La comedie humaine di Repubblica
Le indiscrezioni sulle offerte, la storia di una grande aristocrazia, il futuro di quella “certa idea di giornale”. Che pezzo di storia si comprerà chi si prenderà il quotidiano fondato da Scalfari
Chissà cosa succederà, se davvero Repubblica passerà di mano, a chi andrà, se all’oscuro fondo di investimento Peninsula o alla più consanguinea Feltrinelli, come da rumors rimbalzati la settimana scorsa tra Dagospia e i suoi derivati. Chissà dunque che bandiera sventolerà un giorno su Largo Fochetti, all’Eur selvaggio, se quella di un qualche investitore europeo e di qualche altro esotico compratore. Quello che è certo è che se e quando qualcuno si comprerà Repubblica si comprerà anche un pezzo di storia, tipo quei marchi o brand leggendari ricchi di “heritage” e “dna” che le grandi conglomerate agognano, da rilanciare e tirare a lucido con investimenti ed economie di scala. La maison di Largo Fochetti è stata per decenni una grande famiglia un po’ disfunzionale, con dei personaggi che sono un po’ parenti a cui si è tutti affezionati. Anche chi magari non l’ha mai letta in Italia sa a memoria chi sono il Principe, l’Ingegnere, Barbapapà, “Eziomauro”, tutto attaccato. Persino la “Monda”, la mitica amministratrice delegata: non bisognava essere esperti come certi feticisti (il sito Pazzo per Repubblica). Tanti sapranno poi anche i nomi dei re-stilisti più recenti, Calabresi e ora Verdelli. Quello di Rep. è stato un mondo iniziatico di riti, un Tenenbaum del giornalismo, abitato, sopra tutti, da un fondatore, Eugenio Scalfari, che nel tempo è stato guru e pater familias di un giornale che non è giornale, è piuttosto partito, partito-azienda, a conduzione famigliare.
Rep. è stata la grande famiglia reale della sinistra italiana, l’equivalente della Fiat nell’auto, e Scalfari è un po’ l’Agnelli della carta stampata, monarca-sopravvissuto di un’epoca eroica in cui macchine e giornali italiani andavano a ruba, non come oggi che il giornale cartaceo è considerato un pericoloso manufatto da rifiutare anche gratis in treno, e le macchine italiane già diluite nella Fca cercano alleanze non tanto facili. Le due famiglie sono oggi unite in una dinastia torinese-romana, ma in fondo son sempre state dialoganti e parallele, tipo Savoia col Papato (chissà come si risolverà ora la questione romana).
Chissà che bandiera sventolerà un giorno su Largo Fochetti, se quella di un investitore europeo o di qualche altro esotico compratore
La famiglia reale della carta stampata aveva il Sovrano, col barbone bianco, direttore-fondatore divinizzato, e poi una corte: c’erano consorti sovrane, principi del Sangue, principesse. Monarchia assoluta. “Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano di un palazzo costruito nei primi dell’Ottocento nella piazza centrale della città”, si legge in “Racconto autobiografico”, uno degli innumerevoli volumi che hanno raccolto lo Scalfari-pensiero (dalla poesia alla religione, poi tutto raccolto in un doppio Meridiano). Il pezzo in questione veniva anche letto da un emozionato Silvio Orlando nel 2014 al teatro Argentina per le solenni celebrazioni dei Novant’anni scalfariani. Il sovrano è stato ed è sovrano gentile, umanista, libertino, unendo libertà filosofica a quella personale – tra le mitologie, la doppia famiglia coi doppi Natali tipo De Sica, e addirittura doppie celebrazioni cui venivano costretti i redattori: come Antonio Gambino degli Esteri dell’Espresso che sposò la francesista Caterina Cardona due volte, la seconda perché ci fosse l’augusta Presenza. Di riti e di festeggiamenti, nella casa romana o in quella di campagna a Velletri (di cui Scalfari è cittadino onorario), ognuno ne può raccontare, come quello di Tommaso Cerno, effimero condirettore, che vi si recò in pellegrinaggio, portando in dono scritti di Italo Calvino (compagno di banco scalfariano a Sanremo negli anni Quaranta), che pare furono graditi. Rep. celebra il suo sovrano di continuo, col carattere “Eugenio”, come il font introdotto col grande restyling del 2017, ha dominato negli anni, imponendo uno stile, perseguendo riti scaramantici e propiziatori: tutte le grandi novità e i restyling avvengono infatti il 14 gennaio, giorno del Sommo Compleanno. Mentre nulla avviene di martedì e venerdì, in onore del proverbio (rito scalfariano, che ultimamente avrebbe lasciato sconfortato il milanese pragmatico Carlo Verdelli, in occasione del lancio del restyling e del sito).
Sotto il Fondatore, il Principe e l’Editore, c’era l’aristocrazia di corte, con Mario Pirani, Sandro Viola, Bernardo Valli e tutti gli altri
La scaramanzia collega idealmente all’ala più irrazionale-chic della famiglia di Rep., quella di Carlo Caracciolo. Il Principe, casato napoletano, nome da lungomare, era un eccelso personaggio da comedie humaine o commedia all’italiana, principe, appunto, un po’ spiantato, ma con gran doti imprenditoriali “disruptive”, e dunque invidiato dall’Avvocato cognato sazio; amava frequentare i bassifondi, come il faccendiere Carboni, e Ciarrapico, il Ciarra, mediatore in quel fatidico momento in cui Berlusconi avrebbe potuto conquistare Rep. (sliding door!). Coinvolgeva in leggendari poker il giornalista-fondatore Gigi Melega e il concessionario Malagò, e convocava il compianto avvocato Oreste Flamminii-Minuto, principe del Foro, anche per questioni non proprio corporate come un’antenna condominiale nell’abitazione di Trastevere che doveva essere spostata su un tetto anziché su un altro, mi confessò. Caracciolo – c’è anche un attore di Gomorra che si chiama così, Carlo Caracciolo – fu di Repubblica l’anima imprenditoriale-vitalistica. Non mancava niente, le sue memorie sono il The Crown della stampa italiana. Nel bellissimo “L’editore fortunato” (con Nello Ajello, Laterza, 2005) c’è tutto, pure un domestico egiziano Kemal, che pareva quello dei Tenenbaum.
“Eugenio e Carlo. Una coppia senza eredi professionali. Gemelli indivisibili. Il gatto e la volpe. Identici nel bene e nel male”, scrisse Giampaolo Pansa. Sono stati un po’ come Valentino e Giammetti (Scalfari “The Emperor”, naturalmente). Caracciolo era il rimosso di Rep., l’eleganza libertina senza il sovrappiù azionista (nel senso di Partito d’Azione), era il capitalismo blasonato che alla morte lascia figli e figliastri e fa sospirare le professoresse. Caracciolo era anche il collegamento con l’altra dinastia regnante, grazie naturalmente a Marella, e dunque con la Torino di CdB, azionista (nel senso di padrone), l’Ingegnere, altra figura di spicco della saga, che pure arrivò solo nel secondo tempo, e che però su questa fondò la sua nuova identità. Sotto il Fondatore, il Principe e l’Editore, c’era l’aristocrazia di corte, con Mario Pirani, Sandro Viola, Bernardo Valli e tanti altri; dinastie talvolta
Di riti e di festeggiamenti con Scalfari, nella casa romana o a Velletri, ognuno ne può raccontare, come quello di Tommaso Cerno…
endogamiche, come Viola (eleganze sartoriali, esotismo) la cui discendenza si univa a quella Scalfari. C’erano i fuoriusciti e gli spretati, come appunto Giampaolo Pansa e Paolo Guzzanti e Giovanni Valentini che poi misero un sacco di energie editoriali e psichiche in vaste produzioni letterarie su o contro Repubblica. C’è e ci fu soprattutto una certa estetica di Repubblica, che prevedeva i completi di Viola, ma anche un’idea molto precisa di come dovesse essere graficamente un giornale, dai primi schizzi disegnati da Sergio Ruffolo, designer e scultore – e fratello del sommo economista Giorgio, esimia dinastia molto Rep. – che si ispiravano a un tempio greco. Primi a usare il carattere Bodoni, utilizzato solitamente nei libri, primi ad avere le sei colonne invece che nove: l’estetica Rep. era un design totale, appunto, dal tempio greco di Ruffolo ai Ruffolo stessi in gozzo con gli Scalfari a Positano. Un’estetica famigliare, niente a che vedere con l’altro grande giornale italiano, il Corriere, che sembrava più un club inglese di gentiluomini, public o private company ma senza identificazione tra direttore e editore, e capitali milanesi variabili. O con la Stampa torinese, che nonostante i cascami agnelloidi però manteneva una netta separazione tra i poteri. Rep. è sempre stata “una certa idea dell’Italia”, come sosteneva Ezio Mauro, direttore nell’Era Seconda (1996-2016), il Ventennio successivo a quello scalfariano (1976-1996), ma ancora prima “una certa idea di giornale”, il giornale della sinistra occidental-democratica in gessato torinese-napoletano, e che dunque coi filtri della povera semplificazione di oggi si direbbe radical-chic (ma che poi aveva la sua constituency nelle insegnanti, le leggendarie professoresse democratiche). Una constituency da far invidia, quella che si ritrova nelle adunate di Rep. Idee, il primo degli eventoni che i giornali si inventarono un po’ per contarsi e un po’ per tirar su sponsor, in tempi di edicole vuote, e piazze piene.