Aver voglia di vivere è molto meglio (come idea-guida) di non voler morire

Marco Archetti

Un romanzo senza i soliti birignao tra survivor e post umanismi

Alberto Giuliani ha fatto bene: si è fidato della solidità di certi finissimi istinti e ha trasformato due profezie – una siberiana e una indiana, concordi circa la sua morte prematura, violenta e imminente – in un bel romanzo intitolato “Gli immortali” (il Saggiatore, 206 pp., 19 euro). Romanzo che, diciamolo, non è proprio un romanzo, ma poco importa, dato che del romanzo ha la fidata voce narrante, il vasto respiro, la ricchezza organolettica e quel vigoroso slancio della propulsione narrativa che fa sempre voltar pagina con appagamento. Ma non è tutto qui, perché, insieme a questa ricchezza, risalta un’altra bella intenzione: quella di affrontare non tanto un Grande Tema (ormai son buoni tutti, le truppe caramellate dei benintenzionati da festival o da premietto erompono in parata anche dai tombini), ma un tema grande con una prospettiva lunga: in altre parole, Alberto Giuliani ha scritto un libro che accetta di rischiare per raccontare, e si sa, le file dell’audace drappello son sempre meno fitte. In più ha scritto un romanzo che non sarà del tutto un romanzo, ma che scaturisce dall’acutezza di un uomo che ha gli occhi aperti e non è soffocato dai riferimenti, dai canoni, dai palinsesti, che non commercia col realismo magico e non traffica col folklorino orientaleggiante o con la semplificazione, ed è in grado di liberare una narrazione in sorvolo sopra le terre estreme di un futuro possibile, di un futuro temibile (opinione personale) in cui l’uomo non solo ha deciso di sfidare la morte ma si è messo in testa di vincere. Così, incassate le nefaste profezie, Giuliani ha deciso di non aspettare sul divano questa morte predetta, ma di far la valigia per capire cosa significhi morire, anzi, cosa significhi non voler morire più. E sempre in vena di opinioni personali, incamerate lo spoiler: non voler morire è più mostruoso, e mostruosamente inquietante.

  

Il viaggio si snoda attraverso svariate tappe, lungo le quali lo scrittore incontra gli astronauti della Nasa che studiano condizioni di vita possibile su Marte, i padri giapponesi della robotica umanoide, gli imprenditori della crioconservazione, una manciata di studiosi del clima intenti a costruire un sole artificiale più potente di quello naturale. Un viaggio che sembra un’analisi delle diverse risposte alla medesima domanda, ma poi, proseguendo la lettura, diventa una caduta dentro le cieche ossessioni di un’umanità tragicamente sola e sempre più decisa a tenersi stretta la propria vita così com’è, fosse anche priva di significati che non siano la mera sopravvivenza individuale, fosse anche priva di una speranza o di un minimo lume – e per carità, non che tutti debbano vivere sotto la stessa lampada. In South Dakota, per esempio, si preparano a vivere più che altro al buio, sottoterra, e infatti proliferano le cosiddette “dimore dell’Apocalisse”. La più grande è Xpoint, agglomerato (urbano? ctonio? neo distopico?) che, in caso di Grande Meteorite Distruttore, ospiterà cinquemila persone in grado di campare senza mettere il naso fuori per almeno un anno. Confort per survivors. Del resto il mercato dei rifugi familiari non ha mai conosciuto un momento più florido dell’attuale, così si è attrezzato per offrire prodotti diversificati e per tutte le tasche: Survival Condo è la residenza-bunker extra lusso per antonomasia, si trova nell’esatto centro geografico degli Usa e ci sono famiglie intestatarie di appartamento che già ci passano le vacanze. Brividi anche nel leggere il racconto del Centro di Phoenix in cui una società chiamata Alcor congela, dentro botti-sarcofago, i corpi dei defunti. “La morte viaggia nel nostro corpo alla velocità di 2 mm all’ora, solo il freddo può fermarla”, per cui niente paura, basta fare in fretta e siamo pronti per non morire più, anzi, sappiate che su richiesta Alcor vi surgela solo la testa, poi si vedrà su che corpo la innesteranno da scongelata. Non procura meno angoscia il racconto del laboratorio che detiene la mappatura del Dna di (quasi) tutto ciò che esiste, o lo splendido ritratto del professor Ishiguro che a Osaka che studia la sintesi umana / non umana che potremmo diventare per realizzare un mondo perfetto e infinitamente replicabile, in cui siano eliminati tutti gli “errori” biologici come malattie ed emozioni. Alla fine del libro viene voglia di vivere, cioè di morire dopo aver molto (e felicemente) vissuto. Vien voglia di amare la vita più della sua logica, e l’unico modo di amarla è sempre lo stesso: accettarne la fine.

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