Ode alla superficie
Scavare in cerca di significati profondi trovando cose più banali di quelle che stavano a vista
La superficie è sottovalutata. Gode di pessima fama, come se fosse responsabile di tutti i mali del mondo. Sono secoli che accade, e certo non speriamo di invertire la tendenza con le nostre sole forze. Ma tant’è: vorremmo almeno instillare il semino del dubbio, a chi scava in cerca di significati profondi e trova cose molto meno interessanti di quelle che stavano a vista, pronte a essere afferrate e godute. Spacciandole come più vere, più colte, più sensate, più utili nel loro non essere dilettevoli, e come mai una come te non si vergogna a giudicare dalle apparenze?
Vergognarsi mai, abbiamo dalla nostra Oscar Wilde: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”. Per il resto, sosteneva convinto che il suo diario – attenzione, il suo, non si estende a tutta l’autofiction impolverata sugli scaffali – fosse la più interessante lettura da treno. Giudicare dalle apparenze spazzerebbe via, per cominciare, il retroscenismo che invade i giornali – un retroscena può essere curioso, cento retroscena vengono a noia, e mettono voglia di un rasoio filosofico per eliminare l’inutile.
All’origine della catena infernale, le dietrologie e le teorie del complotto. Ben sobillate da un film come “Matrix”, colpevole di aver scolpito nella cultura popolare l’idea che la superficie sia un inganno per tenerci prigionieri (e però felici, perché sputarci sopra?). Gli intelligenti vogliono – tafazzianamente – vedere il mondo com’è davvero: una terra desolata che solo la pillola rossa rivela. La pillola blu invece lascerebbe le cose come stanno – quindi a rigore non ci sarebbe neppure bisogno di prenderla, fa solo dimenticare che ce l’hanno proposta. Da allora, era il 1999, i fratelli Wachowski sono diventati le sorelle Wachowski – capelli rossi e rasta per Lana, biondi e ondulati per Lilly, perché le apparenze contano.
Vergognarsi mai. Contare invece i piaceri che solo un sano e consapevole amore per le apparenze procura. I film, anche quando avremo dimenticato che all’origine c’era una pellicola, sono roba di superficie. Da guardare, osservare, godere, chiacchierare e spettegolare. Allontanando l’armamentario delle metafore (che poi quasi sempre sono analogie), dei simboli, della dichiarazioni del regista che spiega cosa voleva dire in quella o quell’altra scena. Interviste ne abbiamo fatte tante, perlopiù in radio che evita la fatica della trascrizione – è per colpa della trascrizione che le persone dicono “emblematico” (una volta l’hanno messo in bocca pure a noi, ancora brucia). Il romanzo, se era noioso o riuscito male, non è mai migliorato. Semmai, una volta conosciuti i retroscena e le intenzioni, si restava stupefatti dalla miopia – diciamo così – con cui gli scriventi guardano i loro scritti. Succede lo stesso con le interviste ai registi: i più furbi buttano lì lo spunto per la polemica, e del film non parla più nessuno.
Vergognarsi mai. Ricordare invece che nei romanzi le apparenze sono tutto. Scava scava, usando come zappa le centinaia di libri e di saggi prodotti sull’argomento, viene fuori che “Moby Dick” non parla di una balena sfuggente e di un capitano cocciuto. Bensì del Male, dell’Ossessione, della Vita e della Morte, del Divino, del Candore e dell’Assenza (anche il Diverso, e tra un po’, basta aspettare, anche la Vendetta dell’Animale Maltrattato). Ma se Herman Melville non fosse stato tanto bravo a raccontare le balene e il variopinto equipaggio, lustrando la superficie con accanimento e ironia, non ci divertiremmo così tanto a leggerlo.