Eugène Ionesco, foto LaPresse

Quel magnifico reazionario

Giulio Meotti

Da vivo lo attaccavano. Oggi nessuno se lo fila più. Ionesco aveva capito tutto sul nostro conformismo

Quest’anno cadono i 110 anni dalla sua nascita, i 25 dalla sua morte e i 60 dall’uscita della sua opera più famosa, “Il rinoceronte”. Ma nessuno sembra più essere interessato a Eugène Ionesco, specie in Italia, dove di lui si è ricordato questa settimana soltanto la bella rivista letteraria Pangea, nata da una idea di Davide Brullo e Matteo Fais. “Non se ne parla, il suo nome sigilla con catena doppia ciò che è passato. Nonostante la doppia ricorrenza rotonda non sento risuonare ovunque il nome di Eugène Ionesco. Forse non va più neanche in scena. Chi l’ha più visto? Come se ci fossimo stancati di pensare”.

    


“Non farò il gioco della destra ma nemmeno di quelli che dicono di essere di sinistra, gli intellettuali dei quartieri alti di Parigi”


    

E’ come se Ionesco non fosse mai uscito dal purgatorio dei reazionari in cui lo mise la nostra intellighenzia. L’Italia fu il primo paese in cui Ionesco era stato tradotto, finché non piombò nell’interdizione. Alberto Blandi, in un articolo sulla Stampa del 6 febbraio 1975, si espresse chiaramente: “Ionesco vede nero; soltanto nero anche come colore politico: è diventato un reazionario. Il che sarebbe affar suo (si cade in braccio alle destre che si meritano) se anche la sua arte non si fosse fatta reazionaria”. Non a caso per veder tradotto in italiano il saggio del 1961 di Martin Esslin “Il teatro dell’assurdo” si è dovuto aspettare il 1975. Un testo critico che era considerato non solo nel mondo anglosassone “un classico della saggistica contemporanea”, dice Giovanni Antonucci nell’introduzione alla terza edizione del libro uscita nel 1990, ma guardato con sospetto dall’editoria italiana: “La motivazione era esclusivamente ideologica: era un libro reazionario perché si occupava di autori reazionari”.

      

Nato il 26 novembre 1912 a Slatina, in Romania, Ionesco visse praticamente sempre in Francia e fu eletto membro dell’Accademia francese al posto dello scrittore Jean Paulhan. “Ci entro molto volentieri. Oggi l’Accademia è derisa, disprezzata, viene considerata una vergogna, negli ambienti culturali. E io non accetto questa forma di terrorismo psicologico”, disse Ionesco alla sua elezione fra gli “immortali”, lui che era anarchico e inclassificabile. Altro che qualunquista, era un autore veramente europeo e le sue tematiche si nutrivano di una cultura universale che non conosceva frontiere. Ebbe le prime ispirazioni ascoltando i discorsi della portinaia, frasi spezzate, luoghi comuni. Come nacque per caso il suo teatro dell’assurdo, lavorando sul metodo “Assimil”, che suggeriva di imparare a memoria frasi banali per apprendere i rudimenti di una lingua straniera, come “la minestra è calda”. E sempre per caso iniziò a fare lo scrittore, lavorando a Parigi come fattorino per le edizioni Hachette, imballando libri.

       


Contro la “letteratura sentimentale e liberale”, diceva di amare quella che “attribuisce nobiltà alla nostra miseria spirituale”


      

In epoca di realismi e ideologie, Ionesco si è sempre portato addosso l’etichetta di reazionario per l’anticonformismo di fondo, l’anticomunismo (lui che veniva da un paese del socialismo reale) e l’irrisione dei paradossi di generazioni pasciute di benessere. Ionesco ebbe il coraggio di parlare col mondo cattolico non conciliante quando non andava di moda (quest’anno è il trentennale dalla morte di un altro irregolare, Augusto del Noce) e per il Meeting di Rimini Ionesco scrisse appositamente il libretto di un’opera lirica sul martirio di padre Kolbe. “Tutto è assurdo, e tutti sono assurdi, quando manca Dio”, dirà Ionesco al magazine Tracce a margine del suo intervento. “Malraux diceva che il XXI secolo sarà religioso o non sarà. Io sono persuaso che senza la religione il mondo non sarà”.

    

Nel libro-intervista con André Coutin, “Ruptures de silence”, che l’editore Mercure de France fece uscire a un anno e mezzo dalla morte del drammaturgo, Ionesco disse: “La sola forza che mi resta, è il rifiuto. Il rifiuto di sottomettermi, di accettare di perdere la libertà in cambio della tranquillità, l’anestesia… Aderire è sottomettersi al dogmatismo. Non aderisco, dunque sono”. Rimase sempre un estraneo, alle mode, alle etichette e alle intolleranze ideologiche che dettavano legge nel dibattito sociale e culturale. “Non voglio fare il gioco della destra ma nemmeno di quelli che dicono di essere di sinistra, ossia gli intellettuali del quartieri alti di Parigi”, dirà. Si scontrò con i vari Roland Barthes e altri intellettuali che lo accusavano di non fare un teatro educativo e politico, non brechtiano, quindi borghese, fascista, antirivoluzionario.

  

Non firmava appelli. Fece una eccezione nel 1989, quando appose il suo nome alla lettera al leader cubano Fidel Castro. “Fidel, butta giù anche tu il tuo Muro”, si leggeva nel manifesto che esortava Castro a liberare i prigionieri politici, a concedere il diritto di uscire dal paese, a riconoscere la libertà di associazione e quella di stampa e a indire un referendum sulla forma di governo. C’erano anche gli scrittori Mario Vargas Llosa, Saul Bellow e il filosofo Lucio Colletti.

   

Quando nel 1973 accettò un invito del Cidas (Centro italiano documentazione e studi) intitolato “Intellettuali per la libertà”, sull’Avanti! uscì un articolo titolato “Stavolta Ionesco è da dimenticare”. Assieme a Francois Fejtó e Renzo De Felice, Ionesco scriverà sul Giornale di Indro Montanelli. E l’unico suo romanzo, “Il solitario”, uscì presso Rusconi, un editore bollato come “di destra”, infrequentabile. E, come ricorderà Gianfranco de Turris in “Politicamente scorretto” del 1996, “sulle colonne del Corriere della Sera Luigi Malerba deprecava la traduzione italiana di un romanzo ‘reazionario’ di Ionesco edito da Rusconi”. Ma, sempre estraneo alle classificazioni, Ionesco arriverà poi a iscriversi al Partito Radicale di Pannella con le seguenti parole: “Io sono violentemente nonviolento. Se questo partito dovesse cessare, ciò sarebbe disastroso perché in esso ci sono i semi di una spiritualità che può essere infinitamente benefica per gli uomini”.

   

Ha scritto Gabriella Bosco nel libro “Ionesco metafisico” che “Einaudi lo traduceva come autore di teatro, ma manteneva il silenzio quanto a interpretazioni o giudizi di valore, prendendo implicitamente le distanze”. Bosco ricorda che “Paolo Grassi, direttore del Piccolo di Milano, ostracizzò Ionesco perché a suo parere era un autore reazionario”. Fu lo stesso Grassi, a posteriori, a giustificare la scelta: “Credere in un tipo di teatro che camminasse con la logica delle cose, e Brecht ci ha creduto. Ciò non ha impedito però che il teatro, nella sua generalità, scivolasse nell’assurdo, nel fumismo dell’Open Theater e di Ionesco del quale mi sono rifiutato di rappresentare al Piccolo in prima mondiale ‘Il rinoceronte’, cosa che considero titolo di merito. Ionesco non ha alcuna morale, pone l’uomo al di fuori delle fedi, dei partiti, delle idee, delle ideologie, e questo è folle”. Sarà un altro drammaturgo, Fernando Arrabal, a dire: “Personaggi come Strehler hanno impedito per anni la messa in scena di grandi opere come quelle di Ionesco”. Un altro articolo sull’Avanti! lo accuserà di “passare dal precedente cinismo reazionario al fascismo dichiarato”.

    


Attaccò i sessantottini da una finestra: “Diventerete tutti notai”. Gli tirarono sassate. C’era anche il figlio di Gallimard, suo editore


 

Ma che aveva fatto di tanto terribile? Ionesco aveva messo uno di destra e uno di sinistra fianco a fianco, mostrandoli come insignificanti, non di fronte alla politica, ma alla vita e alla morte. Sull’Espresso del 1971, Corrado Augias irriderà Ionesco anche fisicamente: “Viso gualcito, occhi vacui virati in giallo da un permanente sospetto di itterizia, manine tozze dalle dita corte, spatolate, pancino bombato, piedini divergenti. I cinquantanove anni di Ionesco tendono decisamente alla caricatura. C’è chi assicura che l’unico vero teatro ioneschiano ancora esistente è quello cui la famiglia Ionesco al completo dà vita in salotto o attorno al tavolo da pranzo”. Augias ne fece una macchietta.

   

Sull’Unità del 12 aprile 1973 si leggeva che Ionesco era ormai “rientrato comodamente nei ranghi, tanto da meritarsi i vezzeggiamenti di certi squallidi e ridicoli propugnatori nostrani di una cosiddetta cultura di destra”. Il drammaturgo Ghigo De Chiara sempre sull’Avanti lo accuserà di “luoghi comuni”.

   

“Voyages chez les morts”, ultima pièce di Ionesco rappresentata in prima mondiale il 22 settembre 1980 a New York per la regia di Paul Berman, in Italia non verrà nemmeno mai rappresentata. Dal palcoscenico del Teatro Carignano, ospite dei Venerdì letterari, il 29 novembre 1963 Ionesco attaccò i critici letterari: “Egli deve porsi una sola domanda: lo scrittore è stato se stesso nell’opera che ci ha dato? Quali sono i punti in cui ha tradito la propria vocazione? Purtroppo questo tipo di critica è praticamente introvabile oggi. Ognuno cerca di imporre al testo il proprio punto di vista o, peggio ancora, di arruolare lo scrittore nelle file del proprio partito. L’opera viene considerata valida o no nella misura in cui può servire questa o quella ideologia, questa o quella confessione”. Era troppo, ieri come oggi.

  

Fu respinto in occidente come oltre cortina. Bandito assieme a Samuel Beckett dall’Urss, Ionesco liquidò i sessantottini del Maggio parigino da una finestra sul Quartiere Latino: “Diventerete tutti notai”. Risposero con un lancio di pietre, ruppero i vetri del padrone di casa, l’editore Gallimard, che fu comprensivo. “C’era anche suo figlio, fra i dimostranti”, dirà Ionesco. “Non era una cosa seria”, accuserà sempre il Sessantotto. “Non basta l’aggressività biologica dei giovani per migliorare il mondo, specialmente quando sono i figli delle famiglie ricche a muoversi”.

    

Nel 1979 accusò i liberal americani d’indifferenza verso i dissidenti sovietici. Intervistato dal Chicago Tribune, Ionesco spiegò perché gli Stati Uniti sono l’“ultimo bastione di libertà” e l’“antiamericanismo è nato in Francia, anzi a Parigi, anzi nei suoi caffè, anzi nel Caffè de Deux Magots, anzi al tavolo di Sartre”. Sul Figaro, Ionesco lanciò una campagna per combattere l’autodenigrazione, un atteggiamento che si andava sempre più diffondendo negli Stati Uniti. “Sono masochisti che vogliono essere additati come colpevoli per tutto ciò che va male nel mondo”, affermava lo scrittore reduce da un soggiorno di alcuni mesi negli Stati Uniti. Si dichiarò “scioccato” dal clima che ha riscontrato negli ambienti intellettuali e studenteschi. “Studenti di sinistra per i quali la cosa peggiore che si possa dire è che gli americani non sono i peggiori criminali del mondo”.

   

Lo scrittore pensava che l’atteggiamento di autodenigrazione degli americani si potesse spiegare psicologicamente: “Sono stati costantemente messi sotto accusa dagli europei e ora hanno sentimenti di colpa per tutto”. Nessuno, scriveva Ionesco, “si è lamentato quando l’Unione Sovietica ha annesso parti dell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale, ma tutti si sono messi a gridare ‘Yankee Go Home’, e gli americani hanno accettato tale situazione. Sentivo il bisogno di tirare su il morale degli americani e di dire loro: non siete dei mostri, avete salvato l’Europa nel 1918 e l’avete salvata anche nel 1945”. I conti con la sinistra francese li aveva chiusi da tempo: “Hanno approvato tutte le cose mostruose, il terrore leninista e staliniano, Mao, l’Afghanistan e Cuba. Non me la sono sentita di seguirli”.

    

Scriveva per Kontinent, la rivista degli esuli russi anticomunisti a Parigi. Diceva che “strani filosofi, maestri del pensiero alla moda esaltano la liberazione dalle inibizioni di tutti i nostri desideri, che esasperati si oppongono ai desideri degli altri e la loro esacerbazione non porta che all’esplosione finale, all’orgia universale, alla distruzione della cultura, alla fine di tutto. La libertà corre verso la schiavitù”.

      


 “Sento il bisogno di tirare su il morale degli americani e di dire loro: avete salvato l’Europa nel 1918 e nel 1945”


   

Quando è morto, Masolino D’Amico sulla Stampa attaccò “la cultura di sinistra che per qualche lustro ha tentato di screditare una voce rea di professarsi apolitica e anzi, peggio, avversaria dei totalitarismi”. Ionesco pensava che la nostra cultura fosse diventata cieca, “una cultura divenuta sempre più umanizzante invece di essere metafisica, sempre più psicologica invece di essere spirituale. Vi sono sorrisi di santi, angeli e arcangeli sui volti delle sculture che si trovano nelle cattedrali e noi non sappiamo guardarli”.

   

Derideva l’umanesimo sartriano, che si è proposto “l’abbandono delle cure spirituali e metafisiche. Il problema del nostro destino, della nostra esistenza nell’universo, del valore o della precarietà delle condizioni esistenziali nelle quali viviamo, tutto questo non è più stato preso in considerazione. E’ il problema essenziale che è stato dimenticato, dei nostri fini ultimi. Li abbiamo abbandonati per dei fini immediati. Non sappiamo più cosa fare, dove dirigerci e, a causa del voler vivere, ci è diventato impossibile vivere. Gli uomini girano in tondo nella loro gabbia che è il pianeta, hanno dimenticato che si può guardare il cielo”.   

     

Lamentava la fine di quella letteratura che “riconosceva un valore alla debolezza, pareva che attribuisse nobiltà alla tristezza, all’impotenza, alla nostra miseria spirituale…”, mentre oggi si vive in un mondo di belve e “la letteratura degli scrittori contemporanei che ci pareva più fredda e più lucida tra poco non sembrerà più abbastanza lucida, abbastanza fredda e anch’essa raggiungerà, nelle fogne, la letteratura sentimentale e liberale. Siamo perduti”.

   

Riteneva che il mondo fosse “insieme inferno e miracolo”. Il suo umorismo nero lasciava vedere una tragica filigrana. Disimpegnato e inattuale, talmente assurdo da dover essere ancora nascosto alla vista del pubblico. Fosse mai che quest’ultimo si guardasse allo specchio e gli venisse da ridere.

Di più su questi argomenti:
  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.