Andrea Camilleri (Foto LaPresse)

L'idioletto del Cuntastorie

Carmelo Caruso

Camilleri è riuscito a far parlare e tradurre una lingua nata morta che solo lui ha reso viva

Ha riverniciato la Sicilia che infatti solo nella Vigàta del suo commissario Montalbano non è più “nero su nero”, ma l’isola coloratissima dove anche l’omicidio è un divertimento da raccontare accanto alla pasta con le sarde e i broccoli di Adelina. E dunque, ha vinto Andrea Camilleri che ci ha fatto parlare una lingua che è una sua eccezionale invenzione, non un dialetto ma un “idioletto”, appunto un nuovo idioma che viene già studiato dai linguisti e dai filologi, una lingua nata morta che solo Camilleri ha reso viva. Insomma, il primo errore – dice Salvatore Silvano Nigro, il più sottile dei professori di Letteratura italiana, già docente alla Normale di Pisa e autore di tutti i risvolti di copertina di Camilleri pubblicati da Sellerio – è quello di confondere la lingua dello scrittore con il dialetto della sua regione senza comprendere che l’originalità è invece tutta concentrata nel (nuovo) codice. “Vigàta non esiste e per farla vivere e parlare, Camilleri ha manomesso con abilità il siciliano. Siamo di fronte a un paese immaginario che è cresciuto nel tempo. Si è abitato di uomini, di avvenimenti e insieme a loro sono arrivate nuove parole”. E però, a Milano, oggi il vigatese è orecchiato insieme all’inglese e, forse, è diventato una lingua di cittadinanza. “Certo, anche a Milano tutti sanno che ‘talìa’, grazie a Camilleri, significa “osservare”.

 

Insieme a Nigro cerchiamo così di penetrare nella grammatica e nel lessico di Camilleri che dall’accademia, e non solo, sono stati sempre considerati di consumo, prodotti d’esportazione, un altro pittoresco mediterraneo, ma di successo. Nigro spiega che quello di Camilleri è finora il solo tentativo riuscito in letteratura. “In passato, un poeta lucano, Albino Pierro, di Tursi, ha inventato una lingua tutta sua ma, a differenza di Camilleri, neppure i suoi concittadini la comprendevano e tantomeno la parlavano”. E invece, Camilleri, e non si capisce come, è perfino tradotto all’estero. “In Francia, per tradurlo, si usa il dialetto di Lione”. 

 

“Lo stesso Camilleri ha però guardato indietro e ha attinto dalla lingua della scuola poetica siciliana che non era altro che una koinè di siciliano e arabo”. Nigro ha naturalmente interrogato lo scrittore sulla necessità di questa lingua e Camilleri gli ha sempre risposto che “il siciliano non sarebbe bastato e gli editori non avrebbero mai venduto i miei romanzi”. Camilleri vende e rivende in ogni formato e Nigro stesso che, conosce l’università, dice che in Italia equivale a un delitto. “Nel mondo delle lettere per denigrare uno scrittore si dice che è un letterato. E’ stato accusato di essere un letterato”. Forse voleva dire, in camillerese, “allitterato”? “Voglio dire che si è sempre dimenticato che si è di fronte a un uomo dalla memoria enciclopedica e soprattutto a un uomo che conosce i meccanismi del teatro dove, in passato, ha lavorato”. A Nigro chiediamo ancora se c’è una parola speciale intorno a cui ragionare. “Tra le parole più utilizzate da Camilleri c’è ‘tragediaturi’. Si indica un uomo capace di ordire ogni tipo di tranello. E’ una parola importante perché ci aiuta a capire che questa lingua inventata ha un’origine nobile. ‘Tragediaturi’ appare infatti in Leon Battista Alberti e nella Novella del Grasso Legnaiuolo ed è una parola che amava molto Leonardo Sciascia”.

 

In una conversazione (ma non è più musicale cunversazioni?) insieme a Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Laterza, Camilleri concorda con De Mauro che la parola del dialetto è sempre “incavicchiata alla realtà” e aggiunge che il dialetto rimane “la lingua degli affetti, un fatto intimo, confidenziale, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa. Il dialetto esprime il sentimento di una cosa mentre la lingua il concetto di quella cosa”. Ma lo diciamo ancora. Il siciliano di Camilleri non è il siciliano. “E allora? Forse per questo è meno familiare?”. Non solo non lo è, ma è probabile che sia più croccante della scorza dei cannoli e più calorica della granita di caffè e di panna. Giuseppe Marci ha insegnato Filologia italiana all’Università di Cagliari ed è l’autentico Montalbano. Pochi lo sanno, ma quando Camilleri cercava nelle parole un viso e i suoi sentieri di carne, scoprì improvvisamente di averlo trovato nel volto di questo professore. “E’ come mi ero immaginato Montalbano” ha dichiarato in pubblico. Oggi, Marci è condirettore dei Quaderni Camilleriani e cura il Camilleri Index, in pratica ne cataloga le opere e assembla il dizionario del “Camillerese”. Abbiamo anche un numero ma solo provvisorio: ottomila lemmi. “Se chi mi ha preceduto non lo ha ancora detto, io mi permetto di aggiungere, sommessamente, che nei libri di Camilleri, non solo le parole si possono inventare, ma anche la loro ortografia”. Sta dicendo che la lingua è sua e la costituzione anche? “Proprio così. In una pagina si può leggere ‘abbunnanza’ e alcune pagine dopo ‘abbunanzia’. Alcuni miei colleghi hanno detto: ‘Camilleri fa errori ortografici’. Ma come può fare errori se la lingua è una invenzione sua? In trent’anni questa lingua è mutata anche nell’ortografia. Una cosa si può dire. E’ una lingua che cerca la sonorità, una sua melodia poetica”. Un cantastorie? “Eh no.

 

Il pensiero di Camilleri è chiaro: ‘Io non canto neppure quando mi faccio la barba altrimenti rischio di tagliarmi con la lametta’ ha detto. Togliamo la ‘a’ e mettiamo la ‘u’. Cuntastorie”. La differenza, e ce lo chiarisce sempre Marci, è che il cuntastorie ha il piacere del racconto, pretende di farsi accettare in famiglia, mentre il cantastorie è solitario e malinconico. E poi c’è l’abilità, l’arte di allargare. “Chi ha letto i testi di Camilleri può anche non comprendere che ‘nivura’ è una giornata scura, ma se poi continua a leggere e apprende che piove, grandina, il nero si illumina e il significato si afferra”. Insomma, è vero che tutti hanno trovato in Camilleri l’unico italiano che riesce a risolvere i gialli ma è in questo siciliano esploso che Camilleri deve essere misurato e studiato.

 

Lo dice anche Giulio Ferroni, che non è solo professore di Letteratura italiana alla Sapienza, ma tra gli ultimi a fare della critica letteraria una vertigine e tra i soli che hanno provato a separare la buona scrittura dalla letteratura. “Camilleri non è più uno scrittore ma è appunto ‘il Camilleri’, una lingua standard, consueta, immediatamente parlabile. E’ oggi l’italiano accanto all’italiano”. Ferroni, che non è ruffiano né borioso, pensa che nel paese senza più officine, Camilleri è l’ultima officina letteraria capace di vincere una sfida che neppure Luigi Pirandello è riuscito a vincere. “Il suo dialetto non è mai stato interamente dialetto. Non ha mai spinto nelle sue novelle fino in fondo come ha fatto Camilleri nei suoi romanzi”. La Sicilia di Camilleri non è completamente feroce come quella di Verga, non è neppure problematica come quella di Sciascia. “E’ consumabile per tutti noi. Non ci inquieta e non ci spaventa, ma è fantastica” conclude Ferroni che forse pensa alla Macondo di Gabriel García Márquez, alle utopie, alle fantasticherie. “A Camilleri dobbiamo la felicità dell’impossibile, tanto più in una geografia come quella siciliana. In questi tempi carichi di dubbi è l’unico che non ha mai lasciato dubbi”.