Librai erranti
Partivano da Montereggio, tra i monti della Lunigiana, dove sarebbe nato poi il premio Bancarella. Portarono la lettura in mezza Italia
Alcuni anni fa, per merito di “Al paese dei libri” di Paul Collins (Adelphi), i lettori italiani hanno scoperto l’esistenza di una piccola “Mecca dei bibliofili” al confine tra Galles e Inghilterra, la graziosa Hay-on-Wye, un paesino che alla fine degli anni Sessanta rischiava di sprofondare nel languore delle province abbandonate e che invece, grazie all’iniziativa dell’eccentrico Richard Booth, è finito per diventare un centro d’attrazione internazionale completamente dedicato alle rarità libresche. Collins lo descrive così: “Hay-on-Wye è proprio il paese dei libri: si è guadagnata questo nome perché conta millecinquecento abitanti, cinque chiese, quattro negozi di alimentari, due giornalai, un ufficio postale e… quaranta librerie. Librerie antiquarie, nientemeno […] Il totale dei libri chiusi nelle botteghe o stipati negli ex fienili ammonterà a qualche milione; migliaia di volumi per ogni uomo, donna, bambino e cane”.
La fama di Hay-on-Wye, da quando nel 1977 Richard Booth ha pensato di utilizzare diversi locali pubblici per il commercio dei libri antichi, è continuata a crescere e la cittadina col tempo è diventata la capofila di quello che, grazie a un’altra intuizione dello stesso Booth, ha preso il nome di International Organisation of Book Towns, un circuito di una quarantina di centri sparsi in ogni angolo del globo la cui esistenza ruota in vario modo attorno al libro. Quello che sanno forse in pochi è che uno di questi borghi si trova in Italia, e la sua storia ha radici molto più antiche ed eroiche di quelle della consorella anglo-gallese. Il nostro paese dei libri o (come vedremo), più correttamente, dei librai, si trova sulle montagne della Lunigiana, poco distante da Pontremoli, e si chiama Montereggio. Così ne parlava Oriana Fallaci su Epoca il 6 settembre 1952, in occasione di quello che fu il primo Congresso dei librai (occasione in cui nacque il Premio Bancarella, la cui 67esima edizione si concluderà domenica prossima, 21 luglio. Ma andiamo per gradi).
“E’ la terra dove si nasce librai”, scriveva Oriana Fallaci. “E’ difficile che la gente sappia leggere e scrivere, eppure ogni casa è piena di libri…”. Gli ambulanti cominciarono a stabilirsi nelle città: tante librerie del centro-nord portano ancora i nomi di quelle famiglie
“Prima di sciogliere l’assemblea i librai di Pontremoli fecero un giuramento. Erano riuniti in una sala del Municipio, proprio sotto il campanile, e le loro facce rugose apparivano, nella penombra, solenni come quelle di arcaiche statue di legno. Gli uomini vestivano per lo più abiti a righe e avevano sul panciotto, bene in mostra, la catena d’oro. […] Erano i librai più vecchi del mondo: i capelli bianchi apparivano come distinzione necessaria in quell’adunata. Uno a un certo punto si alzò, alto e massiccio, con baffoni all’umbertina, e disse: ‘Ed ora amici, propongo un solenne giuramento: quello di ritrovarci nel nostro paese, ogni anno, in un dato giorno, a questa stessa ora, finché Iddio ci conserva, e fare una bella mangiata’. Seguì un lungo silenzio; poi i librai alzarono lentamente all’altezza del viso la mano e giurarono.
Pontremoli è un paese della Lunigiana, famoso sin dal Medioevo quando era la porta delle grandi vie di comunicazione tra la Toscana e la Lombardia, circondato da boschi di castagni e pini. Tra questi boschi sorgono da un tempo immemorabile Montereggio e Parana […] e questa è la terra dove si nasce librai. A Montereggio e a Parana è difficile che la gente sappia leggere e scrivere […] eppure ogni casa è piena di libri intonsi e a ogni stagione c’è un pastore che lascia il villaggio e va per il mondo a fare il libraio”.
Come accennato le radici del tarlo lunigianese dei libri sono antiche, a Fivizzano vengono stampati dei volumi con la tecnica dei caratteri mobili già nel 1471 – appena 16 anni dopo la mitica Bibbia di Gutenberg. A realizzare la precoce impresa editoriale (con netto anticipo rispetto a diverse città italiane e ben nove anni prima che il nuovo sistema arrivasse a Londra) fu Jacopo da Fivizzano, e una tale tempestività non deve stupire, benché nella cittadina vivessero appena settecento persone, addirittura ottantasei erano laureate – non per niente era chiamata la Firenze di Lunigiana. Solo vent’anni più tardi, il primo a lasciare l’altro fuoco culturale della piccola regione inseguendo la passione dei libri fu Sebastiano da Pontremoli, che si trasferì a Milano per apprendere l’arte dei caratteri mobili e portarla anche nella sua città. Ma se questi episodi testimoniano il fermento libresco che da secoli si agita nelle anime lunigianesi, non fanno ancora parte della storia dei librai ambulanti di Montereggio, che sarebbe cominciata tre secoli dopo, quando, a inizio ’800, i volumi si sostituirono alle pietre da affilare che gli ambulanti avevano imparato a commerciare nella zona di Brescia e nel piacentino, dove andavano a svolgere lavori agricoli stagionali. Qui appresero l’arte del commercio e a un certo punto, verso metà ’800, avvenne una curiosa metamorfosi: i venditori di pietre cominciarono a trattare anche, e in breve tempo prevalentemente, i libri. Il cambiamento avvenne repentinamente, nel volgere di tre o quattro anni. Il primo documento a testimoniarlo è una Carta di sicurezza rilasciata il 23 novembre 1854 a Maucci Sante di Montereggio “per liberamente circolare negli stati parmensi”, in questo documento il lunigianese era descritto come “Contadino, dentista, venditore di pietre – anzi di libri”. L’evoluzione avvenne anche perché gli ambulanti entrarono più volte in contatto con le associazioni carbonare che li rifornivano di libretti sull’unità d’Italia, testi che venivano affidati ai montereggini con l’intenzione di garantirne la diffusione. I commercianti in effetti li diffondevano, ma vendendoli. In questo modo si accorsero che trasportare libri era conveniente rispetto alle pietre (fosse anche solo per il peso). Negli anni, via via che la nuova attività prese piede, la “mitica” gerla con cui viaggiavano i librai (e con la quale sono sempre ritratti) non era più sufficiente, e gli ambulanti cominciarono a spostarsi con carretti trainati a mano o da animali. Sistemandoli nelle vie e nelle piazze delle città che non avevano ancora un commercio librario sviluppato, i librai di Montereggio portavano con le loro bancarelle la lettura in tutto il centro-nord. Nel 1858 tra Montereggio e Parana vivevano 850 persone, 71 delle quali erano librai ambulanti. La loro migrazione avveniva in modo rituale: ogni anno partivano in un giorno convenuto dai paesi di Montereggio, Parana e Catizzola per darsi appuntamento sul Passo della Cisa, e lì con la gerla piena di libri, guardando il mare di monti che si spalancava ai loro piedi, si spartivano l’Italia. Per evitare di farsi concorrenza indicavano le valli dividendosi piazze e città, mentre discutevano dei titoli che sarebbero andati di moda e degli editori da cui rifornirsi. Degli ambulanti si diceva che d’inverno si divertivano, festeggiavano, mettevano incinta la moglie e in primavera partivano per il mondo. Non mancavano le avventure nel loro girovagare, a raccontarne qualcuna è Gian Battista Martinelli nel suo “I librai pontremolesi” (Tarka editore – da cui cito le testimonianze seguenti), che riporta episodi come l’avventura del piccolo Giulio Maucci, che “partito da Parana a otto anni con suo cugino”, attraversa le Alpi quando, di sera, sul Colle della Maddalena completamente innevato, vede il cugino più grande “che si toglie la giacca per bruciarla” e gli dice di imitarlo, “perché c’erano i lupi che si avvicinavano”. Oppure quella di un Conte che nei pressi di Modena soccorse Costantino Tarantola, il cui carro era finito in un fosso dopo che un fulmine aveva spaventato il suo cavallo. Il nobile mandò la servitù ad aiutare l’ambulante facendo mettere i libri ad asciugare di fronte al camino; nacque così un’amicizia destinata a durare.
Erano anni in cui i lunigianesi giravano l’Italia con i carri “coperti come quelli texani”, Elena Giovannacci ricorda: “Dormivamo sul carro, avevamo un materasso che stendevamo di sera e in cima e in fondo ci mettevamo le casse con i libri per delimitare la zona notte”. Nelle parole di Carmen Tarantola vive il ricordo di quell’epoca: “Tutti facevano gli ambulanti, se volevano mangiare dovevano andare a fare i mercati, poi d’inverno, stando a casa quattro mesi, avevano quattro soldi per pagare gli altri otto di bottega, perché allora segnavano, tutto quello che c’era da mangiare veniva segnato. […] Un giorno, io avevo undici anni, mia mamma aveva una sorella che faceva i mercati a Vigevano, Mortara, in quei posti… mia mamma lavorava poco a Milano, e allora sua sorella le ha detto: Ida, perché non vieni a Vigevano a fare il mercato, vieni che è buono. Un sabato mattina mia mamma ha comprato dieci volumi della casa editrice Barion. Siamo arrivati a Vigevano e non avevamo il posto, chi arrivava prima si sistemava, allora il vicino che c’aveva tutto il muro del Duomo pieno di quadri, ha tolto un quadro, ci ha dato due cavalletti e un’asse e da lì abbiamo messo su un metro quadrato di libri. […] Per farla corta, siamo arrivati a venti metri di banco. […] La Carolina Invernizzo andava a decine e la Dellì e la Liala, ho venduto più Liala e Dellì e Carolina io che… A Vigevano vanno al banco non vanno al negozio, il vigevanese vero: madri e mogli di professori, dottori e ingegneri. Mi diceva un parrucchiere: signora, lei ha il fior fiore dei vigevanesi!”.
Il raggio d’azione degli ambulanti non arrivava oltre il centro Italia, qualcuno dice non oltre l’Aquila, Raffaele Bertoni si spinge fino a Roma, perché “dopo Roma non sapevano mica leggere. Adesso sì, ma allora purtroppo no”. Verso l’inizio del ’900 gli ambulanti cominciarono a stabilirsi in città, tante librerie del centro-nord portano ancora i nomi delle famiglie Bertoni, Fogola, Galleri, Ghelfi, Giovannacci, Lazzarelli, Lorenzelli, Tarantola, Vannini; e c’è chi è arrivato anche molto più lontano, come i Maucci, che hanno aperto librerie e case editrici anche a Barcellona, Buenos Aires e in Messico. L’intuito dei librai non si limitava alla selezione e al consiglio dei titoli ma investiva anche la posizione scelta per le librerie, che venivano aperte nel centro della città, perché – come dice Ottavio Maucci – “il negozio di libri va in centro, se lo metti in periferia non fai niente”. Gli ambulanti si rifornivano da case editrici come Barion, Bietti e Salani, che stampavano libri economici su carta di bassa qualità proprio per garantirne la massima diffusione, ma anche editori più noti si consultavano con i montereggini per conoscere il polso del pubblico (esercizio nel quale gli ambulanti, che in alcuni casi non sapevano leggere, erano considerati dei veri rabdomanti) e, naturalmente, per fornirli dei propri volumi. Raffaele Bertoni ricorda come “Rizzoli a volte mi mandava i libri senza soldi. Anche Mondadori, anche Garzanti, anche Hoepli. Poi c’era la casa editrice Bietti, la Bietti più di tutti… Avevano fiducia in questi librai, perché lavoravano, erano onesti, sapevano fare il loro mestiere, e poi pagavano”. Valentino Bompiani definì l’acquisto di un libro sulla bancarella di un pontremolese come suo “primo atto di indipendenza”.
Durante il fascismo lavorare in proprio, fare il libraio, era un modo per evitare di prendere la tessera del partito, molti dei lunigianesi restarono anche per questo legati alla loro attività, seppur in condizioni avverse – diversi libri erano infatti messi all’indice (ma per contro li si poteva vendere sottobanco a prezzi più alti). Tiziano Tarantola nota che non erano “censurati nel vero senso della parola” ma venivano comunque proibiti, “perché di autori ebrei, americani o inglesi. Però c’era una casa editrice, la Corbaccio, che aveva la prerogativa di fare proprio quelli: glieli lasciavano stampare e vendere. C’era il solito compromesso all’italiana, te lo proibisco però se lo vendi non lo so”.
In zona, a Fivizzano, vengono stampati volumi con la tecnica dei caratteri mobili già nel 1471, 16 anni dopo la Bibbia di Gutenberg. Coloro che andavano negli stati vicini a vendere pietre da affilare, a metà Ottocento le sostituirono con i libri. Una migrazione rituale
Dice il poeta pontremolese Ferruccio Bardotti che le rondini hanno imparato dai lunigianesi a ritornare, e infatti anche dopo la guerra, benché ormai i librai si fossero stabiliti nelle città d’adozione, ogni anno non mancavano di ritrovarsi a Montereggio, e proprio in una di queste occasioni, l’11 agosto del 1952, durante quello che fu il loro primo Congresso, alla fine di una cena, appuntando il regolamento su un foglio pubblicitario dell’Albergo Ristorante Vittoria, nacque – in presenza dell’Onorevole Gronchi, di Salvator Gotta, di Valentino Bompiani, dei librai e dei sindaci di Pontremoli e Mulazzo – il premio che inizialmente venne battezzato “La Bancarella”, da assegnarsi al libro che secondo il parere dei bancarellai è “il più meritevole” dell’ultimo anno e che, come riportato da Corrado Micheloni sul Corriere Apuano del 15 agosto 1953, “non consiste tanto in un compenso più o meno rilevante, ma nell’impegno di venderne entro l’anno un rilevantissimo numero di copie”. In occasione di quel primo congresso il romanziere Salvator Gotta, rivolgendosi ai librai, disse: “Dicono che molti di voi non sanno leggere, non importa: io vi ho sempre visto con un libro tra le mani, vorrà dire che sapete leggere tra le righe il valore di una pubblicazione, se è vero che due giorni dopo l’uscita delle novità sapete già dire se va o non va”.
Un anno dopo i librai assegnavano a “Il vecchio e il mare” di Hemingway la prima edizione del Premio Bancarella.
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