzonte – viene ripetuto infinite volte che il tempo è una costante che appartiene a Dio – non può confinarsi in una prosa aulica o antiquata, come risalta invece dalle citazioni del Corano, che provengono dalla traduzione di Alessandro Bausani (Bur) in cui ad Allah si fa riferimento con un manzoniano “Ei”.
Consegnare al lettore una storia trecentesca come contemporanea lo esorta a trovare nel misticismo punti di contatto con la sua spiritualità attuale. Accade, credo, nel corso del formidabile cammeo di Averroè che dialoga con Ibn ‘Arabi riguardo alla visione del mondo. Per Averroè esiste una legge da esplorare intellettivamente, per Ibn ‘Arabi esiste solo una volontà di Dio da interpretare per allegorie. Per il mistico, alla fin fine, sia la filosofia sia il sufismo sono espressione di amore per Dio, solo che la filosofia è amore non ricambiato. Infatti “il sublime è indescrivibile e inconoscibile”: se “l’intero universo è un dubbio” e “di esso non conosci nient’altro che te stesso”, allora “le strade che conducono alla verità sono tante quante i viaggiatori”. Un po’ del successo del romanzo è stato forse garantito da questa rivelazione, dall’idea consolatoria che Ibn ‘Arabi reputasse ciascun lettore in grado di percorrere da solo una strada privata verso il paradiso: il suo misticismo affascina se si traveste da relativismo e lambisce lo scetticismo.