L'élite è morta, viva l'élite!
Dallo snobismo liberale (copyright Elena Croce) messo in mora dal fascismo alla classe dirigente repubblicana
C’era una volta l’élite liberale. Fu messa in mora dal fascismo e per vent’anni conservò orgogliosamente la sua idea di libertà. Nel dopoguerra, colma di speranze di rinascita, si vide invece spodestata dalla sua caricatura, un’orrenda e vorace simil-borghesia, sprovvista di cultura e di educazione democratica, avida di prebende pubbliche e dedita al saccheggio del territorio… E se fosse già scritto che prima o poi tutte le élite tramontano? E’ successo all’élite liberale, potrebbe accadere alle élite democratiche, con questo intendendo le classi dirigenti repubblicane – progressiste o conservatrici – educate ai valori costituzionali. Meglio guardarsi allo specchio in fretta e cercare di capire che cosa non va, altrimenti potrebbe rivelarsi arduo consegnare quello in cui crediamo alle prossime generazioni.
Davanti ai tempi nuovi con “una concezione di élite mai riveduta, e invece, di colpo, ci si vedeva sorgere dinnanzi la società di massa”
Ho letto Lo snobismo liberale di Elena Croce, geniale e feroce ritratto dell’élite borghese tra le due guerre, e ne sono rimasta folgorata. E’ in pubblicazione anche un saggio – Elena Croce e lo Spettatore Italiano: una vocazione per la civiltà, edito da Rubbettino – che Emanuela Bufacchi dedica alla rivista, fondata con il marito Raimondo Craveri, che uscì tra il 1948 e il 1956. Il primo è un piccolo saggio-memoir – ottanta pagine che si presentano come “album di ricordi femminili e mondani”: pubblicato per la prima volta nel 1964, oggi è nella Piccola Biblioteca Adelphi ed è da considerarsi un classico. Uno di quei testi viventi, nati in tempi più o meno lontani, capaci di rivelare qualcosa del presente che noi, poveri presbiti, ancora non mettiamo bene a fuoco. Il saggio di Emanuela Bufacchi sullo Spettatore è invece uno studio – con antologia di scritti e indici della rivista – su un’esperienza culturale e politica singolarissima, sponsorizzata da Raffaele Mattioli, allora grande mecenate della Banca Commerciale Italiana, per promuovere la formazione delle classi dirigenti italiane.
Nata nel 1915, figlia primogenita di Adele Rossi e di Benedetto Croce – vecchie foto in bianco e nero mostrano nel suo sguardo la forza penetrante di quello paterno, la piega delle labbra è lievemente imbronciata, l’espressione volitiva – Elena stava per sfiorare i cinquant’anni quando pubblicò Lo snobismo liberale. “Il titolo le fu suggerito da Pietro Citati – racconta sua figlia, la scrittrice Benedetta Craveri – Mia madre scriveva di getto, spinta dall’urgenza di quello che voleva dire, si rileggeva ugualmente in fretta e poi passava ad altro. Certo scriveva magnificamente ma Citati, a cui era legata da una grande amicizia, soffriva talmente per la sua punteggiatura che le faceva d’autorità l’editing indispensabile. Della gloria letteraria le importava nulla, lasciava che gli altri rivedessero i suo i testi… Qui c’è la sua visione profondamente umanistica, liberale, antifascista: era figlia di suo padre e aveva sposato un uomo che aveva fatto la Resistenza; faceva ovviamente parte di un’élite ma non sopportava l’elitismo, l’estetismo decadente e la sua banalizzazione caricaturale, l’attitudine a voler confermare una superiorità quasi innata… Era una donna con un profondo senso di responsabilità, fiduciosa nel futuro e convinta della necessità di un rinnovamento culturale. Si è sempre battuta per questo”.
Vedeva una soffocante chiusura verso il mondo. Per Elena Croce la dimensione di ogni azione culturale non poteva che essere europea
Lo stile ironico, la prosa densa ed elegante, il tono sempre lieve e quasi distratto con cui Elena Croce tratteggia salotti e signore, sono tuttora godibilissimi. L’album di ricordi mondani c’è, eccome. Con le padrone di casa capaci di gestire le pubbliche relazioni del coniuge in carriera in modo manageriale, studiando la pianta dei posti a tavola per intere mattinate. Con la moderna estetica del matrimonio, che ormai vuole “la bella coppia” in luogo della fanciulla di buona famiglia consegnata alla calvizie di un marito molto più anziano, mentre il sex appeal ha preso il posto della ridicola e antiquata sensualità dannunziana e la prole, “più infantile e più animalesca del bambino comune, un prodotto selezionato di razza”, è affidata alle mani di capaci “allevatrici svizzere”. Ma, sotto la filigrana della parodia di costume, ecco affiorare la consapevolezza della crisi di un mondo. Dopo la guerra, si legge, “ci si apprestava, con l’ingenuità tipica di quel periodo, ad affrontare i tempi nuovi con una concezione di élite che non era mai stata riveduta, ma che appariva più che mai confortata dalla lotta contro il fascismo… E invece, di colpo, ci si vedeva sorgere dinnanzi, come un grattacielo, la società di massa. Si andava profilando un’enorme caricatura collettiva di quel sistema di agi e prestigiosità borghesi che l’élite aveva portato all’estremo raffinamento e di cui cominciava a sentire le materiali pesantezze”. Ecco che le memorie femminili, distillate in forma quasi aforistica, rivelano il loro vero oggetto: la differenza tra ciò che si pensa di essere e ciò che in effetti si è. “Liberale l’élite era, ed era orgogliosa di esserlo solo in forma nostalgica, romantico decadente. Essa portava con fierezza la coscienza di essere minata all’origine dall’estetismo (…). Di fatto, se esteriormente, nel costume, nel corretto anglicismo, l’élite si presentava come liberale, nell’intimo era romantico-reazionaria, convinta di possedere, per diritto divino, il segreto ineffabile della ‘personalità’ e di doverlo difendere come un Graal”.
Naturalmente, al tempo del populismo, la parola élite ha assunto significati esecrabili che sono lontani anni luce da Elena Croce. Qui il bersaglio non sono le élite culturali del mondo liberale, sono le sue imitazioni sociali, l’elitismo e lo snobismo che viene descritto come “orribile lemure”. Una creatura avvistata per la prima volta nell’Inghilterra di metà Ottocento, dove aveva succhiato “ogni restante linfa vitale alla figura del gentiluomo” per assumerne la mimica, i gesti, i rituali, l’idea della ricchezza come dato implicito, uccidendone lo spirito pubblico. “Per mia madre – precisa lo storico Piero Craveri – la vera élite era quella morale e intellettuale, che è sempre stata una minoranza e che andava salvaguardata da quelle élite borghesi che ne indossavano le forme senza assumere alcuna responsabilità sociale. Ma certamente oggi, in un momento in cui la rivolta contro le élite e la crisi del meccanismo democratico rischiano di sfociare in soluzioni illiberali, è utile ripensare quella sua polemica di allora”.
“Di fatto, se esteriormente, nel costume, l’élite si presentava come liberale, nell’intimo era romantico-reazionaria”
L’antidoto cui pensava Elena Croce era una rinascita culturale che mettesse al centro la formazione di una riserva di individui educati abbastanza vasta da poter contribuire a formare una classe dirigente all’altezza del mondo nuovo uscito dalla guerra. A questo scopo, andava fondando riviste come Aretusa, Lo Spettatore Italiano e poi Settanta. Intorno a sé percepiva assuefazione all’assenza di personalità di rilievo e un’inaccettabile rassegnazione; sul piano letterario vedeva gusti ormai fossilizzati e una soffocante chiusura verso il mondo. Per lei, la dimensione di ogni azione culturale non poteva che essere europea: “Ovviamente sapeva che la nostra cultura lo era sempre stata – prosegue Benedetta Craveri – e che doveva riparare al provincialismo fascista aprendosi anche alla letteratura anglosassone e anglo-americana. Lei stessa traduceva dallo spagnolo, dall’inglese, dal francese, dal tedesco e, in ultimo, anche dal polacco. E non è un caso che, quando ebbero l’occasione di venire a Roma, personalità illustri come Adorno o Borges si premurarono di andare a trovarla”.
Negli anni Cinquanta, sullo Spettatore, Elena Croce scrisse diversi saggi sugli intellettuali. “La sua visione – spiega Emma Giammattei, docente di Storia della critica all’Istituto italiano di studi storici – era profondamente segnata da quella del padre, che apparteneva alla prima vera generazione di intellettuali ed era l’autore del manifesto di opposizione al fascismo. Ma nella sua difesa dell’individuo si sente anche l’influenza dell’Adorno dei Minima Moralia. La figura dell’intellettuale le appare schiacciata tra l’engagement della sinistra di quegli anni, che lei considera fallimentare e che definisce come un paradossale transito dal poeta ermetico al poeta del popolo, e la società dello spettacolo che sta trasformando il mondo in immagine, in un doppio caricaturale dominato dalle mode. La sua risposta per uscirne è: portare avanti la coscienza liberale nella sua oscillazione costitutiva tra scetticismo e moralismo. Per questo, non fa altro che aggregare gruppi che ne promuovano i valori con un attivismo frenetico…”.
Non conosceva Lampedusa, ricevette il manoscritto, seppe dei rifiuti e lo consigliò a Bassani, che lo pubblicò da Feltrinelli
Che cosa fosse quell’attivismo lo racconta ancora Benedetta Craveri: “Il suo non fu mai un salotto letterario – detestava l’idea di ‘salotto’. Era all’ascolto degli altri e giudicava importante che le persone le più diverse – da Cesare Cases a Elemire Zolla, da Citati a Bassani e ai più giovani Tullio De Mauro a Stefano Rodotà, tanto per fare qualche esempio – si incontrassero. Quando arrivarono in Italia gli esiliati spagnoli del franchismo e la sinistra si occupava soltanto di Alberti perché era comunista, lei si legò a Maria Zambrano, l’allieva di Ortega con la quale tenne una meravigliosa corrispondenza. Ambientalista ante litteram, fu fra i soci fondatori di Italia Nostra e, anni dopo, incoraggiò Giulia Maria Crespi a creare il Fai… Amica di La Malfa, gli rimproverava di non capire l’urgenza del problema, perché la politica era sempre in ritardo… Era maieutica e rabdomantica e le persone che ha incoraggiato a scrivere, a trovare la loro strada, sono innumerevoli. Il caso del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa è abbastanza emblematico: non conosceva Lampedusa, ricevette il manoscritto dall’ingegner Giarga, chiese a chi era stato mandato in lettura e seppe del rifiuto di Einaudi e di Mondadori, cioè di Vittorini che era consulente. A lei il romanzo piacque e lo consigliò a Bassani che – come sappiamo – lo pubblicò da Feltrinelli quando Tomasi di Lampedusa purtroppo era già morto. La famiglia le rimproverò di non essere stata abbastanza celere nel far pubblicare il romanzo e ancora oggi si fa il computo di quanti mesi Elena Croce tenne il manoscritto nel cassetto… Ma la mamma non era né una consulente editoriale, né un agente letterario e non considerò mai un merito l’ aver fatto pubblicare Il Gattopardo, fece quel gesto di slancio perché le sembrava giusto che un libro di quella qualità venisse pubblicato”.
Lo Spettatore Italiano nacque nel 1948 come strumento per la formazione delle classi dirigenti, la sua era chiaramente una funzione di cultura politica. Quella cosa che oggi non c’è più. Fondato da una coppia, ebbe una doppia anima. Raimondo Craveri si occupava della parte politica ed economica della rivista che, sotto l’impulso di Mattioli – tra il 1952 e il 1954 – sperimentò una non semplice collaborazione tra liberali, cattolici e comunisti, con la partecipazione di un gruppo eterogeneo di intellettuali, tra i quali anche Franco Rodano e Gabriele De Rosa, provenienti dalla Sinistra cristiana confluita nel Pci. Animatrice della parte letteraria della rivista, che aveva un’austera e settecentesca veste, fu sempre Elena Croce che chiamò a collaborare Gabriele Baldini, Gorgio Bassani, Pietro Citati, Franco Fortini, Cesare Segre, Leo Spitzer, Elemire Zolla e molti altri e ne fece il veicolo di quell’apertura europea che introduceva in Italia la produzione di Lukács, di Benjamin, di Adorno…
Scrive Emanuela Bufacchi, che sta ancora lavorando al suo saggio sullo Spettatore, che nei primi due anni della rivista l’indirizzo storico-letterario fu preminente, la sua parentesi propriamente politica si consumò nei due anni successivi e si concluse con una separazione consensuale, che segnò la fine della collaborazione tra liberali e cattolici-comunisti, rimettendo la direzione nelle mani di Elena Croce. Lo Spettatore, ha raccontato lei stessa in una memoria autobiografica, era nato da un’idea di Raimondo Craveri, ispirata alla scuola economica di Cambridge: “Kaldor e la Robinson, suoi principali rappresentanti, venivano spesso a Roma e li avevamo conosciuti tramite Raffaele Mattioli, il nostro mecenate, che era anche amico del grande economista Sraffa. A me toccò il côté letterario della rivista… Mio marito nel frattempo si faceva sempre più affascinare dai comunisti, e in particolare dai comunisti cattolici, attraverso Franco Rodano, e le nostre opinioni quindi andavano sempre più divergendo”.
La storia dello Spettatore consentirà di rimettere a fuoco quel delicato passaggio e quella divergenza, cui la rivista sopravvisse per altri due anni. Più tardi, con lo stesso spirito, Elena Croce avrebbe fondato Settanta. Secondo una famosa definizione di Cesare Cases è stata “l’ultima levatrice di intellettuali”.