Perché al successo non è dovuta obbedienza
Vendo dunque sono? I milioni di libri di Camilleri e De Crescenzo, i milioni di idee, fatti e voti del Truce, dei grillini, di Putin. Si può restare selettivi senza negarne i significati, e in certi casi la gloria
Vendo, dunque sono. Il compianto Andrea Camilleri ha venduto trenta milioni di libri. Il compianto Luciano De Crescenzo ha venduto 18 milioni di libri. Il Truce e i grillini e Orbán e Putin hanno venduto sul mercato elettorale e dei sondaggi un numero ultramilionario di idee, fatti e voti. Trump grazie alle vendite è in buona posizione per un secondo mandato. Boris Johnson per lo stesso motivo sarà premier a Londra. Il successo è sempre significativo, genera immedesimazione, emozione, produce risultati, e assume a volte il tratto dell’isteria collettiva, dell’indiscutibilità.
Ha ragione Mariarosa Mancuso: il successo non deve essere invidiato, ma capito senza enfasi e senza il sopracciglio alzato (Mariarosa è il contrario dell’enfatico e dello snob). Il punto che mi preme è però un altro: al successo, nel consumo culturale e nel consumo politico, che sono sempre più parenti, non è dovuta obbedienza. E si può restare selettivi senza negarne i significati, e in certi casi la gloria: se un amico mi dice che “Il birraio di Preston” è un buon libro, mi viene la tentazione di comprarlo e leggerlo, se la sapienza culturale convenzionale, ovvero con Franzen l’impollinazione culturale, mi impone la cifra dei trenta milioni di libri come metro di misura, io il trentamilioni più uno non lo faccio. Neanche se me lo dice Radiotre. Se uno mi fa rilevare che dietro ai milioni nazionalpopulisti c’è una lunga serie di ragioni, ci penso il dovuto, ma non rinuncio a nessuno dei miei criteri estetici e politici per questo. Neanche se me lo dicono i liberali salviniani per l’Europa.
Attenzione: una certa forma di idolatria del successo, essere un winner e non un loser o total loser come dice l’Arancione, essere un influencer e avere dei follower a palate, è diventata prassi comune. Tolstoi ebbe un madornale successo, ma finì da predicatore e si ritrova immortale da scrittore, non da influencer, non da campione del botteghino. Non è questione di dimensione del classico, che è una scemenza, senza arrivare a tanto basta l’appoggio su un fondamento solido. Boris è un po’ un cinico farabutto e un po’ uno stilista e un retore, dipende da cosa prevalga infine per giudicarlo. The Donald è una cosuccia televisiva, vecchia bacucca, scappata di mano e trasformata in assoluta e seriale novità, razzismo e trivialità 2.0 e minacciosa e comica baldanza, ma il fondamento manca. Il tennista Andre Agassi fu coinvolto in uno spot all’insegna del motto “L’immagine è tutto”, e se ne ammalò, fece di tutto, dal rutto al parrucchino ai calzoncini rosa, per rimuovere quel tipo di popolarità che oggi è l’assoluto quotidiano. Perse con qualche consapevolezza una sfilza di set e di slam per difendere il titolo di loser, lui che poi ha vinto parecchio. Bel tipo.
I totalitarismi del Novecento sono stati ben altro e ben di più che non un tributo agli idoli del successo, ovvio, ma di quella devozione non sacra si sono nutriti fino alla feccia. Il successo per numeri è l’indispensabile vistoso e persuasivo, ma la faccenda è sempre più complicata di così, salviddio, e credo che i due scrittori appena morti e celebrati come di dovere e di diritto lo sapessero. Anzi, ne sono certo. L’enfasi del successo con le sue obbedienze è comunque, anche per un qualcosa di untuoso e opaco che la circonda, il preliminare necessario di una società illiberale che nel suo inconscio paganesimo non celebra gli individui e la loro singolarità ma il piedistallo in cui li colloca. Vendo, dunque niente, o quasi niente.