Ai maturandi darei come tema l'abbassamento degli obiettivi che deve darsi l'esistenza umana
Altro che la divinizzazione di Greta Thunberg. Non voglio fare del colore negazionista o svalutare il sapere scientifico, voglio solo relativizzare
Non so della serie televisiva, e poi chissenefrega, sarà una mezza fiction e molti auguri, ma dalla questione di Chernobyl, trentatré anni dopo quella che fu definita la catastrofe nucleare più possente nel fatto e nelle conseguenze, possono succedere alcune cose capaci di rimettere in discussione, quanto alla funzione predittiva e diagnostica della scienza, parecchio materiale. Vedo che forse commineranno ai ragazzi la figura ideologica detta GRETA come tema della maturità, in attesa che alla piccola Greta, che ha smesso di studiare per lottare, comminino un bel premio Nobel. Ovunque e comunque ferve la disputa acre tra negazionisti, coloro che ritengono piuttosto sporco e inquinato l’ambiente e parti del globo terracqueo e sono felici se si prenderanno misure per un po’ di pulizia, lasciando alla natura climatica di fare il resto per quel che può, che è molto, e affermazionisti, coloro che predicano l’emergenza terra e si impongono di salvare il pianeta messo in pericolo mortale dalla mano assassina dell’uomo e della civiltà della tecnica incontrollata. Da buon negazionista, o meglio da negazionista realista, sono convinto per ragioni metafisiche della non signoria dell’uomo sulla sua casa, del carattere ancora molto misterioso dell’ecosistema, e mi ritengo persuaso da fior di astrofisici e scienziati delle nuvole che i fattori determinanti del nostro vivere presente passato e futuro ci sovrastano di gran lunga e sono il sole, il cielo, l’atmosfera, il mare, le montagne, i fiumi, i venti, lo scompiglio eterno, sulla misura della storia dell’universo, delle stagioni e del divino clima, idolo in parte larga inattingibile dalla nostra immaginazione scientifica.
Chernobyl, con tutta la paura che ancora incute quel nome, con tutta la sofferenza con cui occorre parlare di una vera catastrofe, incubata anche dal sistema tecno-scientifico sovietico dell’epoca, a me sembra un simbolo caduto di derelizione ecologica e di sapienza apodittica e apocalittica di tipo scientifico. Trentatré anni fa avevamo paura dell’insalata e venivamo sconsigliati di mangiarla nell’Italia centrale. Era la fine di aprile del 1986, stagione di aria umida e uggia e nuvolaglia, e i cumuli grigi del cielo apparvero per qualche giorno, finché tutto fu dimenticato, in fretta, come nemici mortali dell’esistenza umana, un po’ come durante la crisi nucleare degli esperimenti Usa-Urss che ci vietò molti anni prima per qualche settimana addirittura la mozzarella (che guaio): la nuvola venuta dall’Ucraina i venti la spingevano qua e là, dalla Finlandia alla Svezia al Mediterraneo. Sul numero dei morti si è discusso a lungo, ora si parla di quindici morti accertati per l’esplosione, poi c’è la tremenda faccenda dell’influsso delle radiazioni ionizzanti, i trasferimenti di trecentomila persone dall’area, e anche lì le cifre ballano, i numeri dei cancri alla tiroide, anche benigni nel 96 per cento dei casi, oscillano nell’interpretazione, e la trasformazione in deserto radioattivo di una immensa regione intorno al famoso reattore esploso, anche quella divenne materia di contestazione, mentre tre decenni dopo rapporti dell’Onu, dico dell’Onu, insegnano la prudenza e la modestia nello spirito apocalittico (no malattie del sangue, no sterilità eccetera).
A Chernobyl si fa turismo, non molto lontano dalla famosa foresta rossa investita dall’onda gassosa di morte, lo raccontava ieri mattina alla radio lo scrittore Nicola Lagioia, che immagino affermazionista perché ha parlato di quattromila morti che in realtà non si registrano, l’abbandono umano dell’ambiente naturale ha ripopolato di specie le più varie la terra di Chernobyl, che ora è una distesa di verde squillante in cui saltabeccano e galoppano gli alci, e gli animali più vari si accoppiano felici della scomparsa dell’umanità, pressoché totale, e figliano con un ritmo inaudito.
Non voglio fare del colore negazionista o svalutare il sapere scientifico, voglio solo relativizzare, io che relativista assoluto e programmatico non sono, il catastrofismo con le pezze d’appoggio di predizioni avventurose che non si sono realizzate. Come tutti, ho paura anch’io del nucleare. Ma appunto relativizzo. Ho paura del livello dei mari, ma up to a point. Guardo sconcertato la massa di informazioni coatte sullo scioglimento dei ghiacci, ma ricordo il Bocca montanaro partigiano che rilevava l’andare su e giù di continuo dei ghiacciai. E comunque mi fido entro certi limiti dell’orgia informativa apocalittica, non mi fido delle lotte immaginifiche per salvare alcunché, darei come tema della maturità l’abbassamento umile degli obiettivi che deve darsi l’esistenza umana sulla terra invece della divinizzazione di Greta come immagine universale, la fata che smise si studiare per salvarci, mi fido moltissimo del fisico Carlo Rubbia, del geniale scienziato tra le nuvole Franco Prodi, e penso a tutto questo ogni volta che passo in Maremma accanto alle miniere di mercurio chiuse nel 1953. Lì non è cresciuto più un solo filo d’erba, è impressionante per davvero vedere quelle superfici bianche torride tra i pozzi arrugginiti, ma per fortuna, per la gloria di Dio, l’acqua delle condotte del Fiora è la migliore d’Italia, un piacere berla e lavarsi oltre i pregiudizi e le falde.