M, il padre dell'Iri. E se il secondo capitolo di Scurati si occupasse di economia?
Uno spoiler attuale: dal fascismo “anti casta” all’establishment
Ha vinto lo Strega, e ancora furoreggia in libreria, “M, il figlio del secolo”. E’, promette l’autore, il primo atto di una trilogia su Mussolini: oggi l’ascesa del Duce del Fascismo (resistibile?), domani le stagioni del governo e della guerra mondiale. Non essendo un critico, eviterò di cimentarmi nella valutazione letteraria dell’opera di Antonio Scurati. Ma critici togati e lettori comuni possono chiedersi se la scelta di raccontare le gesta di Mussolini attraverso un romanzo – un romanzo storico dove nulla vuole essere inventato, a differenza dei romanzi storici classici da Walter Scott in poi – può offrire chiavi interpretative inedite. Noi tutti, del resto, pensiamo di aver capito del generale Kutuzov più da “Guerra e pace” che dalla storiografia professionale. Sarà dunque interessante verificare se, al termine della trilogia, ne sapremo di più di quanto ci abbia fin qui spiegato Renzo De Felice. C’è chi, come accadde a Ernesto Galli Della Loggia all’uscita del libro, ne dubita. Ma noi, invece di dubitare, vorremmo dichiarare in prima battuta un paio di curiosità a proposito delle fatiche future dell’autore di “M” e infine cogliere uno spunto suggestivo anche per il presente. D’altra parte, il successo di “M” non si spiega soltanto con il suo impatto letterario.
La storia metterà il romanziere di fronte alle decisioni che Mussolini adottò per reagire alla crisi globale del 1929. Furono decisioni che, per la loro qualità, concorrono a giustificare il sottotitolo del libro: “Il figlio del secolo”. Scurati si considera vaccinato contro il rischio dell’innamoramento del biografo per il suo biografato. E anch’io premetto, ovviamente e a scanso di equivoci, che quelle decisioni non compensano sul piano del giudizio storico complessivo i crimini delle leggi razziali, della soppressione delle libertà, dell’alleanza con il Nazismo e della guerra. E tuttavia le tentazioni non si respingono fuggendo dalla realtà. Dunque, eccoci.
Com’è noto, nel 1933 l’Italia affidò a un ente pubblico economico di nuova costituzione, l’Iri, le imprese industriali controllate da Comit, Credito Italiano e Banco di Roma e, contestualmente, assegnò sempre all’Iri la proprietà di quelle tre grandi banche. Nel 1936, il nuovo assetto venne cristallizzato nella legge bancaria, che costituiva la moderna Banca d’Italia e separava con un taglio radicale il credito commerciale dal credito a lungo termine e dalle attività finanziarie in generale. Meno nota invece è la circostanza che la prima impostazione di questa strategia si trova in un appunto per il Duce, scritto da Raffaele Mattioli e consegnato a palazzo Venezia dall’allora padre-padrone della Comit, Giuseppe Toeplitz. L’esser latore di quella brillante soluzione non salvò la poltrona a Toeplitz, che il governo ritenne di dover sacrificare come uno dei responsabili dei disastri bancari, ma la procurò a Mattioli, che venne promosso, benché fascista non fosse. Di più, all’Ovra non poteva sfuggire la fronda che Mattioli alimentava assumendo liberali e azionisti all’ufficio studi della Comit e forse nemmeno il sostegno al pensatore comunista Antonio Gramsci di cui preservava i “Quaderni”, scritti in carcere. Questa apertura mussoliniana, certo favorita dal consolidamento del regime, ebbe la sua manifestazione più forte nel delegare il disegno dell’Iri e la legge bancaria ad Alberto Beneduce, grand commis d’etat, socialista nazionalista, che ebbe il suo più fidato collaboratore in Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia dopo la guerra.
Quelle decisioni, frutto della collaborazione tra dittatura e tecnici non fascisti, vennero confermate dalla Repubblica democratica. La legge bancaria fascista, d’altra parte, ricalcava il Glass Steagall Act rooseveltiano e rimase in vigore fino al 1993. L’Iri venne conservato, grazie anche alla difesa dell’ente fatta da Menichella con gli Alleati. Ed è interessante ricordare che, nei lavori della Commissione economica dell’Assemblea Costituente, fu il Pci togliattiano e non la Confindustria di Angelo Costa a proporre (invano) l’abolizione dell’Iri perché istituito dal Fascismo.
Il racconto delle relazioni di Mussolini con Beneduce e con Mattioli potrebbe offrire molto, anche ai palati fini. In una cena milanese in suo onore, quando gli confidai le mie attese di lettore su questi passaggi, Scurati si schermì: materie così crudamente economiche mal si presterebbero al romanzo. Aveva ragione? Non saprei dire, sebbene ricordi ancora il godimento che mi procurò il Keynes memorialista con il ritratto di Carl Melchior, il negoziatore tedesco alla Conferenza di Parigi. Nel mio piccolo, a titolo di incoraggiamento, ricorderò come Mussolini sbrigava gli affari dell’Iri: ricevendo Beneduce a Villa Torlonia, mentre si radeva la barba di buon mattino. Una confidenza che gli consentiva anche un linguaggio sboccato. Enrico Cuccia, genero di Beneduce, si divertiva a ricordare le parole con le quali Mussolini incoraggiò il presidente dell’Iri a non cedere la Sip, prima concessionaria telefonica del paese, ai massimi industriali italiani: “Non diamogli niente; questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!”. (In effetti, quegli industriali non volevano sborsare una lira, anzi pretendevano una dote di 700 milioni per prendere la Sip, e il senatore Agnelli chiedeva, fuori sacco, la Gazzetta del popolo per controllare meglio Torino, dove già possedeva La Stampa).
Assai interessante, ai limiti del giallo, potrebbe essere la narrazione della “tolleranza armata” verso l’opposizione del dittatore al culmine del consenso. In particolare, sono curiosi i rapporti con Gramsci. Che Mussolini incarcerò, ma senza impedirgli di scrivere e liberandolo infine così da permettergli di morire nella clinica Quisisana. (Nella Germania hitleriana Gramsci sarebbe stato subito eliminato e medesima sorte avrebbe avuto nell’Unione Sovietica). Viene da chiedersi se non vi fosse, al di là del feroce contrasto politico, una sorta di rispetto tra uomini che Francesco Cossiga avrebbe catalogato tra gli esponenti dell’establishment, per quanto si possa considerare un ossimoro estendere questo concetto a certi rivoluzionari. E poi, fatalmente, magari con l’occhio rivolto all’oggi, viene da chiedersi come si rapportasse quella sorta di rispetto con l’odio per la Casta che prima, agli esordi dell’avventura fascista, Mussolini e D’Annunzio avevano fomentato nell’opinione pubblica.
Scrive Scurati: “Chi sono i fascisti? Che cosa sono? Benito Mussolini, loro ideatore, ritiene l’interrogativo ozioso. Sì, certo… sono qualcosa di nuovo… qualcosa d’inaudito… un anti partito. Ecco… i fascisti sono un antipartito! Fanno dell’antipolitica”. E il Vate sull’Idea nazionale: “E’ necessario che la nuova fede prevalga, con ogni mezzo, contro la casta politica che con ogni mezzo tenta di prolungare forme di vita menomate e disprezzate”.
Ci sono voluti più di ottant’anni perché il concetto di Casta tornasse a rappresentare in modo sintetico la classe politica. E’ accaduto a opera di un libro, intitolato appunto “La Casta”, interprete dello spirito del tempo a coronamento di una campagna del Corriere della Sera che aveva l’obiettivo di sostituire il governo Prodi (già debole di suo) con un governo Montezemolo (ancora più improbabile). Non che la classe politica non meritasse e non meriti le censure più severe, ma allora come oggi l’establishment politico ed editoriale non seppe poi governare il genio uscito dalla lampada che alcuni suoi esponenti avevano strofinato. Negli anni Venti del secolo scorso, i liberali e la loro costituency borghese capirono il rischio mortale del Fascismo troppo tardi, illudendosi prima che qualche bastonata ai socialisti rivoluzionari non avrebbe fatto male. Ai tempi nostri, la Rottamazione della classe dirigente ai fini della conquista del potere e l’uso sedicente democratico degli argomenti pentastellati da parte del Pd renzianizzato e del suo (fragile) insediamento economico e culturale hanno aperto la strada alla svolta politica in atto, che non è fascista ma certo non rinvigorisce la democrazia rappresentativa. E hanno pure insidiato la credibilità dell’opposizione attuale.
I libri come quello di Scurati possono portare lontano. Possono portare a pensare qualcosa di noi.