La conversione di Grossman
L’autore di “Vita e destino” nella biografia di Popoff. Da Jaca Book ci raccontano come lo portarono in Italia
“Vasily Grossman and the Soviet century” di Alexandra Popoff è una miniera di rivelazioni su Vasily Grossman. Ci sono le pagine terribili sul tradimento nei circoli letterari sovietici. Quando, nell’autunno del 1958, Boris Pasternak è insignito del premio Nobel, i sovietici risposero lanciando una campagna di diffamazioni e di accuse. E i colleghi e gli amici di Pasternak, anziché fare muro attorno all’autore del “Dottor Zivago”, lo denunciarono come un traditore e ne invocarono l’esilio. Pasternak fu rapidamente espulso dal sindacato degli scrittori. Racconta Popoff che Grossman fu turbato dalla mancanza di decenza da parte degli ex accoliti di Pasternak. L’esempio più eclatante fu la scrittrice di Leningrado Vera Panova, che si unì prontamente alla campagna, sebbene le pareti del suo appartamento fossero ricoperte da fotografie di Pasternak. Grossman, che la conosceva, rimase sconvolto: “E’ venuta fin da Leningrado per aiutare a espellere il suo amato e più caro idolo”. Accanto al tradimento, che Grossman avrebbe vissuto anni dopo sulla propria pelle, ci sono le pagine su come un altro gruppo di uomini di lettere, già marchiati dal regime sovietico, aiutarono a far uscire dal paese il romanzo cui Grossman avrebbe legato il suo nome, “Vita e destino”.
Suslov, l’ideologo del regime, gli disse: “Il tuo libro parla positivamente di religione, di Dio, del cattolicesimo”
“Quello che vedo qui può davvero ispirare l’ammirazione del mondo”, Grossman scrisse da Stalingrado a sua moglie Olga nel novembre del 1942. “Il mondo non ha mai conosciuto un tale coraggio, tale resistenza. Bisogna inchinarsi alle persone che sacrificano le loro vite con tanta semplicità, in feroci battaglie che vanno senza tregua giorno e notte. Questi sono giorni aspri e sublimi”. Grossman avrebbe continuato a dedicare la sua vita a raccontare quella che definì “la terribile verità” della gente comune nella guerra mondiale. Popoff, autrice di diverse importanti biografie letterarie russe, racconta ora la storia di Grossman attingendo ad archivi poco conosciuti per produrre quella che viene salutata come la sua biografia definitiva, “Vasily Grossman and the Soviet century” per la Yale University Press.
Grossman nacque in una famiglia ebraica colta e assimilata nella città ucraina di Berdichev nel 1905. Scuola in Svizzera all’età di cinque anni. Poi Kiev, dove si innamorò della scienza iniziando a sognare una vita dedicata alla ricerca. Nel 1923 gli studi in chimica all’Università di Mosca, che interrompe per dedicare la vita a “letteratura e politica”. Crede nel primo piano quinquennale di Stalin e nel 1930 va nella regione del Donbass, dove lavora come chimico in una miniera di carbone e raccolse materiale per un romanzo, “Glückauf”, che fu originariamente rifiutato dagli editori sovietici per i suoi difetti ideologici. Grossman si rivolse a Maxim Gorky, il vate delle lettere sovietiche, per chiedere aiuto. Gorky fece una predica al giovane scrittore secondo cui ora c’erano due verità: quella che lui chiamava “la sporca verità del passato” e la “nuova verità” nata sotto Stalin. Grossman riscrisse il romanzo per riflettere meglio i dettami del realismo socialista e nel 1935 venne pubblicato.
Quando molti dei suoi amici furono arrestati durante il Grande Terrore di Stalin, Grossman perse ogni illusione circa la natura dello stato sovietico. Fece del suo meglio per evitare la disperazione e la tensione di quegli anni, seppellendosi nel lavoro. Arriva l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941 e Grossman si arruola come corrispondente di guerra. Il grande scrittore sovietico morirà senza neppure sapere che fine avesse fatto il manoscritto che nacque da quella esperienza, “Vita e destino” appunto, il romanzo, secondo George Steiner, destinato a “eclissare tutti i romanzi che in occidente vengono presi sul serio”. O per dirla con Alain Finkielkraut, “un romanzo di quelli che non si scrivono più”.
“In Grossman non vedemmo un ‘russo’, ma una visione universale”, ci raccontano i fondatori di Jaca Book
“Vita e destino” era dinamite per l’epoca. Grossman vi spiegava che il male si annida ovunque ci sia ideologia e che nazismo e stalinismo si avvicinarono l’uno all’altro sino a toccarsi e a riconoscersi a vicenda. Il 14 febbraio 1961, alle 11.40 del mattino, il Kgb bussò alla porta del suo appartamento per “prendere in custodia” il libro. Non si salvò nulla, gli appunti, la carta carbone e i nastri della macchina da scrivere che Grossman aveva usato. “Non c’è nulla di più prezioso della vita umana; la sua perdita è definitiva e insostituibile”, scriveva Grossman. Non andava bene secondo l’ideologia sovietica.
Grossman morì di cancro nel 1964, dimenticato. Popoff spiega nel libro cosa aveva in odio il regime di quelle pagine e delle altre composizioni letterarie di Grossman. Lo scrittore venne un giorno ricevuto da Michail Suslov. Alto, il volto bianco, lo sguardo un po’ miope e un po’ ascetico che non tradiva mai emozioni in nessuna delle pubbliche esibizioni che lo avevano visto protagonista, Suslov era il matematico della dottrina, il potente capo della sezione ideologica del Partito, il guardiano della purezza del socialismo sovietico e l’ex direttore della Pravda sotto Stalin che sopravvisse 35 anni al potere fino a Breznev (di Suslov le famose risoluzioni che condannavano Tito, Mao e l’eurocomunismo di Berlinguer).
A nome del Comitato centrale, Suslov comunicò a Grossman che il romanzo non sarebbe mai stato pubblicato: “Il suo libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni”. E ancora: “Perché mai alle bombe atomiche dei nostri nemici dovremmo aggiungere il suo libro?”. Poi quelle parole: “Il tuo libro parla positivamente di religione, di Dio, del cattolicesimo”. C’era del vero.
In “Vita e destino”, il tolstojano Ikonnikov, il “pazzo di Dio”, quando gli chiedono di collaborare alla costruzione di una camera a gas, si rifiuta. Arriva un altro recluso, un prete italiano, Guardi. I prigionieri, marxisti ortodossi, lo prendono in giro. Ikonnikov risponde solo dicendo al prete: “Mio padre!”. Allora Padre Guardi, il sacerdote italiano, gli prende le mani e le bacia. “Di giorno il sacerdote parlava di minestra, dei nuovi arrivati. si accordava con i vicini sullo scambio delle razioni, ricordava il piccante e saporito cibo italiano. La notte, quando gli internati cominciavano a addormentarsi, Guardi diventava un altro. Si metteva in ginocchio sul pagliericcio e pregava, bellissime parole di preghiera sulla misericordia di Dio e della Madonna”. Anche l’ateismo di Strum, un altro protagonista del romanzo, vacilla quando in un momento della sua vita dovrà prendere una decisione fondamentale capace di mettere in gioco tutto il suo destino. “Non credeva in Dio, ma non sapeva perché, gli pareva che in quel momento Dio lo guardasse, gli era accanto”. Grossman vergava queste righe in un paese dove i religiosi finivano nel Gulag.
A portare in Italia per prima “Vita e destino” sarebbe stata una casa editrice cattolica come la Jaca Book. Ne parliamo con i fondatori della casa editrice, Sante Bagnoli e Vera Minazzi: “E’ uno snodo interessante da ricostruire. All’epoca pubblicavamo i samizdat e Alexander Solgenitsin. Poi la casa editrice svizzera l’Age de l’Homme fece uscire nel mondo tutta una letteratura russa che erano un semi samizdat, con Grossman e altri come Zinoviev furono portati qui. E ne venimmo a conoscenza. L’elemento che continua a contraddistinguere Jaca, ma cerchiamo di avere uno sguardo politico nella ricerca dei libri. Grossman poi quando è passato da Adelphi l’ha portato nel suo catalogo con un intento editoriale diverso, non con un intento politico che avevamo in Jaca. Era una visione all’interno della Russia con le difficoltà che aveva, una visione straordinaria sulla guerra, sull’uomo, quando l’editore serbo dell’Age d’homme Vladimir Dimitievich ce lo presentò una mattina a Losanna, passammo ore e ore sulla sua traduzione in francese. Nel 1966 pubblicavamo già le riviste clandestine dell’Urss che arrivavano in dattiloscritto in Italia. C’era già Abram Terz, pseudonimo di Andrej Siniavskij. Fummo noi a far girare il samizdat primigenio. C’era in Grossman una visione sulla pace, sulla vita, che non ci si aspettava dalla Russia, c’era una laicità ecumenica e questo ci interessava moltissimo. Abbiamo passato anni a unire l’arte cristiana orientale e quella occidentale. Per noi resta importante andare a esplorare dei mondi sconosciuti, non scontati. Anche in una epoca come questa, dove sembra di leggere tutto, dalla Cina è difficile trovare qualcosa che non passi dai canali ufficiali degli agenti e dall’America. Noi cerchiamo di fare anche altro. Ci piace essere indipendenti, eretici. In Grossman non vedevamo un ‘russo’”. Era enorme, ad esempio, l’elogio dell’individuo, vulnerabile, mortale, contro lo stato onnipotente, ora burocrazia, ora lager, ora partito, ora duce-semidio.
“Non sono credente ma guardo quella chiesa e penso: ‘La casa di Dio non può essere rimasta vuota per mille e cinquecento anni’”
Nella biografia di Popoff ricorrono le pagine su Grossman e la religione, una sorta di conversione. “Leggere la Bibbia ha aiutato Grossman a scoprire un nuovo significato nella vita dopo l’età di Hitler e Stalin”. Davanti alla Madonna Sistina, portata a Mosca nel 1955 dai russi che l’avevano “requisita” a Dresda, in coda a vedere il quadro di Raffaello c’era anche Grossman, che poi scriverà: “La tela ci parla della gioia di essere creature vive su questa terra” e ci dice “quanto deve essere bella e preziosa la vita, e che non c’è forza al mondo in grado di costringerla a trasformarsi in qualcosa che, pur somigliandole, non sia vita vera”.
Poche settimane dopo che il Kgb gli sequestrò il romanzo di una vita, Grossman decide di fare un viaggio in Armenia. Nacque così il suo ultimo libro, quasi una “conversione”.
Lo scrittore si innamora delle chiese armene, della sua gente, dei suoi costumi. “Con la loro semplicità le antiche chiese armene dicono che fra le loro mura dimora il Dio dei pastori, delle belle donne, di scienziati e vecchiette, di eroi e di tagliapietre, il Dio di tutti gli esseri viventi”. Esalta una architettura “divinamente umana, umanamente divina”, così diversa da quella socialista e sovietica, vuota, monumentale, spettrale. “Vorrei che anche i libri fossero come quelle chiese – sobri, espressivi – e che ogni libro, come ogni chiesa, fosse la casa di Dio”.
Grossman resta impressionato dall’incontro con un presbitero, Aleksej Michajlovič, un uomo che “non poteva vivere senza la sua fede come non poteva vivere senza pane e senza acqua, e che per essa avrebbe affrontato con fermezza il supplizio della morte sulla croce”. Grossman, spiega Popoff, non era stato il primo scrittore russo a fare un viaggio del genere. Osip Mandelstam, morto di freddo nel Gulag, lo aveva fatto prima di lui, registrando le sue osservazioni in “Viaggio in Armenia”. Scrive Popoff: “Migliori di tutte sono le sue meditazioni sulla religione”.
Grossman in Armenia portò con sé le poesie di Mandelstam, che vedeva gli armeni come i primi cristiani, sottolineando che il cristianesimo aveva una stretta relazione con l’ebraismo. Nelle sue poesie, Mandelstam chiama l’Armenia “sorella minore della terra di Giudea”.
Grossman scrisse a Semyon Lipkin: “Che meraviglia, una montagna biblica. Di mattina è rosa, di giorno è bianco come la neve, di sera è di nuovo rosa”. Grossman descrive l’Ararat – che nella Bibbia offre il primo rifugio alla vita umana dopo il Diluvio – come “la montagna più importante dell’umanità – la montagna della fede”. Su consiglio di Lipkin, Grossman va a Echmiadzin, la città armena che è la sede del Catholicos, il capo della Chiesa apostolica armena, Vazgen I. Questo riceve Grossman nella sua residenza: “Discutemmo di letteratura e bevemmo caffè nero. Un monaco assisteva, un giovane incredibilmente bello. Lo scrittore preferito di Vazgen I è Tolstoj, colui che è stato scomunicato dalla chiesa. Vazgen è l’autore di un’opera su Dostoevskij; mi disse che l’antropologia è impossibile senza Dostoevskij”. A Yerevan, Grossman visitò l’Istituto dei manoscritti antichi dove vide una ricca collezione di manoscritti e libri medievali in una varietà di lingue, tra cui l’ebraico: “Una millenaria vita di pensiero, parola, colore”.
Nel fissare la montagna sacra armena, l’Ararat, nel contemplare le antiche chiese armene, Grossman scrive: “Io che non sono credente guardo quella chiesa e penso: ‘Forse Dio esiste… La sua casa non può essere rimasta vuota per mille e cinquecento anni…’”. Un po’ di speranza e serenità, dopo le angherie del socialismo reale, Grossman le aveva trovate là, fra le chiese della prima nazione che si convertì al cristianesimo 1700 anni fa.
Nel suo ultimo libro, sul viaggio in Armenia, elogia le chiese del primo paese a convertirsi al cristianesimo. L’Ararat, “la montagna della fede”
Partecipa a un matrimonio in un villaggio sotto il Monte Aragats. “Come scrisse nel libro di memorie, si sentiva a casa tra i contadini armeni: ‘Potevo sentire il loro immenso lavoro, la povertà dei loro vestiti e delle loro scarpe, le loro rughe, i loro capelli grigi, la curiosità beffarda e giovanile. Ho percepito la loro onestà; comprendevo le difficoltà della loro vita, quanto bene erano disposti verso di me. Ero a casa; ero tra i miei simili’. Seduto tra pastori, artigiani e panettieri, pensava che queste persone fossero strettamente e durevolmente legate da legami di parentela e comunità. Questi legami sono eterni. ‘La loro forza è stata testata per millenni. Nemmeno l’ira di Stalin li distruggerebbe’”.
Al rientro in Russia, Grossman prova a pubblicare anche questo libro, invano. Rimase inedito per tutta la sua vita. Nel 1962 Grossman lo consegnò alla sua vecchia conoscenza, Anna Berzer, redattrice di Novy mir. I censori gli chiesero di tagliare le parti sui contadini armeni e la nazione ebraica. Tvardovsky, naturalmente, era pronto a sacrificare questo passaggio, che credeva non essenziale. Ma Grossman si rifiutò di pubblicarlo senza il passaggio che faceva riferimento all’Olocausto e in cui esprimeva la sua convinzione sul bisogno di unità tra le nazioni”.
Nelle enciclopedie sovietiche a lungo comparve ancora il nome di Grossman anche dopo la morte. Non era stato cancellato come quello di tanti altri dissidenti. E nel grigiore di quella breve biografia Grossman sarebbe rimasto, se quattordici anni dopo la sua morte, “Vita e destino” non fosse evaso dagli archivi del Kgb. Nel 1978, Rosemarie Ziegler, ricercatrice austriaca in slavistica, passa il confine nascondendo i microfilm dei coniugi Sacharov con il romanzo in una scatola non più grande di un pacchetto di sigarette. Il manoscritto arriva in Svizzera, dove Dimitrijevic inizia a tradurre il libro. Nel 1980 esce la prima edizione mondiale di “Vita e destino”. I dirigenti sovietici non volevano crederci quando videro il nome di Grossman alla Fiera di Francoforte. Un miracolo, forse.
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