Ercole Patti, che sapeva distruggere il fanatismo della purezza
Una vita tra Catania e Roma, tra giornali, critica cinematografica e letteratura. Scriveva con “l’arte di chi ha imparato a troneggiare sul magma erotico e caotico dell’esistenza”
Tutto comincia con un precoce esordio, non su un giornale qualunque ma su quell’officina di idee che è Il Corriere dei piccoli di Silvio Spaventa Filippi, dove nel 1918 appare una novella intitolata Il chiodino. L’autore, un quindicenne di Catania al quale vanno venticinque lire di compenso, si chiama Ercole Patti e viene dall’alta borghesia etnea, è figlio di un avvocato, Luigi, e di Mariannina, proprietaria di un palazzo e di un vigneto a Trecastagni, tra il mar Jonio e il vulcano, una zona intessuta di possibilità di dolce esilio e profumi di un’aria lavica, pungente; Ercolino è nato in città, in via Landolina, ha passato l’infanzia in via Teatro Massimo a saziare la fame di vita con i libri della biblioteca di zio Peppino, ovvero Giuseppe Villaroel, lo scrittore che ha sposato zia Sara, sorella della madre. Fra queste tre case, quella della nascita, quella dei viaggi nella letteratura e quella di un’esistenza a pieni polmoni, ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza finché, ammalatosi di febbre spagnola e relegato a letto, Ercolino scrive, illustra e invia, fiducioso, Il chiodino, che sarà pubblicato quattro settimane dopo, ma con le tavole di Carlo Bisi: quel giorno nasce uno scrittore e si stronca una fulminea carriera di disegnatore (il giovanissimo Patti si era già dedicato a interpretare le poesie di Villaroel e certi romanzi d’appendice usciti a puntate sul catanese Giornale dell’Isola). Due anni dopo, zio Peppino porta Ercole a conoscere l’ottantenne Giovanni Verga nell’appartamento di via sant’Anna: se si può individuare un momento mitico di predestinazione – e in certe biografie si può – è lo sguardo dell’anziano “vestito di scuro coi suoi nobili baffi bianchi” a battezzare lo scrittore Ercole Patti; Verga morirà due anni dopo, negli stessi mesi in cui quel ragazzo ormai ventenne, trasferendosi a Roma dalla Sicilia, si porterà dietro, in valigia, I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo come fossero eredità, come fossero manuali per sopravvivere vagando da una stanza ammobiliata all’altra, dal Caffè L’Esperia alla mitica Terza Saletta del Caffè Aragno, dalla quale ogni cosa letteraria deve passare, dalla quale Cardarelli governa Roma e forse l’Italia tutta. E’ allora che Ercolino incontrerà de Chirico, Soffici e mille altre figure che affiancheranno nel suo immaginario Luigi Pirandello e Vitaliano Brancati, già conosciuti nell’animato salotto dello zio Peppino; è allora, mentre cerca il suo posto nell’Urbe e nel mondo, che da un acerbo scrittore siciliano nasce uno scrittore tout court, uno scrittore europeo.
La nave di Teseo pubblica oggi la raccolta “Tutte le opere”. Migliaia di pagine, poco maneggevoli ma preziosissime scoperte per i lettori
Di questo scrittore, di quell’Ercole Patti del quale finalmente e giustamente si torna a discutere, La nave di Teseo pubblica oggi la raccolta Tutte le opere curata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, un lavoro prezioso anche nei contributi, penalizzato soltanto dalla scelta di stipare tutto in un unico volume: con le sue oltre tremiladuecento pagine, questo libro imprescindibile per la consultazione è a dir poco disagevole per la lettura, e non potrà contribuire fino in fondo a far conoscere il lavoro di Patti ai tanti, troppi lettori che ne sono digiuni. In compenso, è una pubblicazione che fa felici i già appassionati, i quali ogni volta che lo desidereranno potranno perdersi in una bibliografia fitta, in una ricostruzione biografica serrata e vivace. Patti, per molto tempo protocollato come un “Brancati minore”, si dispiega in tutta la sua unicità di romanziere ossessivo e vezzoso, di critico cinematografico non asservito, di “raccontista” puntiglioso ed evocativo, di voyeurista della vita, compiaciuto e consapevole, capace di sferrare colpi di stupore nascosto, con sottile insofferenza, nascosto dietro l’equivoco della semplicità espressiva. La sua ricchezza lessicale è invece tutta racchiusa nelle parole di Eugenio Montale, che individuò in lui una “facilità difficile che è l’uovo di Colombo”, la sua essenzialità letteraria non è una rinuncia di partenza ma è approdo e conquista, è l’arte di chi ha imparato a troneggiare sul magma erotico e caotico dell’esistenza. I testi di Patti sono densi di metafore, di dettagliate descrizioni di oggetti vivi, di stanze parlanti, di donne seducenti e volitive dietro i teatrini della vita di provincia o della mondanità romana, di amori sordidi e lussurie non troppo insidiate dai tormenti. La lingua diretta e precisa di questo scrittore impastato di miserie esistenziali e di sfrenato vitalismo si presta al servizio di molte storie, ne fa lo stratega di un universo intero di cui fanno parte i racconti, le critiche cinematografiche, le sceneggiature e i soggetti, gli epistolari, le cronache dall’estero e le cronache di una Roma “amara e dolce”. E, soprattutto, i romanzi. Fra le mie letture adolescenziali, quell’autore che mai sarebbe rientrato nei programmi scolastici si è preso presto un posto tutto suo insegnandomi non come sarebbe stato giusto amare, ma con quanto spreco, nella verità, le persone si amano davvero.
Cresciuto a Catania, arriva nell’Urbe. E da un acerbo scrittore siciliano nasce uno scrittore tout court, uno scrittore europeo
Il mio primo incontro con Ercole Patti fu un romanzo che tirai giù da uno scaffale della libreria di famiglia. Era un libro del 1965, La cugina, in un’edizione Bompiani successiva, dei primi anni Settanta, aveva la copertina nera e il solo cognome dello scrittore a regnare sul titolo insieme a un piccolo riquadro con una gonna che svolazzava denudando polpacci sottili, sensuali. Grazie alla copertina che prometteva un’educazione sessuale sfacciata, scivolai dentro la storia di Enzo e Agata, cugini dalla nascita, amanti da quando lui aveva diciassette anni e lei tredici, e da allora per sempre fino alla morte di lei; allora mi sembrò un romanzo pieno di colpi di scena, ma in realtà non succede nient’altro che quello che succede nelle vite di tutti, ovvero il tempo che trascorre fino all’estinzione irreversibile di ogni legame (Gli anni che passano si intitola una delle raccolte di Patti, quasi la dichiarazione di un registro poetico). La cugina è una storia d’amore devastante e assurda, va avanti senza scopo, senza mai toccare la possibilità di trasformarsi in un matrimonio né in un’unione codificata; per Enzo e Agata l’attrazione non è uno strumento per ottenere la felicità né è l’anticamera di un legame rivelabile, piuttosto la misura di un rapporto eterno che richiede continui sacrifici, a volte impercettibili, a volte giganteschi. Mentre non smette di desiderare e farsi desiderare da Enzo, Agata irretisce il barone Ninì, vuole che lui la sposi, vuole una vita agiata e non le importa non amare il marito, anzi: la vita accanto a quell’uomo per cui non prova niente la agevola al prezzo di un piccolo sforzo, di un poco di finzione quotidiana; Enzo, d’altra parte, trascorre la vita in attesa, non si impegna né nel lavoro né nella vita sociale, il suo unico e costante obiettivo è la ricerca del piacere; così Enzo e Agata si cercano sempre, tra l’accidia di lui e la raffinata perversa pianificazione di lei. Nell’incipit, Patti omaggia la città coi suoi rumori e la sua aria marzolina e intanto, raccontando una casa, inequivocabile apre il sipario su un interno: “Erano le quattro del pomeriggio del 26 marzo 1920 a Catania dalle parti del viale Regina Margherita. Il vecchio villino era immerso nell’aria già primaverile. Ogni tanto un respiro di vento muoveva le foglie degli alberi per un attimo e allora dalla vicina Villa Bellini giungeva un leggero e sparpagliato odore di magnolie. Dalla finestra aperta entravano i rumori del cortile; il suono degli zoccoli dei cavalli che il cocchiere stava governando, il rumore della striglia battuta sul lastricato per scuoterne la polvere, il verso chioccio o allarmato di una gallina, il fruscio dell’acqua che usciva dal rubinetto della lavanderia, la voce di una cameriera. Il dolce pomeriggio catanese invadeva le stanze della casa dell’ingegner Toscano”.
A lungo protocollato come un “Brancati minore”, si dispiega in tutta la sua unicità di romanziere ossessivo, di voyeurista della vita
Allora di quella Catania di cui Leonardo Sciascia volle scrivere “c’è del Brancati in natura” dobbiamo andare a stanare anche l’elemento pattiano, l’esuberanza meno plateale, la contiguità con il senso della morte, l’erotismo sfiancante. Se nell’aria etnea esiste senz’altro del Brancati in natura, bisogna saperne respirare il riverbero ombroso, accorgendosi di un’altra luce, di quella malinconica cupezza che viene dalla consapevolezza della mortalità, in una voce che si fa carnale suo malgrado. E’ la malinconia che accompagna la ricerca del godimento, ed Ercole Patti la trasforma sempre in un pensiero assorto oppure in una pagina sarcastica, muovendo i suoi alter ego fra la normalità della sregolatezza e il continuo bisogno di un’ironia come speranza per tollerare le pesantezze della vita: quel sarcasmo, quella distanza appartengono a una prassi da autentico siciliano orientale che condivide con Brancati e Capuana. Proprio l’amicizia con Vitaliano Brancati perdurò e fu decisiva. Tra Roma, Catania e Zafferana, i due si divertivano a disorientare chiunque volesse bollarli come intellettuali e a mettere in difficoltà quegli artisti che avevano la pretesa di sentirsi migliori degli altri: nel 1948 telefonarono nel cuore della notte a Enzo Jovine, scrittore comunista, spacciandosi per produttori cinematografici e proponendogli un film d’ispirazione fascista; lui sulle prime rifiutò, poi, sedotto dal compenso, accettò con la promessa che il suo nome non sarebbe mai venuto fuori. Lo scherzo telefonico, registrato tra le risate, si concluse con una querela di Jovine: ovunque ci sono persone meno spiritose di altre, ovunque – mi piace immaginare – ci sono scrittori che fanno il loro dovere, ovvero prendere in giro il mondo e distruggere il fanatismo della purezza.
“La cugina” è una storia d’amore devastante e assurda, va avanti senza scopo, senza trasformarsi in un matrimonio né in un’unione
Tra il fascismo e gli intellettuali c’era, soprattutto, la questione del cinema: all’inizio il regime se ne infischiò, poi, quando ne comprese il potenziale propagandistico, cominciarono i conflitti. Ercole Patti, che viveva anche di critica cinematografica, seppe allora di dover rinunciare a qualsiasi ambizione di luminosa carriera. Il suo rapporto col fascismo è descritto in una pagina di esemplare lucidità, dove trovano posto la nostalgia per un tempo perduto e la consapevolezza del proprio autoesilio: “Il fascismo ha coinciso con i più begli anni della mia giovinezza e mi ha amareggiato non poco il gusto di vivere. Ma al ricordo di quel deprimente periodo di distintivi e di gagliardetti, di quei raduni domenicali di massaie rurali e di squadristi padani, sono legate felici giornate della mia giovinezza, della mia grande voglia di vivere, di lavorare, di fare all’amore, di andare al mare e in montagna; e se le pagine che avrei voluto scrivere mi rimanevano per metà nello stomaco, in cambio potevo sfogarmi godendo una vita fisica quasi animale, che era un balsamo per i miei giovani anni. Il fascismo predicava la vita austera, dinamica e scomoda, moralizzava il paese, aboliva il lei e la stretta di mano, metteva al bando le parole straniere e io andavo dietro alle ragazze, le portavo al mare, nelle piscine e sui campi di sci, mi sentivo formicolare per tutto il corpo il piacere di esistere e ascoltavo discorsi storici del duce alla radio sdraiato sui divani delle camere ammobiliate a fianco di giovanissime donne che se ne infischiavano, se è possibile, ancora più di me del fascismo. Era tutto quello che potevo permettermi rinunziando beninteso a far carriera come fecero invece, a patto di strazianti umiliazioni, molti uomini da nulla miei coetanei che divennero potentissimi”.
Di quella Catania di cui Sciascia volle scrivere “c’è del Brancati in natura” dobbiamo stanare anche l’elemento pattiano, l’esuberanza
A differenza di altri scrittori, a lungo restii e diffidenti, Ercole Patti non aveva avuto remore a usare la produzione di film e la frequentazione di festival per divertirsi e per lavorare, avendo ereditato l’entusiasmo degli anni d’oro della cinematografia catanese, fra Otto e Novecento (quando nacquero Katana Film, Etna Film, Jonio Film, Sicula Film, quando Nino Martoglio fu chiamato a Roma a dirigere la Morgana Films edizioni d’arte). Sono vari e multiformi i suoi testi sul cinema, vengono dalle pagine dell’Europeo, del Tempo, del Paese, del Popolo di Roma, di Star, e questo volume ce li restituisce tutti, mostrando un volto meno conosciuto, irresistibile, brillante del critico e inviato Ercole Patti, che non risparmia cattiverie alle discutibili selezioni di Cannes e Venezia ed è invece entusiasta, non solo per partigianeria geografica, del festival di Taormina e della sua originalità e indipendenza. Quegli scritti appartengono a periodi diversi, in mezzo c’è il fascismo, con un brutto episodio che il primo ottobre 1943 porta Ercolino in carcere, prima a Regina Coeli e poi a San Gregorio al Celio; la sua colpa è non aver avuto riguardi per Alessandro Pavolini: oltre ad aver espresso un giudizio negativo sull’attrice Doris Duranti, sua pupilla, Patti ne aveva stroncato i romanzi. Soprattutto, aveva denunciato la mancanza di ispirazione di tutti gli artisti che avevano ceduto all’asservimento, alla fascistizzazione, ricordando che “i veri scrittori, i veri poeti, i veri pittori sono rimasti naturalmente e costituzionalmente al di fuori”.
La sua ricchezza lessicale è tutta racchiusa nelle parole di Montale, che individuò in lui una “facilità difficile che è l’uovo di Colombo”
Ercole Patti lavora moltissimo come sceneggiatore, con Mario Camerini, Renato Castellani, Steno, Vittorio De Sica – dai suoi romanzi vengono tratti film a cui a volte prende parte come attore: Un bellissimo novembre, Un amore a Roma, Quartieri alti. Partecipa al premio Strega: nel 1952 con Il punto debole (quell’anno vince Moravia), nel 1954 con Giovannino (vince Mario Soldati), nel 1967 con Un bellissimo novembre (vince Anna Maria Ortese), e nel 1971 si candida da solo al Campiello, dove il suo Diario siciliano arriva terzo, dopo Gianna Manzini e Manlio Cancogni. Il suo problema, gli viene rimproverato da più parti, è essere troppo bravo; così almeno gli scrive Valentino Bompiani per motivare il rifiuto di pubblicare un libro di esordio considerato troppo maturo (ma poi diventerà il suo editore), così gli scrive Mario Missiroli, direttore del Corriere della sera, per dire di no a un suo pezzo, nel 1958: “Caro Patti, porta pazienza se non pubblicherò il tuo ultimo articolo Pioggia in campagna. Il pezzo appartiene a quel genere di bravura che ritengo più adatto a una rivista letteraria che ad un quotidiano. A noi, gente terra terra, occorrono scritti più corposi, con dentro un filo conduttore”. Troppa letteratura, insomma, in testi che avrebbero l’obbligo di essere più banali, appiattiti e scarnificati – e d’altro canto accuse di poca letteratura nei romanzi accusati di essere semplici, poco alti. Patti risponde a Missiroli ringraziando e promettendo di inviare qualcosa di più addomesticato, di più adatto ai lettori del Corriere. Gli manderà Inverno a Taormina, comportandosi come gli scrittori veramente bravi, quelli che non fanno né a modo dei capi né a modo loro, ma tutt’e due le cose insieme: a modo dei capi, ma a modo loro. Abbindola il direttore con righe così: “Al mattino nelle tranquille stradette e sulle terrazze degli alberghi l’aria sembra rarefatta. In basso si stende il mare calmo, trasparentissimo; da quassù si contano i sassi del fondo uno per uno. La sera l’Etna continua tranquillamente a emettere lava (per essere esatti continua anche di giorno ma se ne vede soltanto il fumo). Visto di notte dalla costa il cratere è come una ferita trasversale di fuoco”. Senza tradire il proprio immaginario gli propone un prodotto autentico ma imbevuto di dolcificante e preceduto da un incipit piatto come “La pace di Taormina, nonostante il movimento che ha portato questa VII rassegna cinematografica, è enorme”. La corrispondenza con Missiroli è piena di insidie e croci, con poche delizie: Patti riceve in risposta mani alzate sia quando si lamenta di essere pagato troppo poco (“l’Amministrazione ha stretto inesorabilmente i cordoni della borsa e non vuol sentire di aumenti di compenso per nessuno”, risponde Missiroli fintamente costernato), sia quando sente di ricevere un trattamento punitivo rispetto ad altri collaboratori (“Carissimo non c’è nessuna differenza fra il Corriere della sera e l’Informazione del lunedì, al quale tutti collaborano. Non puoi credere come sia rattristante per noi sentire fare questa differenza”), e continue promesse e rassicurazioni su chi si occuperà di recensire i suoi libri.
L’amicizia con Brancati. Passando da Roma, Catania e Zafferana, si divertivano a disorientare intellettuali e artisti
Per amare Ercole Patti, per amarlo davvero, bisogna accettare il rifiuto di partigianerie o ribellioni in apparenza nette e in realtà velleitarie, alle quali si preferisce un indiscreto assoggettamento romantico all’arte e alla vita, che non esclude le ombre ma se ne nutre – e un legittimo desiderio di ambizione che non scansa ma assorbe la mondanità. Ercole Patti ha vissuto tutta la vita diviso tra la vita romana e il desiderio di nascondersi prima nella casa di famiglia tra le viti e gli ulivi e poi in quella di Pozzillo, sul litorale jonico, scavata nella roccia di lava secolare, che si era fatto costruire come un nuovo rifugio per la vecchiaia. Tra questi due poli oscilla lo scrittore europeo, una definizione che potrebbe suscitare perplessità: quanto può estendersi geograficamente e socialmente un autore il cui immaginario si muove fra l’isola e la capitale, fra la costa, i vigneti, il mondo del cinema e del giornalismo, insomma un autore che non racconta altro che quello che conosce? Per dieci anni, dal 1933 al 1943, Patti è inviato speciale per diversi giornali in Turchia, Russia, Polonia, Malesia, Etiopia ed Europa; Brancati lo chiama “Ercolino, il fuori-Italia”. Eppure, la sua scrittura non si muove mai dai cunicoli dei suoi luoghi di appartenenza, da quei paesini etnei minacciati dal cemento che sente di dover narrare e così proteggere (Sant’Agata Li Battiati, San Giovanni La Punta). Forse la grandezza di un artista può risiedere anche lì, nell’ostinazione a lavorare con ciò che si ha, con ciò che si conosce, rendendo la propria casuale circostanza di nascita un evento grande quanto un continente, arricchito di tutto ciò che quella persona, incidentalmente uno scrittore, ha da quel momento trovato sulla strada.