Alberto Savinio e Parigi. Il genio rapace al cospetto della vieille dame
“Souvenirs” (Adelphi): ritratti folgoranti, lo spettacolo di una città
Cosa c’è di più triste dei ricordi? Parigi e nient’altro. Parigi come una vieille dame a cui l’umanità ha gridato “tu sei l’unica, tu sei la capitale del mondo”. Parigi più triste del tempo perché ha creduto alle bugie come fossero verità, convincendosi che, al di fuori della propria cinta daziaria, gli uomini, vestiti di rozze pelli, “combattessero le fiere con zagaglie di silice e al tramonto si accucciassero dentro capanne posate su palafitte”. Parigi che ha continuato a guardarsi allo specchio compiacendosi di ciò che vedeva mentre la realtà era un’altra, la realtà era che si stava sgretolando e andava in pezzi e la crisi le marciava contro imperterrita assumendo l’aspetto minaccioso di una calata barbarica. Ma Parigi si ripeteva: “Niente paura, sei l’Inviolabile Capitale.” Poi la crisi è arrivata ai piedi della vieille dame e ha attaccato i suoi pizzi, la crinolina, e quell’incredibile gioco di cosmetici e di creme che alla sua faccia secolare dava un aspetto imperituro, facendola infine diventare quel che è diventata: un funerale di “morti a metà”.
E’ proprio da quel funerale, con un piede in Francia e uno in Italia – era là che si trovava tra il 1926 e il 1933, ma era qua che il pubblico le avrebbe lette sulle pagine dell’Ambrosiano, quotidiano milanese dal carattere colto e cosmopolita – che Alberto Savinio scrisse le corrispondenze che ora, sotto il titolo di “Souvenirs” (246 pp., € 14 euro), Adelphi ripropone nella collana “Piccola Biblioteca”. Operazione editoriale che val bene un encomio, al punto che a lettura terminata si vorrebbe buttar giù qualcosa, un appello (anche se da queste parti li si è sempre guardati con sospetto), una lettera aperta, un tazebao di pubblicità irrichiesta per caldeggiare questo libro presso un pubblico più vasto possibile, soprattutto dopo aver constatato quanto di rado capiti la possibilità di godere un concentrato di intelligenza tanto esatta, anzi, efferata nel non poter essere altro da ciò che è, cioè sempre al lavoro, sempre rapace nel cogliere e instancabile nel non buttar via niente del grande spettacolo del mondo – spettacolo smisurato e vario, che hai suoi cabaret, i suoi tabarin, i suoi grand-guignol. Ma non è finita, perché “Souvenirs” ha anche un altro folgorante pregio: essere testimonianza del fatto che è esistita un’epoca in cui ciò che oggi chiamiamo “politicamente scorretto” è stato ciò che non è più, ossia l’esercizio della più suprema intelligenza liberatoria e non l’esibizione della più avvilente stupidità che buca il suolo. Ogni frase di Savinio è una freccia contro la banalità di quei “filosofemi brodosi che, più che dal repertorio della filosofia, traggono da quello del cittadino che protesta”. Ogni riga è un trionfo di ripulsa verso coloro che “si sono consacrati alla celebrazione dello sciocchezzaio universale con energia inflessibile”. Ogni digressione una scultura di ritratti vivacissimi. (“Marcel Proust, uomo dalla frase lunga e dal pensiero corto”; “Colette è voluminosa, piramidale, o per meglio dire sagomata in quella forma a campana che è il tipo somatico di tutte le illustri donne di Francia”; “Claude Debussy è un salsiccione imbarbettato che, senza pensare che la musica più alta e felice è una musica netta e cristallina, ha inventato una musica a corrente d’aria”; “Jean Cocteau, profilo perpetuo come i mietitori egizi: dalle sue labbra il verbo scorre a rivoli, a fiumi, a torrenti e ha un cuore madido d’amore per i fratelli uomini”).
Si potrebbe gremire una paginata con i ceffoni sublimi e i balzi strepitosi dell’ingegno di Savinio, ma alla fin fine, come sempre accade coi Castigatori, sono i loro premi a risuonare cruciali e indimenticabili. Savinio non regala niente, fa a pezzi i Surrealisti “in balia della scemenza”, cita Gallimard quale “roccaforte di tutti gli isterismi letterari di Francia”, malmena gli scrittori che praticano “forme organizzate di disordine mentale, comodo surrogato della genialità”, e non risparmia nemmeno il Segretario degli Affari esteri Filippo Berthelot morto da due mesi quando scrive: “Quest’uomo di cui solo un ben amministrato silenzio riusciva a nascondere l’insondabile vacuità, questo passeggero, quest’ombra, questo sussurro umano…”. Eppure, dopo pagine di sferzate implacabili, si ferma. E depone due mazzi di fiori. Il primo è per Max Jacob, ucciso in campo di concentramento, “moscardino malmenato dalla sorte senza un pelo in capo e quattro denti in bocca” che “lodava le donne con periodi forbitissimi che terminavano in coda di madrigale” – una sera incontrò Gesù Cristo tra la folla di un cinematografo in cui si proiettava un film di Fantomas. Il secondo è per Guillaume Apollinaire. Il poeta più classico che abbia onorato di sé il secolo scorso si faceva regalare i sigari da Ungaretti e aveva rapporti passeggeri con la felicità e la fortuna. Patì iella e solitudine. Morì lo stesso giorno di Edmond Rostand. “Mio figlio? Un fannullone. Rostand: ecco un poeta,” fu tutto ciò che sua madre riuscì a dire di lui.