Una visita al museo di Capodimonte (foto LaPresse)

Luci sul museo

Fabiana Giacomotti

Tra aperitivi e sinestesie modaiole il direttore Bellenger ha trasformato Capodimonte in un luogo vivo senza svilirlo. Ora il suo modello rischia

Del mancato prestito delle “Sette opere della misericordia” di Caravaggio conservate al Pio Monte per la mostra ancora in corso al museo di Capodimonte si è accorto innanzitutto lui, Sylvain Bellenger, direttore del palazzo e del “Real Bosco”, che è definizione incantevole anche in tempi ufficialmente democratici e fa subito un po’ Fontainebleau, e naturalmente ce ne siamo accorti tutti noi della stampa. I napoletani, invece, non han fatto una piega perché a loro Bellenger piace e anche molto, e sta bene che san Gennaro qualche volta dia e qualche volta tolga. Da quando il parco è diventato bello e sicuro per le mamme e i bambini, i guardiani ti inseguono sui vialetti rastrellati se getti una cartaccia per terra – roba mai vista prima, come ha notato l’altro giorno il grande antiquario milanese Carlo Orsi, che era salito al palazzo per una visita all’amico geniale “che ha scardinato equilibri in apparenza immutabili”, Bellenger “o’ franzese” nominato ai tempi della Riforma Franceschini insieme con altri direttori italiani e stranieri molto preparati. Sono quelli che il nuovo ministro Alberto Bonisoli si sta ingegnando per non confermare alla prossima scadenza del loro mandato, e invece Bellenger ha acquisito tutti i punti che molti credevano non sarebbe mai riuscito a ottenere, per esempio quando decise di mettere mano a certe consuetudini abitative in house di qualche custode e, com’è come non è, si ritrovò con le ruote dell’auto tagliate. A Bellenger, che in poco più di tre anni ha compiuto almeno una delle sette opere di misericordia corporali contemplate anche dal dipinto che gli è stato negato per tre mesi (dove mai un pellegrino potrebbe ritemprarsi meglio che fra le piante rarissime dei 134 ettari di un parco arricchito in secoli di viaggi per mare, anche senza entrare nella reggia ad ammirare le collezioni?), quello sgarbo dal consiglio del Pio Monte e di tutti i vecchi nobili partenopei che lo compongono proprio non se lo aspettava, a differenza di molti che quel consiglio invece lo conoscono e che esattamente questa risposta si aspettavano, insieme con le polemiche politiche che ne sarebbero seguite. A queste ultime, il sovrintendente ha risposto nel corso di un incontro pubblico a santa Maria alla Sanità che, moderato da Paolo Mieli, ha finito per portare la sottosegretaria leghista ai beni culturali Lucia Borgonzoni almeno un po’ dalla sua parte (“Io credo che non si debba bloccare tutto. Invece Napoli un po’ di blocco oggi lo sta vivendo, anche da parte del mio ministero. Io ho scritto una lettera, sia al mio ministro Bonisoli sia a Toninelli, perché vengano alla Sanità, a esempio, a incontrare i protagonisti di progetti organici da sostenere. Non mi ha risposto ancora nessuno”, disse la politica bolognese neanche troppo titubante, mancava poco più di un mese alle elezioni europee e già si capiva come sarebbe andata, e Bonisoli è di stretta osservanza pentastellata). Ai secondi, per certi versi più pericolosi, perché il Pio Monte è stato fondato quattro secoli fa dai loro avi, che vi si riuniscono ancora attorno allo stesso tavolo tondo con le posizioni di ciascuno istoriate, nelle proprie case posseggono dipinti che il Louvre si sogna e sono inamovibili come il Caravaggio di cui negano il prestito, Bellenger ha ribattuto con uno schiaffo morale, predisponendo a sue spese un’illuminotecnica speciale della tela nella chiesa barocca dove è collocata, e organizzando una serie di lectures caravaggesche con la sua co-curatrice, Maria Cristina Terzaghi. Due giorni fa ci siamo perse, e molto ce ne dogliamo, un intervento della storica dell’arte Loredana Gazzara a favore del Pio Monte (“Storia e protagonisti”), che era un capolavoro di perfida diplomazia, e abbiamo mancato anche il cocktail “rosso Caravaggio” a tre euro che il barman della buvette del museo ha creato in occasione della mostra.

  

Una battaglia è stata persa, ed è quella contro una rotta aerea che da Capodichino passa proprio sopra la reggia facendo tremare vetri

L’arrivo di un discreto numero di direttori stranieri ai vertici dei principali musei italiani nel 2015 ha innescato un processo di democratizzazione intelligente del rapporto fra pubblico e cultura di cui il sistema italiano aveva molto bisogno e che ha fatto applaudire anche i padri nobili dell’arte degli ultimi decenni come Claudio Strinati e Antonio Paolucci che, usi al mondo e alle sue evoluzioni, stanno guardando con favore ai nuovi allestimenti, colorati e aderenti all’evoluzione delle linee guida espositive internazionali, in luogo dei muri bianchi pre-belliche che tutto uniformano, assorbono e appiattiscono; alle sale ristorante, che forse mai diventeranno magnifiche come quelle di Giacomo al Museo del Novecento di Milano, studiate da Roberto Peregalli, ma si possono almeno avvicinare a quelle della Terrazza Triennale o del Mudec; agli incontri nazional-popolari sugli autori più amati, ai programmi per i bambini e insomma a tutto quel sistema di interazione che fino a pochi anni fa veniva allontanato con la scusa della non contiguità e della non aderenza alla fantomatica “missione” del museo stesso e che mai si capiva quale dovesse essere, se non quella di rendersi attraente, interessante e approcciabile dal pubblico più vasto ed eterogeneo, esattamente come i dipinti e i cicli affrescati nelle chiese medievali: colpire l’immaginario e nel contempo educare con chiarezza. Non tutti i sovrintendenti riescono a essere ferocemente politici come Eike Schmidt, che dallo scorso gennaio, agli Uffizi, ha esposto la riproduzione del celebre “vaso di fiori” di Jan van Huysum trafugato durante la Seconda guerra mondiale dalla Wermacht, cioè dai suoi connazionali, con la didascalia “rubato” in tre lingue (l’opera è attualmente nella disponibilità di una famiglia tedesca che, invece di vergognarsene provvedendo a restituire quanto non possiede per legge, continua scellerata a chiederne il riscatto). Ora, nonostante il grande successo, pure Schmidt dovrebbe finire vittima della nuova controriforma voluta da Bonisoli che mira ad avocare al ministero quante più competenze possibili, togliendo autonomia e paralizzando processi di rinnovamento che erano appena iniziati. Bellenger usa il metodo francese, pugno di ferro in guanto di velluto, applicandovi quel minimo di acribioso scionivismo qui lui est naturel: “Io sono normanno, e noi arrivammo a Napoli prima degli italiani”, dichiarò a poche ore dalla nomina, sorridendo un poco per scusarsi della protervia come non avrebbero fatto Federico II e la sua corte. Ai napoletani venuti dopo di lui, che è nato a Valogne, ha offerto visite notturne a due euro e mostre finalmente eccitanti (la prossima lavorerà sul tema della natura: la tassidermia unita alle porcellane, tema rilanciato da quel demonietto di Alessandro Michele quando era a capo della creatività di Richard Ginori potrebbe far tornare in mostra migliaia di collezioni dimenticate in declinazione wunderkammer). Ha coinvolto intellettuali, eclettici e specialisti come Vittorio Sgarbi, Francesco Vezzoli, Marc Fumaroli in mostre collettive “a carta bianca” e che prima di lui, a Capodimonte, mettevano piede solo per chiedere un’opera in prestito, e forse nemmeno, scoraggiati dalle pastoie burocratiche ancor prima di iniziare a che Bellenger riesce in qualche modo a rendere veloci (forse neanche ascolta, anzi pare che sia così).

  

Nel 2015 si è innescato un processo di democratizzazione intelligente del rapporto fra pubblico e cultura di cui si sentiva il bisogno

A noi modaioli, il professeur Bellenger ricorda molto Christian Dior: entrambi nati in Normandia da famiglie di ricchi industriali (quella di Bellenger produce burro salato, vanto della regione), entrambi di carnagione e occhi chiari e fronte allungata, entrambi laureati e/o studiosi di storia dell’arte, entrambi grandi collezionisti, entrambi e di preferenza ospiti di lungo corso presso amici piuttosto che residenti solitari, entrambi amanti dei canetti piccoli e chiassosi: il jack russell del sovrintendente, Dodà, che come ovvio adora quegli spazi immensi, dev’essere stato all’origine di una delle tante iniziative che il suo padrone ha messo in atto per raccogliere fondi, mai sufficienti per mantenere quella residenza reale: facendo leva su sgravi e Art Bonus, e sull’orgoglio di una targhetta personalizzata, in collaborazione con la Amici di Capodimonte onlus Bellenger ha fatto adottare a privati e istituzioni locali quarantaquattro alberi, di cui quattro secolari e bisognosi di interventi conservativi e quattordici nuovi, messi a dimora sei mesi fa, centoundici panchine, tre portabici, una fontanella e per l’appunto tre beverini per cani.

  

“Nel 2019 spero che si moltiplicheranno le panchine rosse e che l’infanzia sarà esonerata dalla brutalità. Spero che tutti i paesi europei usciranno dalla ‘Brexit interiore’ che ora straccia dolorosamente tutte le democrazie occidentali. Spero che il lavoro della bravissima e coraggiosa squadra di Capodimonte raccoglierà i suoi meritati frutti. Spero che la città e il quartiere continueranno a sostenerci con tenerezza e orgoglio. Spero che San Gennaro continuerà a considerare la nostra felicità come il suo compito principale e che tutte le pizzerie della città seguiranno l’esempio di ‘Concettina ai tre Santi’ istituendo la pizza sospesa come una regola di vita e di accoglienza”, scrisse in una nota per l’edizione partenopea di Repubblica il sovrintendente lo scorso 31 gennaio, senza immaginarsi che, almeno fino a oggi , ed escludendo si intende la pizzeria Concettina ai tre santi, la squadra che si è disposta finalmente come la parola stessa indica e qualche panchina, san Gennaro sarebbe rimasto un po’ sordo alla preghiera. Una battaglia è stata persa, ed è quella contro una rotta aerea che da Capodichino passa proprio sopra la reggia facendo tremare vetri e porcellane e che sarebbe solo militare, non fosse che alcune compagnie pagano i 300 euro della multa pur di risparmiarne venti volte tanti nel carburante necessario per aggirarla e monsieur le ministre Toninelli, ma anche e va detto il suo predecessore Maurizio Lupi, non hanno mai risposto agli appelli. Molti scontri sono stati invece vinti, anche grazie all’amore della città e al suo coinvolgimento diretto, mossa psicologica di cui molti sovrintendenti nazionali ignorano il potere: “Pensa che, dopo esserci andato io con la scuola da bambino, e averci portato i miei figli, per anni a Capodimonte non sono salito mai, proprio mai”, commenta Gianluca Isaia. Poi, complice la passione comune con Bellenger per l’opera e il sostegno della sartoria al Teatro san Carlo, qualcosa è scattato, tanto che l’imprenditore della moda maschile ha voluto organizzare proprio alla reggia il primo ciclo di lezioni gratuite di lingua napoletana a cui pensava da tempo nell’ambito di un progetto di valorizzazione culturale della tradizione Isaia che prende le mosse dalla nuova fondazione intitolata ai suoi genitori, Enrico Isaia e Maria Pepillo, scomparsi lo scorso anno. Nei tre sabati di maggio in cui l’auditorium della reggia di Capodimonte si è aperta alla fonetica, alla semantica e all’etimologia del napoletano con la guida di Davide Brandi (e a dispetto dell’intermezzo musicale “con l’antica arte della posteggia” non è stata una passeggiata, ma un gran ripasso di greco e latino con stemperature di francese), i duecento posti disponibili sono andati esauriti in un baleno, tanto che a settembre si ripeterà, fra Napoli e palazzo Salerno Lancellotti, nella Casalnuovo originaria di Isaia. Bellenger ha concesso l’uso di qualche particolare, qualche grasso puttino barocco, il bordo decorativo di alcuni arazzi, per le stampe della collezione primavera-estate 2020, che presenta in queste ore in una tre giorni della moda milanese purtroppo e davvero molto scarna, dopo il trionfo internazionale di questa edizione di Pitti Uomo.

  

Ricorda molto Christian Dior: entrambi nati in Normandia da famiglie di ricchi industriali, occhi e carnagione chiara e fronte allungata

Desacralizzare la cultura, o valorizzarla come parte dell’arricchimento di ciascuno? Ritenere il museo un luogo vivo, pur senza svilirlo e le opere che li arricchiscono prodotto dell’ingegno, dell’ispirazione o anche dell’interesse politico ed economico umano, dunque beni fruibili e soggetti alle umane passioni, oppure oggetti destinati all’esercizio critico di pochi? Lungo questo sottilissimo crinale si sta combattendo in queste ore la battaglia per il ruolo e, diremmo nel linguaggio del marketing, il “posizionamento” dei musei italiani e più in generale per il ruolo della cultura in rapporto al sistema paese. L’autonomia di istituzioni come l’Accademia di Firenze sembra a rischio, nonostante il grande successo e il rigore scientifico con cui è stata valorizzata. Sentiamo che si preparano momenti difficili per i cocktail Caravaggio. Eppure, i gioielli a micromosaico neoclassici che arricchiscono le collezioni dei musei partenopei e romani, le statue in gesso e marmo “a riproduzione di”, diventate oggetto di studio e di mostre importanti, null’altro erano che souvenir per turisti.