Riscopriamo Rosario Romeo, lo storico che ha infranto i tabù dei comunisti
L'accademico demolì le tesi marx-gramsciane sulla (mancata) rivoluzione agraria, e fu boicottato dall'intelligentsia di sinistra
Si è svolto, nella seconda metà di maggio, a Firenze (per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio), un importante Convegno di studi sulla figura e l’opera di Rosario Romeo, il più grande storico italiano della seconda metà del Novecento. Oggi Romeo viene assai poco citato, e il suo nome è pressoché scomparso dalle riviste, dalle pagine culturali dei grandi quotidiani, dai loro supplementi culturali. Questa dimenticanza è stupefacente, perché l’opera di Romeo è legata ad alcuni dei momenti più alti del dibattito storiografico svoltosi nell’età della “Prima Repubblica” sulla storia dell’Italia moderna. Romeo assestò alcuni colpi micidiali all’egemonia della cultura marxista, e in particolare alla visione marxiana del Risorgimento e dell’Unità d’Italia.
Nel 1956 lo storico siciliano pubblicò sulla rivista Nord e Sud due saggi – “La storiografia politica marxista” e “Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia” – che poi raccolse in volume. In tali saggi Romeo demoliva le tesi che Gramsci, nei “Quaderni del carcere”, aveva espresso circa l’insufficienza del mazziniano Partito d’azione, che non aveva posto in primo piano l’esigenza di una rivoluzione agraria, e quindi si era isolato dalle masse contadine e così aveva dovuto subire l’egemonia di Cavour e dei moderati: di qui il fallimento del Risorgimento come rivoluzione democratica. Alla tesi gramsciana Romeo obiettava, in primo luogo, che una rivoluzione agraria e giacobina in Italia avrebbe provocato uno schieramento anti italiano delle maggiori potenze europee; in secondo luogo, che la trasformazione dell’Italia in un paese democratico rurale basato sulla piccola proprietà avrebbe richiesto una somma di capitali e di risorse tecnico-agrarie da noi interamente inesistenti nell’Ottocento; in terzo luogo, che fin oltre la metà del secolo XIX, l’industria aveva ancora un peso quasi trascurabile nel quadro dell’attività economica del nostro paese, e anche il commercio, benché avesse un rilievo assai maggiore, era tuttavia subordinato all’agricoltura.
“Accadeva perciò che da noi, ancora verso il 1860, i soli fenomeni capitalistici su larga scala e capaci di dar luogo a forme moderne di organizzazione produttiva di dimensioni rilevanti si riscontravano nell’agricoltura, con lo sviluppo nella Valle Padana, fra Sette e Ottocento, di grandi gestioni agricole caratterizzate da largo impiego di capitali e di mano d’opera salariata, miglioramento dei metodi di coltura, aumento notevole dei mezzi tecnici e della produzione”. Una rivoluzione agraria in Italia avrebbe dunque inevitabilmente colpito le forme più avanzate di economia agraria, liquidando gli elementi capitalistici dell’agricoltura italiana. Ma una volta liquidato dalla rivoluzione contadina il più progredito capitalismo agrario, e nella generale debolezza di quello industriale e mobiliare, il nostro paese avrebbe subito un colpo d’arresto nella sua evoluzione a paese moderno, e non solo sul piano della vita economica, ma in genere dei rapporti civili e sociali.
La congiura del silenzio degli storici
Romeo aveva così dimostrato l’origine pratico-politica delle tesi di Gramsci sul Risorgimento italiano, e la loro intima inconsistenza sul piano economico-sociale e politico. Gli stessi storici marxisti (i Procacci, i Villari, ecc.) non poterono addurre nessuna difesa efficace. E tuttavia la critica di Romeo aveva infranto troppi tabù, sicché lo storico siciliano fu guardato con sospetto da ampi settori della cultura italiana. È un fatto significativo, del resto, che quando apparve la poderosa biografia, in tre volumi, di Cavour, che aveva richiesto a Romeo lunghi anni di lavoro, ci fu una sorta di congiura del silenzio. Come ci ricorda Roberto Pertici (nel suo recente e assai pregevole volume “La cultura storica dell’Italia unita”, Viella editore) nessuna recensione dell’opera romeiana apparve né sulla Rivista storica italiana, né su Studi storici, né sulla Nuova rivista storica.