Fuoco sacro
Un pianeta precipita sulla Terra e la distrugge. E’ l’idea distopica della Russia di “Chovanšcina”, fra proteste e lamenti e nessuna redenzione
Un falò (vero) illumina la notte; le fiammelle (vere) di un candelabro oscillano al vento; sottili lingue di fuoco (proiettate) fuoriescono dalla bocca di una torre industriale; il rogo di un pianeta (altra proiezione) strugge tutto tra vampe purificatrici. E’ l’incendio, alluso o manifesto, sotto controllo o incoercibile, l’allegoria scelta da Mario Martone a rappresentare lo scontro di idee, concezioni del mondo e della spiritualità, che divampa lungo i sei quadri di “Chovanščina”, opera pressoché compiuta (tra il 1872 e l’80: mancano poche battute in chiusura del secondo quadro e il finale ultimo) ma non strumentata da Modest Petrovič Musorgskij, che il Teatro alla Scala ha offerto a un pubblico quantomeno nutrito e mai men che furiosamente entusiasta. E se le repliche dello spettacolo diretto e concertato da Valerij Abisalovič Gergiev sono terminate, non è questa una buona ragione per passare sotto silenzio l’iniziativa milanese; giacché, per quanto ne so, “Chovanščina” non saliva le scene italiane da quindici anni. Basterebbe il lasso temporale inammissibilmente ampio e, trattandosi di un capolavoro, gravemente colpevole a giustificare questa nota.
L’incendio che divampa lungo i sei quadri è l’allegoria scelta da Mario Martone a rappresentare lo scontro di idee e spiritualità
Che si sia trattato di un’edizione inappuntabile non mi sentirei di sostenerlo. E’ stato qualcosa di più, e di meglio, tuttavia: un’edizione persuasiva, di forte impatto emozionale, dipanata con encomiabile limpidezza narrativa. Impresa non facile tenuto conto della drammaturgia dispersa e decentrata caratteristica di “Chovanščina”. Da qui però a negare, come sempre si fa e come asserisce persino Elisabetta Fava, l’esquisita musicologa torinese a cui la Scala ha commissionato il del resto eccellente programma di sala, la presenza di figure capitali e egemoniche, ce ne corre. Tra i personaggi che agiscono sulla scena, ben quindici, ve ne sono infatti alcuni che contano più degli altri; e non mi riferisco, ovviamente, a una distinzione basata sul numero di battute cantate da ciascuno di loro, bensì a una preponderanza legata a questioni di contenuto. E’ per questo che Marfa, unico carattere femminile a godere di vaste plaghe solistiche una più memoranda dell’altra, e da alcuni classificata prima inter pares, tale in effetti non è.
Costei difatti gravita nella sfera di Dosifej, capo dei Raskol’niki (Scismatici), ossia, più propriamente, Starovery (Vecchi credenti), una fazione di cristiani ortodossi contrari alle riforme ecclesiastiche promosse a metà Seicento dal patriarca Nikon con il sostegno della corona. Contrapposto e complementare al polo spiritual-politico di Dosifej (ispirato all’arciprete Avvakum, 1621-82) è quello militar-politico degli strel’cy (in italiano strelizi), la guardia dello zar comandata, nell’opera come nella realtà storica degli anni che precedettero l’ascesa al potere di Pietro il Grande, dal principe Ivan Andreevič Chovanskij (prima del 1630-82). Ecco, sono loro – non a caso bassi, voci gravi che incarnano autorità, potere – i due perni attorno ai quali ruota l’intreccio, tessuto da Musorgskij a partire da una ricca cernita di testi storiografici e memorialistici e concentrando in breve lasso temporale fatti accaduti a parecchi anni di distanza l’uno dall’altro (1682, ’89, ’98). Anche il titolo dell’opera allude al secondo dei due capipopolo: il tentativo di sedizione architettato dal principe, ci informa il boiaro Šaklovityj (baritono: Alexey Markov) alla fine del secondo quadro, sarebbe stato liquidato dallo zar Pietro con il neologismo chovanščina, traducibile all’incirca con chovanskeria o chovanskata, dove i suffissi -eria o -ata (-ščina in russo) valgono come peggiorativi; una boiata o ca***ta degna dei Chovanskij, infine.
La centralità dei due bassi Gergiev la dà per assodata, e onde garantirle il massimo risalto si avvale di un espediente tanto semplice quanto efficace: porre in luce le differenze che passano tra il modo di esprimersi dell’uno e dell’altro. Al principe, borioso sanguigno brutale, è richiesto un canto declamato plastico e aggressivo (fa eccezione l’accorato addio agli strelizi in fondo al terzo quadro), che il veterano Vladimir Vaneev, interprete della parte in alternanza con Mikhail Petrenko, riesce a comunicare nonostante o forse grazie a una condizione vocale parecchio provata e lisa. Dosifej (Stanislav Trofimov, neppure lui un portento quanto a tecnica) inclina viceversa al canto legato e a un afflato lirico contenuto eppure intenso, che il podio enfatizza imponendo toni sommessi e disincarnati, come di chi viva in comunione diretta con dio, a tutto il comparto dei Vecchi credenti, Marfa non esclusa. Creatura impastata di terra e di cielo, strega maliarda e al tempo stesso Maddalena penitente, questa “donna vera, forte e innamorata, […] un contralto passionale” (Musorgskij) atterrisce e consola alitando dolcissimamente le sue frasi: Ekaterina Semenchuk può contare la sua prestazione tra le vette luminose di una carriera nel complesso più ricca di soddisfazioni personali che di riuscite artistiche piene.
Il tono generale è lirico, cantabile, adattissimo dunque all’indole calorosa della nostra bacchetta. Maestosità e azione
Il lato oscuro delle voci è naturalmente bilanciato da quello chiaro, che però in questo caso non è sinonimo di limpido. Ambizione suprema di Musorgskij era difatti conseguire in musica la “verità [che] non ama messe in scena false”, l’“essenza della vita”, una vita “radicata nelle patrie pianure e nutrita di pane russo”. Questa propensione al realismo fa sì che sugli esseri umani e sulle loro vicende si posi uno sguardo disincantato proprio perché partecipe delle sorti altrui: non esistono più eroi buoni e antagonisti cattivi, ovverosia tutti partecipano del bene e del male, dell’amore e dell’odio, della probità e del tradimento. Individui sfaccettati e contraddittori, vogliono la felicità e la salvezza per sé e per la patria, e ottengono solo di perdersi insieme con essa. E’ così che in “Chovanščina” il ruolo di tenore cessa d’incarnare l’eroe positivo che sfida il destino avverso: in tre casi, lo Scrivano, Kuz’ka e il principe filoeuropeo Vasilij Vasilevič Golicyn (pronuncia Galìtzin, 1643-1714, ministro e favorito di Sof’ja Alekseevna, 1657-1704, zarina reggente dal 1682 all’89), incontriamo il tenore di carattere tipico della tradizione operistica russa: alla Scala Maksim Paster, Sergej Ababkin e Evgenij Akimov esibivano quell’accento vivo e acuminato che di timbri e temperamenti siffatti ha da essere la prerogativa principale. Quanto ad Andrej Ivanovič Chovanskij (Sergej Skorokhodov), non meno arrogante del padre ma di lui parecchio più imbelle, potrebbe figurare entro la costellazione dei personaggi come un ‘amoroso’ dai toni scopertamente, quindi falsamente, eroici, sennonché le sue brame non stabiliscono mai corrispondenze biunivoche con le donne a lui contigue: vuole a ogni costo Emma, “fanciulla del quartiere tedesco” (Evgenia Muraveva, bravetta), che invece lo aborre; aborre, pur avendola sedotta, Marfa, che invece lo vuole a tal punto da trascinarlo con sé nel “fuoco sacro” su cui alla fine si immolano gli Starovery.
Emma è uno dei due soprani in locandina, l’altro essendo Susanna, a dire del compositore un’“attempata vergine che vede nella cattiveria tutto il gusto della vita” e che canta in modo “asciutto e stridulo”: Irina Vashchenko adempiendo egregiamente il dover suo. E’ anche, Emma, l’unica persona descritta come “innocente, pura, candida”. E tuttavia si tratta di un’estranea; di farcene consci s’incarica la musica: un disegno di cinque note, una cadenza di sol minore, smaccato riverbero della tradizione occidentale classica e romantica, l’accompagna per tutto il tempo, mentre la linea vocale s’inarca insistentemente verso l’acuto (fino al do bemolle), prestandole i connotati di un soprano “sfogato” alla maniera italiana. Due manifestazioni di quella “bellezza” che, a dire di Musorgskij, andava respinta e superata in quanto “fase infantile dell’arte”. Mescolarsi con l’Occidente (come vorrebbe fare Andrej Chovanskij) fa perdere di vista la verità della Santa Russia (verità in senso mistico: l’aggettivo ricorre tanto nelle lettere di Musorgskij quanto nello spartito autografo di “Chovanščina”). La sola salvezza sta nella lingua e nella musica autoctone: “Sto lavorando sul modo di parlare della gente per arrivare alla melodia creata da questo modo di parlare, sono giunto alla fusione del recitativo con la melodia”, ossia a “una melodia razionalmente sensata/giustificata” (Musorgskij a Vladimir Vasil’evič Stasov, ideologo e consigliere intimo della scuola musicale russa da lui battezzata Potente mucchietto).
Protesta e lamento (anche nella variante dissimulata della preghiera) sono le modalità di espressione preferite da singoli e masse in “Chovanščina”. La protesta elevata da Musorgskij è nondimeno così alta e accorata che non si limita a ergersi in difesa degli ‘umiliati’ e ‘offesi’, ma giunge fino a interrogarsi sulle cause prime dell’umiliazione e dell’offesa nella vita di ogni uomo. Equità e giustizia essendo estranee a questo mondo, la comprensione e persino la compassione per il prossimo non sfociano in alcuna redenzione. Lo stesso sacrificio dei Vecchi credenti, che secondo Richard Taruskin (luminare della storiografia musicale russa) conduce gli “unici personaggi del dramma […] ad avere agito da cristiani” verso “un’utopia dello spirito liberato” (Caryl Emerson) dai lacci della storia, non lascia adito a speranze di sorta, né immanenti né trascendenti. Del resto, il fondo pessimista dell’opera non è chi non lo percepisca; le divergenze sorgono, semmai, sull’entità di quel pessimismo: “quieto” per Taruskin, per Gianandrea Gavazzeni invece “il risultato drammatico sarà nella dissoluzione di tutte le forze in atto”. Dello stesso parere pare Martone quando associa la pira sacrificale degli Scismatici a un pianeta che precipita sulla Terra distruggendola (un’eco di “Melancholia”, il film di Lars von Trier? a ogni modo, l’idea, spettacolare e grandiosa, si deve a Ippolita Di Majo, ineffabile consorte del regista). Ma l’intero allestimento scaligero, ambientato in una Russia distopica o forse ucronica, uscita da un conflitto o cataclisma naturale che l’ha precipitata in un buio e in una sterilità perenni (un mondo alla “Blade runner”, ripensato con consumata abilità se non con inventiva soggiogante dalla scenografa Margherita Palli), lascia ben poco spazio alle idee di progresso, perfezionamento e civilizzazione perorate da Stasov e dai Populisti (i Narodniki, convinti assertori dell’apertura all’Europa) e persino dai riformisti seguaci dello zar Alessandro II. Idee che Musorgskij non condivideva.
L’ambizione suprema di Musorgskij era quella di conseguire in musica la “verità che non ama messe in scena false”
La sua, difatti, è una prospettiva nazionalista, isolazionista, spiritualista, dai robusti nessi reazionari (proveniva da una famiglia di antica aristocrazia terriera ridotta in ginocchio nel 1861 dall’abolizione della servitù della gleba); e quando parla di affratellarsi al popolo non si riferisce solo ai poveri, ma intende l’intero tessuto sociale che affonda le radici nella “terra nera” (černozëm, dal colore del suolo nella steppa russa), come si legge in una lettera del 1872, alle soglie di “Chovanščina”. Come per la musica, il pericolo viene da ovest: basta rileggersi il monologo assegnato nel terzo quadro a Šaklovityj, quel bellissimo “Lento lamentoso” liquidato da Stravinskij come “aria famosa e banale” (tali gli effetti dello snobismo intellettuale!): “Ah, patria mia, Russia dall’infelice destino! Chi, chi mai ti salverà dalla cattiva sorte? […] E’ mai possibile che il perfido tedesco tragga profitto dalla tua sventura? […] Signore! […] Manda un eletto che salvi, che risollevi l’infelice Russia sofferente!”. Dove, oltre al nemico apertamente proclamato, impressiona l’attesa messianica di un salvatore, ovverosia l’inanità di ogni azione diretta, di ogni impegno, individuale o collettivo: un misto di fatalismo e oblomovismo schiettamente russo.
L’impostazione attualizzante dello spettacolo milanese si sposa fino a un certo punto con il carattere da poema epico trasfuso nella vicenda, e non c’è dubbio che l’insistenza sui marchingegni impiegati per spiare e riprendere le vite degli altri (droni telecamere telefonini microfoni) perda via via di efficacia. Per controbilanciare la perdita di ‘aura’, Martone ricorre ora alla materializzazione di figure storiche nel libretto solo evocate (la zarina Sof’ja Alekseevna che tiene per mano i due fanciulli in nome dei quali governa, Ivan e appunto Pietro), ora a effetti luministici di formidabile suggestione espressiva (un bravo a Pasquale Mari). Non altrettanto purtroppo si può dire dei costumi più che squallidi di Ursula Patzak: passi per i diseredati, ma con le classi elevate come la mettiamo? si vuole forse alludere alla volgarità dei nuovi ricchi? a parte il fatto che i prìncipi in questione vantano blasoni plurisecolari, qual è oggi il neomilionario che in fatto di moda non si affidi a un personal shopper e style consultant?
La prospettiva di Musorgskij: nazionalista, isolazionista, spiritualista, dai robusti nessi reazionari. Il pericolo viene da ovest
L’afflato epico era comunque appannaggio particolare del podio: un tantino meno ampio e disteso nell’andamento complessivo rispetto al dvd del 1992 e alle rappresentazioni scaligere di sette anni dopo, Gergiev continua nondimeno a perseguire con savia ostinatezza la “verginità monumentale di questa musica piena di emozione primitiva” (Bruno Barilli). Il tono generale di “Chovanščina” è lirico, cantabile, adattissimo dunque all’indole calorosa della nostra bacchetta. La quale trova inoltre pane per il suo palato avvezzo a opulenza e maestosità nelle situazioni collettive, essenzialmente i quadri terzo (seconda parte) e quarto, là dove s’incontrano cori d’azione, danze esotiche e canzoni popolari.
Tra il 1882 e l’83, Rimskij-Korsakov si assunse il cómpito di portare a termine e orchestrare “Chovanščina” (e di spostare e interpolare, di tagliare presunte lungaggini, di correggere asserite magagne di forma ritmo melodia armonia). In questa veste l’opera si è diffusa in tutto il mondo a partire dal 1886. Dagli anni Settanta del Novecento si è invece andata progressivamente affermando l’orchestrazione di Šostakovič (1958-60), che segue alla lettera (non una nota tolta o cambiata) lo spartito musorgskijano, apparso in edizione critica nel 1931 a cura di Pavel Aleksandrovič Lamm. I pentagrammi della parte strumentale, in Musorgskij, procedono a suon di pedali, ostinati, raddoppi in ottava del canto, sequenze di accordi paralleli (all’incirca una parafrasi dello stile chiesastico ortodosso), che il revisore novecentesco ha rivestito di colori sabbiosi quando non caliginosi: nell’adottare questa versione, Gergiev ne rispetta molto lealmente il tenebrore. Il direttore osseta segue la lezione di Šostakovič persino nei due frammenti orchestrati personalmente da Musorgskij, la canzone di Marfa e il coro degli strelizi nel terzo quadro (dal quale, alla Scala, è stata cassata la canzone sulla maldicenza di Kuz’ka col coro). Non la segue invece nelle integrazioni delle lacune lasciate da Musorgskij. Sia nell’epilogo del quadro secondo sia in quello dell’opera opta per conclusioni rapide, secche, a ghigliottina; e se nel primo caso l’opzione trova almeno conferma in una lettera del compositore, nel secondo si deve a lui soltanto. Non saprei dire perché questo denso compatto fosco crescendo dell’orchestra sia stato interpretato da certuni come una celebrazione della Russia a venire, al modo del finale trionfalistico acconciato da Rimskij-Korsakov. A me è sembrato un altro “frammento di natura che se ne va alla deriva, trasportando via con sé lotte e sangue, i discorsi degli uomini e i loro canti”: Alberto Savinio dixit, e meglio di così si muore.
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