Bioy Casares e J.L.Borges sulla rambla di Mar del Plata insieme a Victoria

Un romanzo di copertura

Nadia Terranova

Lei era Silvina Ocampo, lui Bioy Casares. Con Luis Borges formarono uno straordinario triangolo letterario e hanno scritto un libro dentro il quale hanno nascosto cinquant’anni d’amore, odio e reciproca infedeltà

Quasi ogni estate, alla fine della stagione, Silvina Ocampo porta il marito Adolfo Bioy Casares a villeggiare a Mar del Plata, sull’Oceano Atlantico, in una delle bizzarre case di proprietà della sua eccentrica e ricchissima famiglia. E’ lì che a metà degli anni Quaranta scrivono insieme Chi ama, odia, oggi pubblicato da Sur nella traduzione e con la postfazione di Francesca Lazzarato, stampato per la prima volta presso la casa editrice argentina Emecé nella collana poliziesca El Séptimo Círculo, che nel nome si ispirava al girone dei violenti della Divina commedia e negli intenti al Collins Crime Club di Londra, una collana voluta e diretta da Bioy Casares e da Jorge Luis Borges. Nel 1946, quando esce Chi ama, odia, Adolfo, “Adolfito”, ha trentadue anni e Silvina quarantatré; Adolfo è grafomane, Silvina immaginifica; Adolfo dice e dirà per sempre di essere grato alla moglie che lo ha esortato a fare lo scrittore, Silvina da ragazza ha studiato disegno in Europa con De Chirico ed è scappata via dal maestro per sottrarsi al destino di dipingere come lui; Adolfo ha pubblicato libri importanti e si diverte insieme a Borges a produrre brevi polizieschi sotto pseudonimo (Honorio Bustos Domecq, e poi Benito Suárez Lynch, inventati sommando cognomi dalle famiglie di entrambi), Silvina, a parte due sillogi di poesia, ha pubblicato soltanto una raccolta di racconti. Sono sposati da sei anni, da un’altra estate, quella del 1940, testimone di nozze: Borges.

 

Nel 1946, quando esce “Chi ama, odia”, Adolfito ha trentadue anni e Silvina quarantatré; Adolfo è grafomane, Silvina immaginifica

Con lui hanno condiviso il lavoro a un altro libro, miliare, l’Antologia della letteratura fantastica, un’idea nata nel 1937 discutendo intorno a cosa dovesse o meno rappresentare un volume contenente racconti appartenenti a quel genere. In base a quale criterio si doveva operare la scelta? La risposta era stata istintiva: non bisognava seguire criteri geografici né storici, ma solo selezionare quelli che, a detta dei tre curatori, erano i migliori trascendendo le tradizioni e l’origine, perfino gli autori. Sarebbero stati presentati in ordine alfabetico, a marcare la non appartenenza ad altre categorie rispetto a quella della pura bellezza. Intento semplice, ma risultato travagliato e mutevole: a Natale del 1940 l’Antologia fantastica esce con i soli racconti scelti da Borges e una prefazione di Bioy Casares che ne introduce l’aspetto edonistico, estetico. Nel 1965 viene presentata una nuova edizione, che comprende anche testi selezionati dagli altri due e un nuovo scritto di Adolfito che accenna all’intrecciarsi dei ragionamenti intorno al libro con le vicende personali di tutti e tre. Nel 1980, quando Borges e Bioy Casares sono ormai un duo letterario, firmano insieme il prologo alla traduzione italiana e si concedono un’affermazione universale: “Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica”. La storia di quell’antologia si può allora rileggere come la storia di un confronto triangolare lungo una vita (“un torneo d’amicizia”, lo definisce Ernesto Franco nell’introduzione all’edizione Einaudi), e insieme una dichiarazione di poetica: l’esito narrativo ha la meglio sul nome celebre, la trama sulla psicologia, l’immaginazione sull’ossessione, il tradimento della regola sulla regola stessa, ma a patto di conoscerla a menadito (“è probabile che la Poetica e la Retorica di Aristotele non siano realizzabili, ma le leggi esistono: scrivere è, permanentemente, scoprirle o fallirle”, precisa Bioy Casares).

 

“E’ un miracolo che si possa scrivere con un altro, e i miracoli non si ripetono”. Il ripensamento di lui, dopo la morte di lei

Se la letteratura fantastica è il regno dentro il quale il trio si muove insieme, compatto, in quella poliziesca si disarticola a coppie: Borges e Bioy Casares, Bioy Casares e Ocampo. I primi due, si diceva, creano la collana El Séptimo Círculo, la riempiono di loro creature e nel 1943 pubblicano un’antologia di letteratura poliziesca (con dentro anche un racconto di Ocampo). Nel mezzo, dopo un lavoro fittissimo e rapidissimo, arriva anche il romanzo di Silvina e Adolfito. Se l’Antologia della letteratura fantastica è l’autoritratto di un’amicizia, Chi ama, odia lo è di un matrimonio – che non può prescindere dal dialogo con un fantasma, quello del testimone di nozze, ed ecco che il triangolo riappare, anche se uno dei tre lati è tratteggiato con l’inchiostro simpatico, invisibile e per ciò inscalfibile. Anche le regole del poliziesco, come quelle del fantastico, sono state scritte da Borges, ancora una volta dietro la stesura dei romanzi ci sono un intento politico e un avversario da colpire: se la decisione di occuparsi del fantastico era una risposta polemica al dilagare del romanzo psicologico, il poliziesco classico amato dal trio aveva come nemico, oltre ai libri francesi, l’hard boiled nordamericano accusato di non avere profondità investigativa e di restare appiattito su dosi esagerate di sesso e crudezza. Nella collana El Séptimo Círculo, a cui in Argentina si sarebbe contrapposta la Serie Negra diretta da Ricardo Piglia che invece sposava la moda statunitense, sentimenti e sentimentalismo devono restare fuori dal genere, insieme a immagini di facile presa ed eccessiva crudezza; la trama deve concentrarsi sulla risoluzione intellettuale del caso e la soluzione deve provocare meraviglia, non choc. Nel 1933, sulla rivista Hoy Argentìna, Borges aveva dettato le regole del poliziesco, esplicitando il riferimento alla tradizione classica e la migliore versatilità del racconto rispetto al romanzo. Chi ama, odia, trentunesimo volume di El Séptimo Círculo, segue le sue indicazioni. Il detective improvvisato è un medico omeopata, Humberto Huberman, appassionato di cinema, che usa le vacanze per concludere l’adattamento per il grande schermo del Satyricon di Petronio. Il romanzo si svolge tutto a Bosque del Mar, piccola località marina, nello strampalato e fatiscente Hotel Central intorno al quale si assiepa la piccola, variegata fauna locale e dei villeggianti, e si svolge durante una tempesta di sabbia che isola temporaneamente la comunità. E’ in quel luogo e in quel tempo che una traduttrice di romanzi gialli viene ritrovata morta, e Huberman, impigliato suo malgrado nella vicenda, avrà il compito di ricostruire i fatti in vece della polizia locale. I riferimenti sono limpidi: il giallo inglese con il delitto a porte chiuse (Agata Christie), la condizione iperletteraria di cattività ovvero di solitudine forzata che genera storie (il Decamerone), più una sovrabbondanza di citazioni e riferimenti più o meno nascosti disseminati in tutto il testo (“sono un letterato, un lettore e, come capita spesso agli uomini del mio genere, ho confuso la realtà con un libro”, dice di sé e dei suoi numerosi abbagli il medico protagonista). Il risultato è un romanzo formale, a tratti umoristico, intelligente e volutamente freddo – in cui le quattro mani di Adolfito e Silvina sono una mano sola, al servizio della battaglia borgesiana.

 

“Bisognerebbe dire che tutta la letteratura è fantastica”, scrivono Borges e Bioy Casares nel prologo alla traduzione italiana dell’antologia

Dietro questo romanzo-copertura, o romanzo-copertina, c’è il mistero, appassionante e romantico, del loro amore. Adolfito, figlio unico di una famiglia che lo voleva avvocato e proprietario terriero, ha diciannove anni quando conosce Silvina, più grande di lui, ultima di sei sorelle e di sangue aristocratico. Tutti e due sono colti, cosmopoliti, ricchi, disprezzano la mondanità e si sentono a loro agio nella letteratura, se ne fregano delle convenzioni: è fatale che si innamorino alla follia. Vanno a vivere insieme scandalosamente nella tenuta di famiglia di lui per sposarsi solo in seguito, senza troppe cerimonie. Lui è di una bellezza canonica, da attore piacione, lei viene considerata la bruttina di casa per l’irregolarità di lineamenti troppo grandi, in realtà pieni di fascino; lui ama il tennis, il cinema e le donne, e anche lei ama le donne: sulla bisessualità di Silvina si costruisce la leggenda secondo la quale Adolfito l’avrebbe sposata per proteggere l’onore della madre, con cui lei aveva una relazione. Il loro amore dura tutta la vita e, come tutti i grandi amori, si nutre di perversa dipendenza reciproca e incorpora le infedeltà di entrambi, tutte le amanti di Adolfito non possono impedirgli di tornare a casa la sera, ogni sera, e quando ha una figlia da una di loro la bambina viene adottata dalla coppia e tirata su come fosse di loro proprietà, anche biologica. Come tutti i grandi amori, vive oltre la morte e oltre la malattia: Silvina muore nel 1993 di Alzheimer, dopo aver trascorso gli ultimi anni in una totale assenza di memoria (chiedeva che le leggessero ad alta voce romanzi e, incantata dalla bellezza di uno di loro, chiese stupita chi fosse l’autore: era lei), Adolfito le sopravvive di sei anni e muore nel 1999; entrambi sono sepolti nel cimitero della Recoleta, a Buenos Aires. Chi ama, odia resta l’unico libro che hanno scritto insieme, in poco più di un mese, con ispirata frenesia: “Riconoscevamo subito la frase migliore per il testo e l’accettavamo senza discussioni”, racconta lui, ma a chi chiede quando torneranno a lavorare insieme risponde lei, perentoria, “è un miracolo che si possa scrivere con un altro, e i miracoli non si ripetono”. Più malinconico il ripensamento di lui, dopo la morte di lei: “La verità è che mi dispiace molto non aver scritto un altro libro con Silvina. A volte ho l’impressione di aver vissuto accanto a lei un po’ distrattamente”.

 

Così, nello sguardo di chi legge, un occhio va alla trama, ai giochi intertestuali ed extratestuali, allo spettro borgesiano, all’intento poetico, l’altro ispeziona per forza le tracce della vita degli autori, chiedendosi come e dove possa apparire, dietro tanta precisa forma, quel matrimonio così folle, complicato e totalizzante. Il protagonista di Chi ama, odia è cinefilo come Bioy Casares e solitario come Ocampo, ma questo non può bastare a placare la curiosità. L’illuminazione arriva nell’explicit, con il ripristino dell’ordine e la normalizzazione; riferendosi ad altri due personaggi, ma in realtà senza dubbio e sottotesto agli scrittori che l’hanno partorito e fin lì creato, Huberman chiude così: “a volte mi domando come sarà l’intimità di questi innamorati, che così spesso si sono guardati credendosi criminali, e che non hanno mai smesso di amarsi”. Il caso è chiuso, ma il segreto di due persone che per cinquant’anni si sono amate, e quindi odiate, senza separarsi mai resta per sempre dichiarato in quelle righe, nella sua sacra e inaccessibile irrisolvibilità.