Tutta la Roma di mammà
Riapre Palazzo Bonaparte a piazza Venezia. Qui visse Maria Letizia Ramolino, la (pia) madre di Napoleone. Che disseminò nell’Urbe un generone di napoleonidi. Storie e leggende di ieri e di oggi
Chissà che pensava, tutto il giorno, appollaiata sul suo balconcino, Donna Letizia Buonaparte, mamma di Napoleone, su una piazza Venezia non ancora coventrizzata dalle buche e dai torpedoni e senza lo sfondo del Vittoriano marmoreo e del natalizio albero Spelacchio (e senza il bar “Napoleon” a menu turistico al pianterreno, e i calendari e i limoncelli delle edicole poco votive sotto). Maria Letizia Ramolino, poi Madame Mère, figlia di un ispettore corso, moglie del nobile generale Carlo Maria Buonaparte, mamma dell’Imperatore, era finita a Roma in quella ondata migratoria di napoleonidi che aveva colpito Roma nell’Ottocento.
Arriva nel 1818 e si compra il Palazzo Bonaparte; Napoleone aveva fatto cadere infatti la “U” che segnalava trascorsi italici: ancor oggi il cognome francesizzato campeggia sull’altana che domina la piazza (a Roma le altane hanno i nomi scritti sopra, almeno le più chic). Il palazzo, oggi aperto al pubblico dalle assicurazioni Generali, come sede di primarie mostre, ospitò madame Mère per 18 anni, finché ella morrà nel 1836. A Roma era protetta dal cardinale Joseph Fesch suo fratellastro, accolta e tollerata da papa Pio VII che pure era stato carcerato dai francesi pochi anni prima, ma lei è non solo molto pia, ma anche molto liquida: arriva come donor, aveva messo da parte molti soldi per le avversità, e questo non dispiace alla chiesa. Con 27 mila piastre d’oro si compra così il palazzo che era già stato d’Aste e Rinuccini, e poi dopo di lei passerà a varie famiglie, ai Misciattelli, e poi alle Generali dal 1972. Per un po’ ha ospitato pure la redazione del Corriere della Sera, e oggi fa impressione camminare sui pavimenti di vetro che proteggono i mosaici, gli stessi di quando ci stava la redazione. Tra l’Ares tutto saccagnato copia di quello del Canova che Napoleone teneva al Louvre perché ignudo, e i caminetti del Canova, quanti ricordi, di qua la Rodotà, di là le cravatte di Paolo Valentino, mentre sull’altana fatale i cronisti andavano a fumare. Il palazzo, oggi tutto tirato a lucido, quasi attaccato a quello Doria Pamphilj, cosparso di B e aquile imperiali, fa sorgere soprattutto il dubbio: avrà il Cav., avendo lì a portata di mano quel manufatto prestigioso cosparso di insegne già belle e pronte, almeno tentato di comprarlo, ai tempi, prima di spiaggiarsi al vicino Grazioli? Magari ci avrà provato, chissà. Le insegne imperiali soprattutto dentro: fuori madame Mère non voleva dar troppo nell’occhio. La pia donna tiene una piccola corte e fa dire soprattutto un’infinità di messe, il palazzo è infatti cosparso di cappelle; e come si sa fa costruire il celebre balcone d’angolo, chiuso come una mashrabiya araba o indiana, per vedere senza essere visti, fuori di legno e dentro tutto decorato dai migliori designer d’epoca e dunque a grottesche, più una graziosa panchetta angolare tipo stube, non comodissima ma anzi un po’ punitiva, per guardar giù sulla via del Corso e la piazza non ancora sventrata.
Religiosissima, come la mamma del Cav., Maria Letizia genera 13 figli, di cui nove sopravvivono e invadono i meglio troni d’Europa. Zenaide e Carlo Luciano creano un generone napoleonico per cui ogni famiglia un po’ bene ha delle insegne imperiali francesi
Religiosissima, come la mamma del Cav., Maria Letizia genera 13 figli, di cui nove sopravvivono e invadono i meglio troni d’Europa: oltre Napoleone, il primogenito Giuseppe che avrà prima Napoli e poi di Spagna; e poi Luciano, Elisa, Luigi, Paolina, Carolina e Girolamo.
Per ricostruirne la soap basta fare il Corso e poi via Zanardelli e giù al museo napoleonico. Lì tra custodi che si lamentano del gran caldo Letizia troneggia in un dipinto di Robert Lefèvre, in abituccio impero decorato a piccoli ramoscelli o palme che pare un Prada dell’ultima stagione. Ma per i fan o feticisti dei napoleonidi a Roma, ecco tanti oggetti e oggettini e porcellane, spade, caffettiere, centrotavola, diari, beauty case, di questa grande famiglia disfunzionale, Tenenbaum imperiali che a un certo punto arrivano puntualmente a Roma, chi durante i fasti, chi tra un esilio e l’altro, tra l’Isola d’Elba e Waterloo, ma sempre e comunque a Roma, rimbalzati da altre capitali più severe che non ne vogliono sapere. Due volte nella polvere, due volte sull’altare (della patria).
Ecco il fratello preferito dell’imperatore, Giuseppe, che viene fatto prima re di Napoli, poi, malgré soi, di Spagna (odiato dagli spagnoli, ricordato come “il re intruso”, scappa negli Stati Uniti, a Philadelphia, poi New Jersey, e morrà a Firenze); lascia un sacco di ritratti delle figlie Carlotta e Zenaide, oggi sarebbero regine dell’Instagram, con beauty pazzeschi di boccette d’ottone da viaggio forniti dalla ditta Blaquière per rich kids d’epoca. Lascia anche libero il posto a Napoli alla sorella Carolina e al di lei sposo Gioacchino Murat. Luciano invece è un fratello poco amato, con Napoleone non si intendono mai, è idealista, fervente repubblicano e contrario alla svolta imperiale. Viene spedito pure lui a Roma, ma sta volentieri a Frascati e a Canino così che Pio VII – a cui i napoleonidi danno chiaramente un sacco di seccature – lo fa subito principe di quel feudo (e lui fa scavi importantissimi di archeologia; o forse come i re moderni in visita anche oggi in quei luoghi le antichità gliele fanno trovare apposta le pro loco, per farli contenti). Alcuni napoleonidi si sposano tra di loro, perché pare una buona idea rafforzare la razza per eventuali ritorni su troni ormai polverizzati: Zenaide sposa Carlo Luciano figlio di Luciano, e insieme hanno dodici figli che impalmano praticamente tutta la nobiltà romana creando un generone napoleonico estesissimo, per cui ormai ogni famiglia un po’ bene della capitale ha a casa un aquilotto imperiale.
Sua sorella Carlotta invece genera il conte Giuseppe Primoli detto Gègè, il più top dei napoleonidi: nato a Roma ma cresciuto ed educato a Parigi, dove dopo gli studi frequenta la corte di Napoleone III, e diventa un simpatico intermediario tra Roma e Parigi, portando in Italia Maupassant, Paul Bourget, Alexandre Dumas figlio, Sarah Bernhardt, e a Parigi, simmetricamente, Verga, Serao, D’Annunzio, Eleonora Duse.
Una capitale smandrappata ma meno risentita e vendicativa delle altre (e dove comunque i sovrani non respingono i migranti). E pure Leone XIII investe e perde del suo, in una città che nasce con il core business del consumo di suolo
Fotografo, dandy, giornalista, un lord Snowdon dell’epoca, Primoli – che dev’essere stato uno di quei maniaci delle memorie famigliari che sfiniscono i parenti in vita ma poi tramandano la tradizione – accumula bestiali collezioni di fotografie e di ninnoli che ospiterà poi nella sua casa: il museo napoleonico sta infatti nel Palazzo Primoli, rifatto dall’architetto e amico Raffaello Ojetti, dove un tempo c’era il salotto più eccentrico e colto della Roma umbertina. L’amico D’Annunzio così descrive questa casa appena rimessa a posto con alte boiserie: “Tutto l’appartamento è di una così elegante comodità, il buffet così fino e così lauto e così dottamente parigino che gli invitati possono in verità passare tre o quattro ore deliziosissime in una varietà di sensazioni straordinaria”. Da Primoli si possono trovare “un romanziere ricercatissimo, una signorina che voi amate, un signore che voi odiate, l’aristocrazia del sangue e quella dell’ingegno”. Primoli fotografa la società romana come un Proust dotato di teleobiettivo o grandangolo, e senza neanche la fatica di dover fare scalate sociali perché è già messo molto bene: dunque ritratti dei più araldici, tableaux vivants in cui talvolta compare lui stesso; banchetti di sbafatori, tipo Umberto Pizzi; e la Roma umbertina alle prese con i nuovi reali piemontesi, le mega speculazioni edilizie, il nuovo ruolo di capitale. Tutto: funerali (quello di Umberto I), nozze reali (Vittorio Emanuele III con Elena del Montenegro), manifestazioni di piazza (il 1° maggio 1891), visite di sovrani stranieri, apertura della legislatura alla Camera dei deputati (con ampio baldacchino nero sull’entrata di Montecitorio, e carrozze, e corazzieri a cavallo, in epoche pre casta), e pecore, butteri, manifesti abusivi e bancarelle e mendicanti a piazza Navona, in una Roma già in pieno degrado, tipo sito Romafaschifo; e corse di cavalli (alle Capannelle) e cacce alle volpi nelle tenute Grazioli dei futuri padroni di casa del Cav., e cene, banchetti, colazioni, parate, processioni, botteghe. Eleonora Duse e Sarah Bernhardt, massime attrici dell’epoca. Le foto, 9x9, sono appiccicate a dei “cartoni” che costituiscono le pagine del suo album. Sono frutto di passione, forse ossessione: come una Vivian Maier gentilizia, gira con le sue piccole macchine fotografiche seguito da un nugolo di servitori che gli porgono continue lastre. “Strano tipo questo Primoli. E’ amabile, bonaccione, piuttosto distinto. Ha la mania della fotografia”, scrive lo scrittore francese Romain Rolland. “Ha fotografato il Papa in giardino, tutto sbilenco, appoggiato a un bastone. La signora Carnot vista di spalle mentre scende dalla carrozza. L’imperatrice di Germania in Campidoglio”. Dal palazzetto del Lungotevere, dove abitò poi in magica locazione anche Mario Praz, Primoli guardava di fronte ai nuovi Prati di Castello deserti, e alle nuove speculazioni edilizie, le stesse che Emile Zola accusava nel suo “Roma”, quelle in cui i Ludovisi sventrano la villa per cartolarizzare; e pure Leone XIII investe e perde del suo, in una città che nasce col core business del consumo di suolo; ma il conte fotografa tutto; tanti bambini, bambini ricchi e bambini poveri, cerimonie in Vaticano, il Papa che in sedia gestatoria lo vede e si mette in posa, e incidenti come lo scoppio della Polveriera di Monteverde, e tutto è catalogato in questi grandi cartoni suddivisi in categorie: “Mercati”; “Esplorare argomenti”, “Bambini”, “Celebrità”, “Roma che se ne va”. La capitale neonata, forse predestinata al Cafonal, tollerava il suo paparazzo gentilizio. Con macchine celate nel bavero della giacca riprende cardinali che si abbuffano. “Col suo ridicolo apparecchio ha due o tre volte fotografato al buffet i piccoli dolci e la gente che sbafava”, scrive Rolland. Alla capitale neonata farsi foto piace comunque tantissimo. Nel 1889 la meglio società si riunisce nella “Associazione degli amici della fotografia in Roma”, i Colonna, i Gaetani, i Pignatelli, tutti fotografi, in una mania da selfie collettivo. Nella prima mostra dell’associazione, la regina Margherita si trattiene nelle sale per più di un’ora, raccontano le cronache d’epoca. “In società, nei salotti, si sente improvvisamente un clic”, scrive Rolland. “Non c’è niente da fare”, è arrivato Primoli. “Siamo, siete, tutti fotografati. Tout le monde est instantanisé”.
À rebours: altri parenti meno glamour: Napoleone II, l’erede, nato Napoleone Francesco, figlio di N. e di Maria Luigia, viene fatto duca di Reichstadt e Re di Roma – curiosa la mania per Roma di N., che la ritiene “seconda solo a Parigi”, ma non vi metterà mai piede. E neanche lui, che pure ne sarebbe sovrano. Sfortunato, belloccio, molto boccoluto, questo Re di Roma si legherà d’amicizia col conte Prokesh-Osten che gli insegna l’arte della guerra. A differenza del resto della famiglia, Napoleone II in quanto delfino a Roma proprio non ce lo vogliono, e viene esiliato a Vienna, dove morrà di tisi prematuramente. Resta di lui una fermata della metro, funzionante.
E poi lei, Paolina, una lady Diana d’epoca, una perfetta Principessa Triste, ribelle, malmostosa, fa arrabbiare la madre coi suoi ménage e le sue spese. Prima di Camillo Borghese sposa il militare Victor Emanuel Leclerc, vivono a Milano, a Palazzo Serbelloni (sempre ottime location). E lì scandali, amorazzi, sberle, tanto che N. per sopire gli scandali spedisce la coppia a Santo Domingo dove c’è una rivolta da sedare (ma il generale si prende il tifo e lei rimane subito vedova). Consolabile. N. le impone allora il meglio principe romano, che lei forse detesta. Si sposano nel 1803, lei lo cornifica da subito, lui ricambia, lei detesta Roma e i romani, odia anche Torino, dove questo marito, Camillo Borghese, napoleonico della prima ora, dandy, ricchissimo, senza grandi qualità, viene fatto governatore, e la cosa più exciting che capita alla coppia principesca è tenere a battesimo il piccolo Camillo Benso conte di Cavour. Lei scappa a Nizza, poi in Val d’Aosta, si trasferisce a Stupinigi; a Camillo rimane solo la statua scandalosa finita dal Canova nel 1808. Dopo dieci anni di separazione di fatto donna Letizia impone alla figlia la riconciliazione, lei e la sua statua tornano a Roma, ma Paolina non ne vuol sapere di finire accanto al marito nel Palazzo Borghese, si tumula così in una villa allora di campagna – oggi villa Bonaparte, da poco restaurata, ambasciata francese presso la Santa Sede, dalle parti di Porta Pia. Da lì, in mostra, scarpine con la P e sopra la corona imperiale, abiti, un anello destinato a un ennesimo amante, con lo stemma e il motto: “Il mio ardimento viene dal mio ardore”. Muore abbastanza subito e abbastanza male, nel ’25. Maria Letizia sopravvive dunque ai più celebri dei suoi figli, anche a Napoleone che muore nel ’21. Mentre Manzoni butta giù il Cinque Maggio lei scrive dal suo balconcino agli inglesi per riavere le ceneri del figlio; scrive infine al Papa. “La sola consolazione che mi rimane è sapere che il Santissimo padre dimentica il passato per ricordare solo l’affetto che dimostra per tutti i miei”. Ormai cieca, si fa spiegare cosa succede sul Corso dalle governanti (cosa mai doveva succedere). Due volte nella polvere, due volte sull’altare (della Patria, sorgerà di fronte a Palazzo Bonaparte impallando la vista tipo grande nave a Venezia, ma solo cent’anni dopo la sua morte).