Il giallo del poeta
Un diario costruito per non morire. E’ questa la burla della gloria postuma di Eugenio Montale a cui nessuno credeva
“E’ scherzo od è follia / Siffatta profezia. / Ma come fa da ridere / La lor credulità!” “Un ballo in maschera”, Atto I
La gloria postuma è il possibile titolo della suprema prova da esibire con un colpo di scena per risolvere un “giallo” senza soluzione . Figuriamoci l’enigma da risolvere. Ecco il crimine: un libro di poesie pubblicato dopo la morte dell’autore. E che autore. Addirittura un premio Nobel. Si può mettere in dubbio l’opera di un Nobel il cui nome compare in frontespizio di un libro di poesie pubblicate postume, dichiarate un falso? Un delitto di lesa maestà? L’onore del grande poeta va difeso a ogni costo. Deve essere stato vittima di un raggiro. Di qualcuno furibondo di gloria.
Fu allora, al suo tempo, proprio una storiaccia che implicò fior di accademici, letterati di vaglia, poeti e sedicenti tali, giornalisti, gente con le mani in pasta… E poi furono pubblicati anche importanti tomi di sottilissima sapienza filologica che dimostrarono, affermarono, sancirono, accusarono…
Questi fuochi fatui sono riaffiorati qualche giorno fa a seguito d’una grandiosa articolessa che denunciava nuovamente la somma effrazione, insomma il delitto, come se non si fosse ormai capito, carte alla mano, da che parte stia ogni pretesa ragione a proposito dell’archeologica querelle.
Forse è necessario rievocare e riassumere un poco per sommi capi il contendere, insomma gli estremi dell’antico giallo. E va a vedere se poi di giallo si trattò. E chi al fin della tenzone possa essere considerato il classico cuoco cinese.
Si può mettere in dubbio l’opera di un Nobel il cui nome compare in frontespizio di un libro di poesie pubblicate postume?
In principio, si riassume un poco pro aficionados, tanti anni fa, ormai proprio tanti, venne annunciato un lascito di versi estremi di Eugenio Montale. Un visibilio tra gli adoratori del ciò che non siano e ciò che non vogliamo. Si disse, secondo precise indicazioni dell’autore – già da tempo se ne stava pacificato nel suo loculo di San Felice a Ema – che un fascetto di versi suoi sarebbe stato pubblicato ad annuale cadenza: sei poesie l’anno. Un periodico rinverdimento di gloria. Incaricata di curarne l’edizione, una “poetessa” assai intrinseca con l’ “ultimo” Montale. Nonostante l’assiduità con il sommo, l’elegante e cospicua signora, non aveva fatto tempo, per ragioni storiche, a trovare un posto sull’omnibus-harem delle “immortali muse” assieme ad Arletta, Esterina, Gerti, Clizia, Dora Marcus, Mosca, Volpe… La sorte aveva riservato per lei ben altra ventura. Postuma, ovviamente, di Montale. E fu allora che la signora dalla pelle fine e dai capelli di fiamma, fatale poetessa di suo del secolo Duemila, si accontentò, se è poco, di trasfigurarsi in esecutore testamentario. Fors’anche, si fa per dire, in controfigura poetica. Magari un alter ego. E della propria “trasfigurazione” (hélas!, e ovviamente di parte) ne esibì genesi e fortune, a spiega e svelamento, in un tanto curioso quanto autocelebratorio libretto: Annalisa Cima, “Le Occasioni del ‘Diario postumo’”. Ma procediamo secondo calendario.
Nel febbraio 1996, anno del primo centenario della nascita di Montale, con perfetto tempismo, le scandite puntate degli annuali versi, che già erano state pubblicate in eleganti plaquette, vennero riunite nei “Classici dello Specchio”, in edizione definitiva sotto il ferale titolo Diario postumo, a cura di Annalisa Cima, prefazione di Angelo Marchese (da Montale medesimo stimato critico), testo e apparato critico di Rosanna Bettarini (filologo prediletto da Contini e con lui già curatore dell’edizione classica e definitiva della poesia di Montale, L’opera in versi ). Fior di referenze e medagliere ineccepibile. Però…
L’anno dopo, nell’estate del 1997, dopo essersi covata sotto illusoriamente pacifiche ceneri, esplose la polemica. Per mesi nutrita di chiacchiericcio sotterraneo. Il tremblor de tierra si rese pubblico sulle gazzette, sfiorando le aule dei tribunali. Il contendere null’altro che la veridicità del “nuovo” volume di poesie montaliane. Uscito in affidabilità a posteri. Inevitabilmente intitolato ovviamente “Diario postumo”. Attenzione! Memento a “La gloria postuma”.
Accecati da furie filologiche e grafologiche, perfino i suoi fedelissimi negarono il garbuglio architettato da Montale
Si erano allora appena chiuse le celebrazioni centenarie dell’autore. Con apogeo il 12 ottobre 1996 al Teatro Carlo Felice di Genova dove il pubere Eugenio, dal loggione, aveva sognato, per sé, le glorie del melodramma. Magari una carriera da baritono. Spentesi le luci, obliterato il francobollo commemorativo, si prevedeva, per diffusa opinione, il relax. Un ritorno alla pacata contemplazione dell’opera del vecchio poeta. Insomma, sfocatesi da giornali e riviste le glorie riflesse da orfani, vedovi e testimoni, più o meno probabili, nutriti di assatanate voglie di mostrare quanto il cuore del celebrato fosse vicino al loro, il ritorno al silenzio e alla lettura di un’opera che ha segnato fortemente l’animo di generazioni, era auspicabile. E invece no. Per timore che l’attenzione si afflosciasse, voilà il “lascito”. Partorito dall’incrollabile, “perfida casualità”. Con il sospetto che fosse stato orchestrato con luciferina premeditazione. Ma da chi? Dal cuoco cinese? Allora chi mai si sognò d’andare a indagare “La gloria postuma”?
Tra le vocazioni pietose e forse piacevoli dei vivi, per continuare a sentirsi tali, vi è quella di trastullare le ombre. Perché nell’aldilà, potendo, qualcuno possa divertirsi gettando uno sguardo sull’aldiqua. D’altra parte in circostanze artistiche e non, per comprendere il senso genuino delle liti tra i vivi, bisogna sempre ricorrere ai morti. A quella stupenda sognata materia di cui immaginiamo siano fatti i trapassati. E’ l’alone dei defunti che persiste, sotto forma di memoria. Gli shining del quotidiano. E la letteratura, in questi ambiti, riesce a giocare degli imprevedibili scherzi. E’ fatta della stessa natura dei sogni, pur affondando voluttuosamente nel reale.
In quella furibonda estate 1997, i critici, investigatori dal naso fino, dediti a svitare emistichi, nella loro meccanica concentrazione, si erano depistati da loro medesimi. Non riconobbero i trepidanti e sublimi aloni d’oltretomba, i soprassalti , gli ectoplasmi, le visioni da dagherrotipo sfuocato. Si erano scordati che l’uomo-letterario ambisce all’immortalità. Che resti una traccia, una briciola, a testimoniare il proprio passaggio. Perché anch’io sia stato…
Si disse, secondo precise indicazioni dell’autore, che un fascetto di versi sarebbe stato pubblicato ad annuale cadenza
Negli ultimi anni suoi, il vecchio Montale, rimuginando sull’aldilà, dopo una vita spesa a corteggiare l’inestricabile ragnatela dell’ignoto, con l’ansia di trovare un varco per sbirciare in anticipo verso l’ineffabile, viveva, sia pur onusto di onori, in una sorta di cupa revanche che s’espresse in un catastrofismo siderale. E anche fonte di un’infinita aneddotica. Forse convinto che con lui si fosse compiuta una parabola creativa, si indusse, sul crinale estremo dell’esistenza, a ironizzare addirittura sulla propria vocazione poetica. Il “genere poesia” era ormai inutile? Un luogo di ricerca dell’assurdo. E che l’opera sua non aprisse nuove strade, ma chiudesse un ciclo. Lui, l’ultimo poeta dell’umanità. Che poi sarebbe l’orgoglio di un letterato, capace di portare la sua poesia all’apogeo, con l’inconfessata ambizione di non lasciare epigoni ed eredi. Con lui si chiudeva l’epoca. Il suo tempo un’era geologica. E fu forse questa ragione che lo portò all’osservazione maniacale di un quotidiano sfatto e rumentoso tale al nostro, gloriosamente “cantato” nel suo Satura. Un quotidiano da cronaca minore pur nell’esagerazione del tutto. Una “saturazione” di dentifrici, calzascarpe, spazzini in sciopero e radio gracidanti nel silenzio delle agostane deserte città. E avendo una più che giustificata e alta considerazione di se stesso, si consentì la demolizione dei miti poetici che aveva edificato.
Poi, da quel non luogo di imperterrita, ineffabile e impercepibile serenità che si abita una volta superata l’alta soglia, arrivarono i lasciti postumi. Carte recapitate da un aldilà dentro una bottiglia, stracquata da un naufragio siderale. Le dichiarazioni per anni tenute in serbo. Omaggio postumo agli esegeti di un’opera poetica ipercelebrata: uomini dal giudizio convenzionale, sedicenti intenditori, speculatori della parola… che esultano con l’omologare.
Una liberazione post estrema. Un sospiro dopo il ronzio subito (e orchestrato da lui) per anni. Montale, conscio della propria grandezza, presentìva l’orrore del dopo. Il tempo susseguente alla morte. Il Purgatorio. Quello stato a mezzo, somigliante a un limbo atemporale, attesa di una possibile riesumazione. Terrore dei letterati. Una stasi in cui i posteri parlano del dimenticato senza citarlo. Forse nessuno è più spaventato da quello stato come il letterato che in vita ha accumulato fama e onori. Manca il nutrimento essenziale all’opera: il “se medesimo” che la organizzi. Che gli dia senso con la propria vita. E’ noto quanto l’“opera” si nutra dell’abilità autopromozionale del letterato capace di orchestrarne il successo. Vi saranno poi pietosi riscopritori. Ma quando?
Già nel 1963, il 29 settembre, Montale aveva reso pubblico il suo “imbarazzo” attraverso un articolo – eccola alfine: “La gloria postuma” – pubblicato sul Corriere della Sera. Vagheggiava, per un poeta trascurato, dopo la morte, l’attenzione di eredi cui fosse affidato il compito di fornire “di secolo in secolo” (magari di anno in anno) l’opera “rinverdita” del poeta. Magari poesie predisposte in precedenza e affidate per pubblicarle a un devoto cireneo: La gloria postuma di un Diario postumo. “E solo l’eccellenza del suo mestiere – concludeva – potrebbe rendere accessibile il lauro della gloria ad ogni poeta cocciutamente deciso a durare oltre la morte”. Dunque…
Nel 1997 si era acceso il “cavalleresco contrasto” sull’autenticità di “quei” versi suppostamente lasciati da Montale in eredità affinché fossero resi noti ad annuale cadenza. Si discusse su un poeta che aveva nutrito di astigmatismo psicologico legioni di lettori. Immolando amara incertezza sull’altare del mistero. E così, dell’“epopea postuma” ognuno si fece un’idea. Molti l’espressero secondo sensibilità, punto di vista e tornaconto. Ma cosa poteva essere successo?
Sul Corriere vagheggiava, per un poeta trascurato, dopo la morte, l’attenzione di eredi con il compito di fornire l’opera “rinverdita”
Nella sua tarda età il poeta si era stretto d’amicizia poetica con una giovane e piacente signora. Con i suoi visoni blu, i capelli fulvissimi come le fosse scappato l’henné, recava gioia a un vecchio signore costretto a trattenersi con barbogi della variante, cacciatori di forfore poetiche sotto forma di micromanoscritti. Devoti. Aspiranti a vivere a sprazzi, alla luce del vate. Prefigurandosi loro già nella schiera eletta di futuri testimoni, nei convegni e sui giornali. Attendibilissimi corifei. Insomma nuotare nel veritabile aneddoto. Considerato poi che Montale, tra una sigaretta che si consumava tra le dita e un gorgoglio baritonale, ne era un cospicuo dispensatore. Con esiti alla carta vetrata. Mentre si svolgeva il teatrino di visite a casa di Montale in via Bigli, con la processione degli omaggianti, il rimembrar di tempi andati e continue richieste al poeta su che cosa avesse inteso dire in un antico verso, fu forse allora, gonfiando le guance di sconsolata stufaggine, che Montale meditò il gesto letterario sommo.
Ingranando la marcia della sua naturale ironia, maturata in sarcasmo, il senatore Eugenio Montale trovò se medesimo in un “pastiche d’antan”, un “recitativo”, lucidamente affiorato alla sua mente. Il teatrino privato di un poeta da affidare a fogliettini e magari a un registratore orchestrato dalla devota signora dai capelli superossi. Alludendo maliziosamente a rendere poi pubblico “l’amusement”, con rigorose indicazione a pubblicare sei poesie a cadenza annuale. Poesie apocrife versus autentiche?
Poi Montale superò l’alta soglia. E la devota compì l’opera. Cercò di “presentare” i versi nella maniera “più scientifica”, magari con certe imitazioni della grafia per rendere più “oggettivo e credibile” lo scherzo estremo del sommo. L’eccesso di zelo di lei, per rendere più reale il reale, avviò verso il naufragio un sublime gioco letterario. Volendo assimilarsi alla grandezza della burla, per non essere confinata al ruolo di spettatrice, mutare in alter ego del grande e sgocciolare un frammento di luce riflessa, la poetessa finì coll’impiastrarsi in un guazzabuglio di “autografi”, “testamenti” e “buste”, corrompendo una messa in scena d’autore, a modo suo esemplare. Peccato.
In tanta maliziosa premeditazione una cosa Montale non previde. Se la intuì, dovette rallegrarsene. Ghignando. Antivedendo cioè di venir sbugiardato dai fedelissimi, naturalmente in difesa della sua onorabilità. Negato da coloro che conoscevano perfettamente le pieghe maliziose del suo carattere. E magari censurato l’ambigua autenticità dei “depistanti” versi perché tenuti all’oscuro della burla. Accecati da furie filologiche e grafologiche, negarono il garbuglio architettato da Montale: predisporre la propria apparizione dopo la morte sotto le spoglie di versi “selvaggi” era un gesto che nemmeno la più spericolata avanguardia si sarebbe mai sognata di mettere in atto. L’uomo degli “ossi di seppia” confermava, con una bagarre postuma, il proprio totale disdegno per la “società” delle lettere. La gherminella svelata alla fine del Falstaff: “Tutto nel mondo è burla. / L’uom è nato burlone, / la fede in cor gli ciurla, / gli ciurla la ragione. / Tutti gabbati!”. Il baritono mancato si era preso la rivincita sull’equivoco palcoscenico della vita.
4 settembre 1997. Mattinata splendida. Ludica la luce. La polemica sul Diario postumo infuria. Sotto i portici dell’Accademia, prospicienti piazza De Ferrari, a Genova, incontro Paolo Montale, tra i nipoti il più somigliante all’illustre zio. E’ divertito da quanto sta succedendo. Con semplicità, ironizzando sulla propria poca perspicacia, mi dice. “Adesso capisco il senso di quanto un giorno lo zio mi confidò: "Vedrai che casino scoppierà dopo la mia morte”.