La scomparsa del bello
L’irritante dogma dell’indifferenza estetica condiziona il mercato dell’arte, che si è piegato al business, agli influencer e alle avanguardie che diventano arte del sacrilegio. Meglio tenersi alla larga
Oh, quanto si vorrebbe esser capaci, aver la forza di star seduti in penombra nella bergère, con o senza, tra le mani una coppa di champagne ed osservare immobili ed atterriti l’orrore di quella cena artistica per soli artisti nella Gentzgasse in casa Auresberger a Vienna inchiodati proprio come nel racconto tagliente di Thomas Bernhard, quel suo feroce Holzfällen per tentare di imparare a vibrare anche noi distruttori colpi d’ascia a seguito di un’acuta Erregung, un’irritazione insomma. Son le stesse Irritazioni di cui scrive Gillo Dorfles nel suo libro omonimo quelle che lo stomacano e disturbano e sono – tra le altre amenità – quei cerimoniali vuoti e salottieri di cui si nutre e prospera l’Artworld.
Conviene intanto trascurare le piccole irritazioni parrocchiali, quelle fatte di accuse da critico a critico per essere magari stato definito cameriere del potere o le vecchie ruggini fra canuti poveristi e svaniti transavanguardisti, tutta roba da trasferire all’ufficio oggetti smarriti. È proprio Dorfles a irritarsi non poco a proposito di mode culturali, tema quanto mai attuale, quando lo considera un fenomeno ambiguo e controverso.
Non basta – dice – continuare a discutere di industria culturale e dichiararsi pro o contro i mass media circa la presenza di opere high and low brow e rinverdire l’antica ma pur sempre attuale definizione di midcult, quella cultura delle mezze calzette che per quanto imperante risulta – in fondo – risaputa e irrilevante.
Lontani dalla posizione elitaria della cultura e della sua stabilità e durevolezza si affonda in una palude di sottocultura
È altrettanto ovvio – dice – che quella che si definisce come industria culturale propenda visivamente più verso l’industria che verso la cultura ma quello che davvero gli pare allarmante è piuttosto l’adeguamento continuo nel voler essere comunque alla moda o di moda disprezzando – considerandoli orpelli inutili – i contenuti autentici dei progetti culturali vecchi e nuovi.
Spirito ribelle Dorfles si butta sul lato opposto di quelli che per moda son tutto Heidegger e mai Wittgenstein, Rorty piuttosto che Ricœur, gli pare meglio conoscere a fondo il Flauto Magico che osannare l’ultimo stentato Stockhausen (un tempo amato). Lontani dalla posizione elitaria della cultura e della sua stabilità e durevolezza si affonda in una palude di sottocultura fatta di avvicendamenti fulminei di bestseller letterari semi stagionali o di opere d’arte il cui valore sta quasi soltanto nel fastidioso turbinio dei prezzi arbitrari e per lo più fittizi.
Contrario anche all’idea di Pietro Citati che presume i giovani attenti alle buone letture, quando è ben noto che i giovani in gran quantità sono invece conformisti più che mai. Difficile parlare di vera cultura diffusa, per Dorfles l’intellettuale ha davanti a sé soltanto due strade praticabili: esser snob o démodé, scelta che sarà sempre migliore di quella di essere al tempo stesso snob e démodé dell’Incultura.
La nostalgia delle qualità scomparse nei musei che non somigliano più a niente, “mucchi di macerie in balìa delle lottizzazioni”
Mario Perniola non è meno irritato all’idea che l’arte possa esimersi dalla teoria, suggerendo – con non poca energia – ai critici d’arte di limitarsi a essere portavoce di semplice cronaca e di promozione pubblicitaria per gli artisti scelti senza piccarsi d’intervenire oltre, dal momento che faticano non poco, in questioni d’estetica o persino di poetica se non di storia dell’arte.
È ancora Walter Benjamin il punto cardinale per interrogarsi sul valore della teoria nelle arti plastiche. La sempre vivace contrapposizione tra l’idea che l’opera d’arte fondi il suo valore sull’aura che indica poi la distanza dal fruitore verso un’opera unica e il “regime disincantato inaugurato dalla riproduzione tecnica”, regime in cui la teoria non può tornare indietro verso l’aura ma nello stesso tempo non può ammettere che sia soltanto il gusto del pubblico o del mercato a decidere cos’è o cosa non è arte.
La contrapposizione tra i due regimi aura-riproduzione tecnica danno vita in Perniola a un terzo “regime dell’arte e dell’esperienza estetica” definito proprio come già lo proponeva Benjamin il Sex appeal dell’inorganico. Ecco appunto ancora il trionfo delle teorie, una terza dimensione per l’arte contemporanea che non sarebbe “né religiosa in senso tradizionale né tecnologica in senso funzionale” ma che può includere tanto la patologia dell’esperienza religiosa quanto l’immaginazione tecnologica come animazione del non vivente.
Opere d’arte “brutte o sciatte o insensate o quantomeno un’arte che si crede autorizzata a esser brutta perché si reputa intelligente”
La scomparsa invece di teorie e teorici lascia – mi pare – in Perniola la nostalgia per la riflessione sul paradigma contemporaneo dell’arte e in particolare per la filosofia che all’arte vorrebbe essere più prossima per “… l’unicità, l’irriducibilità, l’originalità la trasgressione dei canoni su cui si regge il mondo dell’arte” che invece fonda da tempo i suoi valori su dati sovente bassamente economici.
Le irritazioni in Jean Clair sono tante, continue e profonde, la capacità di trasmissione del disappunto frutto dell’indagine dotta non teme il pericolo di trovarci di fronte a un laudator temporis acti ma producono piuttosto lacerazioni visibili in chi, nauseato dalle dense cortine fumogene del pressapochismo critico, sappia avventurarsi nelle sue analisi ampie e à bout de souffle.
Da un versante affine a quello di Mario Perniola Clair dichiara senza mezze misure che: “La discesa della high culture alla low culture è, nella cultura occidentale, una discesa agli inferi”. Si rifà intanto a una mostra cardine sul tema quell’High and Low Culture, Modern Art and Popular Culture tenutasi al Moma a New York nel 1990. Quella mostra ad opera di Kirk Varnadoe intendeva contrapporre (confonderle?) la cultura classica, colta, elitaria e la cultura popolare come graffiti, fumetti film di serie B, musica Pop. Clair ci ricorda che cultura è in fondo una declinazione indebolita del culto nel citare Thomas Mann che fa dire al suo Mefisto: “… da quando la cultura si è separata dal culto per farsi culto essa stessa è solo uno scarto”.
Ancora Walter Benjamin e a quella riflessione che legava indissolubilmente l’aura dell’opera d’arte a una certa sacralità non riproducibile e non trasferibile si ha la nostalgia delle qualità scomparse all’interno di musei che non somigliano più a niente, “mucchi di macerie in balia delle lottizzazioni”. Musei come raccolta di oggetti accatastati lontani dal senso originale. Già Paul Valéry a proposito di Musei parlava di: “… stanchezza … barbarie … disumanità, incoerenza”.
E poi che forma dare oggi a un museo: “… stazione, sala dei macchinari, deambulatorio, sala dei passi perduti, refettorio o bunker di cemento dove impilare le opere come allo Schaulager di Basilea, aspettando che se ne decuplichi il valore commerciale?”.
Dentro a questi patafisici edifici si raccolgono oggetti eterogenei in una deriva d’illeggibilità e d’accecamento che s’inchina alla nuova barbarie postmoderna in cui “Tutti sono artisti ed anche Tutto è Arte”! Quella che per Baudelaire era una vera questione di culto pare senza appello scaduta nella superficialità del culturale.
Sul dogma irritante dell’indifferenza estetica e della conseguente sparizione della bellezza con grande aplomb e la solita ironia critica si batte Maurizio Ferraris nel ricordare che quando ci si accinge a scrivere un saggio di estetica sarà bene sapere che si sta parlando quasi soltanto di un’esperienza concettuale in cui “la bellezza è un fossile fuori luogo!”. Già Jean Clair ricordava che in un’epoca della desacralizzazione di lontana provenienza Dada e Surrealista con gli stanchi epigoni, da Chapman a Cattelan a Hirst e da tutti gli altri, epigoni degli epigoni, salta agli occhi la sparizione dell’effetto avanguardia e si materializza soltanto una sorta di innocua quanto fastidiosa arte del sacrilegio.
Protetti dalla penombra nella bergère casalinga non ha quasi senso farsi irritare dalla pur poco frequentabile atmosfera
Nasce una profonda contraddizione per un’epoca in cui abbiamo sicuramente gli uomini e le donne più belle di sempre, la danza non è mai stata tanto affascinante con corpi scultorei tutto sport, dieta e mestiere, un’epoca di cibi sceltissimi, vini della più alta qualità si possa immaginare. È viva persino una raffinatissima musica sacra (Castagnoli), il canto lirico con vette di perfezione mai raggiunte mentre abbiamo per contro opere d’arte “brutte o sciatte o insensate o quantomeno un’arte che si crede autorizzata ad esser brutta perché si reputa intelligente”. Ricorda Ferraris che dal 1993 esiste a Boston il MOBA (Museum of Bad Arts), un museo che ha le sue esposizioni, i suoi programmi culturali e i suoi progetti per la diffusione del brutto. Indifferenza estetica che arriva da lontano, forse dal Romanticismo, da Hegel con il predominio del contenuto sulla forma. Si può davvero far fatica a trovare le ragioni oggettive che segnino differenze vere e profonde tra le opere ospitate al MOBA e quelle che troneggiano gloriose tra la generale muta ammirazione in tutti i Moma, Moca, Madre, Mambo o Macba del mondo. Per Ferraris il dilemma non sta tanto e soltanto nell’idea che qualsiasi cosa possa essere un’opera d’arte ma che quella cosa scelta possa impunemente esser brutta o persino repellente. Padre della mai scritta teoria dell’indifferenza estetica sarà ancora e sempre il diabolico e beffardo Duchamp nel metter in pratica l’idea che la vera bellezza sta (forse) proprio e solo nel concetto.
Allora “mentre l’artista dissacra (almeno in apparenza) il fruitore consacra”. È cioè proprio lui a fornire a quell’arte una valenza positiva. Se allora – come si diceva – con la sua riproducibilità tecnica l’arte ha perso la sua aura che gli proveniva dal fatto di essere unica, quell’aura risulta in pratica restituita come per incanto dalla fede dei fruitori. La scomparsa della bellezza va a braccetto con l’estinzione di maestri e maestrie ma ancora più grave pare la totale scomparsa anche del tempo di riflessione.
Lo racconta con non poca irritazione il filosofo Fabio Merlini. In anni in cui si vive una sorta di fantasmagoria della merce e dell’innovazione che sposa anche il mito dell’accumulazione illimitata e quella che immagina il profitto capace di poter crescere senza fine, si vive attoniti un progetto di modernizzazione ininterrotto dove il presente sembra l’unico orizzonte disponibile e l’immediatezza il tempo unico di questa costellazione. Crea ansia il sentimento che evidenzia il declino della capacità di raccogliersi in un centro ed è sostanza che alimenta le tante società distratte.
Sarà pur vero, a seguire Ferraris, che la bellezza transvalutata si sia trasferita agli oggetti d’uso e al loro design perfetto e levigato ma è proprio qui che si brucia il tempo di apparizione, l’uso e il consumo frenetico degli oggetti stessi. L’invocazione alla sostituzione rapida, alla tirannia di una moda perenne che tormenta la creazione artistica priva dei tempi di riflessione produce una sorta di obsolescenza istantanea che genera una consapevolezza tinta di malinconia. Tempi di riflessione e teorie indispensabili perché come scrive Montaigne “l’anima necessita di una guida che la circoscriva per non disperdersi”.
Priva di riflessione e progetti la cultura estetica genera – senza moralismi di sorta – irritazione fatta di malumore intellettuale in Mario Vargas Llosa quando parla della pochezza e superficialità di molte “bravate” artistiche che con “la complicità delle mafie che controllano il mercato dell’arte ed i critici conniventi coronano falsi prestigi che nascondono la pochezza ed il proprio vuoto”.
Ed è questo processo di proliferazione esasperata dell’arte e di valori fittizi che corrisponde in Jean Baudrillard al processo inverso che è poi quello della sparizione dell’arte: “Più ci sono valori estetici sul mercato meno c’è possibilità di giudizio (e di piacere) estetico”. La proliferazione di un’arte incalzante e assoluta ci avvia davvero verso la sua marginalità, verso il gradozero “quello del suo vanishing point e della sua simulazione assoluta”.
Per quanto ci può riguardare posso dire che protetti dalla penombra nella bergère casalinga non ha quasi senso farsi irritare dalla pur poco frequentabile atmosfera fatta – tra altri orrori – di madame e patronesse delle arti belle o dal chiacchiericcio di funzionari di banche prestati all’arte, dal vacuo atteggiarsi di effimere genialità tutta pochezza e umiltà intellettuale che – farci caso – sposa in genere presunzioni extralarge.
Per non saper più sfuggire ai guasti della cena artistica conviene osservare dalla distanza la selva di contraddizioni del far arte per tentare di salvarsi almeno in solitudine. La voglia c’è di fuggire come Thomas Bernhard e correre senza sapere dove e quando fermarsi per ragionate e magari scrivere “subito subito e immediatamente e subito subito prima che sia troppo tardi”.