Se le vignette politiche fanno arrabbiare qualcuno, è meglio eliminarle?
La versione internazionale del New York Times abolisce la satira dopo le accuse di antisemitismo
Roma. Dopo la pubblicazione “per errore” di una vignetta accusata di “fare il gioco della propaganda antisemita”, il New York Times ha deciso di eliminare nella sua versione internazionale la quotidiana vignetta politica dalla pagina delle opinioni. Dal primo luglio, si legge in un comunicato del responsabile delle pagine editoriali James Bennet, i vignettisti Patrick Chappatte e Heng Kim Song saranno licenziati: “Vogliamo continuare a investire in varie forme di giornalismo d’opinione, anche di visual journalism, che esprimano sfumature, complessità e che siano una voce forte dal punto di vista della diversità attraverso tutte le piattaforme”. Secondo Bennet la decisione non è del tutto legata alla pubblicazione della vignetta incriminata il 25 aprile scorso, perché “già da un anno” era in discussione la proposta di allineare l’edizione internazionale del New York Times a quella domestica, dove da tempo non esistono più le opinioni sotto forma di disegni. Insomma niente satira.
La vignetta pubblicata dal New York Times il 25 aprile che ritrae Benjamin Netanyahu e Donald Trump
E infatti nel comunicato si cita una forma molto meno controversa di vignette, il graphic journalism: “Lo scorso anno per la prima volta il New York Times ha vinto un Pulitzer nella categoria dei fumetti politici”, grazie al lavoro di Jake Halpern e Michael Sloan che hanno raccontato la storia di una famiglia di rifugiati siriani. “In tutta la mia carriera sono stato guidato dalla convinzione che la libertà che ti dà la vignetta satirica corrisponde a un grande senso di responsabilità. In più di vent’anni in cui ho consegnato due volte a settimana vignette per l’International Herald Tribune prima, e il New York Times poi, ho pensato di averlo ampiamente dimostrato”, ha scritto sul suo blog Patrick Chappatte. Poi qualcosa è successo: “Una caricatura di Netanyahu scaricata da un service e ristampata nell’edizione internazionale ha innescato l’indignazione generale, le scuse pubbliche del Times, e la fine del rapporto con i service. Ma la scorsa settimana mi hanno detto che chiuderanno anche il rapporto con i vignettisti interni. Metto giù la penna sospirando: sono molti anni di lavoro cancellati da una singola vignetta – che non è nemmeno mia – che non avrebbe mai dovuta essere pubblicata”.
Chappatte è uno che per anni ha cercato di spiegare – gira spesso anche un suo Ted sulla questione – che c’è un modo di fare ironia senza offendere. Ma che “senza humor siamo tutti morti”, come ha scritto nella vignetta dopo la strage di Charlie Hebdo. Ma nel mondo del politicamente corretto è sempre più facile ricorrere all’autocensura, come fa Facebook con i filtri, spiega Marco D’Ambrosio meglio conosciuto come Makkox, che sul questo giornale, tutti i giorni, interpreta la politica in prima pagina. “Il graphic journalism è tutta un’altra cosa, ti appoggi sulle certezze, sui fatti, sai quello che stai raccontando. Col graphic journalism non hai mai un dubbio. La satira invece deve farti venire i dubbi: per esempio quando mi trovo a ridere su delle vignette di destra, i dubbi mi vengono, perché devi fare i conti con quella cosa, e porti domande”. E appunto, il politicamente corretto che preferisce evitare il problema, piuttosto che affrontarlo: “Ma poi siamo sicuri che sia così bello questo politicamente corretto? È come una castrazione, annulla la libido satirica. Come quelli che dicono: ‘No, non litighiamo’. Ma invece le cose bisogna dirsele, altrimenti si finisce nel peggiore dei divorzi”.
Secondo Makkox la satira ha un effetto “esorcizzante”, anche degli orrori, e “quando ne fai a meno vuol dire che ti spaventa. Il Times avrebbe potuto dire: era una vignetta sbagliata, ci è venuta male, scusateci, e poi andare avanti”. Ma è una decisione Facebook, appunto: filtrare tutto, e quindi rischiare di censurare tutto, anche il pensiero indipendente, anche l’arte. “Insieme all’Economist”, scrive ancora Chappatte sul suo blog, “con l’eccellente Kal, il New York Times è stato uno degli ultimi luoghi capaci di pubblicare vignette politiche internazionali – e per un giornale americano che punta ad avere un impatto significativo in tutto il mondo è abbastanza logico. Le vignette politiche superano i confini. Chi mostrerà all’imperatore Erdogan che è rimasto senza vestiti, quando i vignettisti turchi non possono farlo? Uno di loro, il nostro amico Musa Kart, ora è in prigione. Vignettisti dal Venezuela, dal Nicaragua e dalla Russia sono stati costretti all’esilio. Negli ultimi anni alcuni tra i migliori fumettisti americani, come Nick Anderson e Rob Rogers, hanno perso il lavoro perché gli editori li consideravano troppo critici nei confronti di Trump. Forse dovremmo iniziare a preoccuparci. E fare qualcosa. I fumetti politici sono nati con la democrazia. E vengono sfidati quando anche la libertà è sotto attacco”.