“Un uomo finito”, racconto e ritratto degli intellettuali del primo Novecento
Dal furore alla disfatta. L’autobiografia di Giovanni Papini
Insaziabile, onnivoro. Rospo pensoso e scontroso. Atrocemente povero eppure malato di grandezza, di ambizione intellettuale e di smania di sapere. Decollato alla conquista del sillabario e mai più atterrato, disperso nei cieli di brame tempestose. Ruminatore di precoci disappunti, rimuginatore di abbozzi introversi di idee. Titanico dal primo all’ultimo giorno, nel bene e nel male. Occhi tristi e infossati – “forse non son venuti bene?” – e cascate di morbidi riccioli sul bavero alla marinara quand’era bambino, poi paonazzo e ringhioso da dodicenne, gonfio di odio fanciullesco sulla soglia di una biblioteca vietata alle sue precoci frenesie di onnisciente a causa dell’età, un’età minima non ancora raggiunta, e lui là, respinto e ingolosito: aveva intravisto, entrando, “una sala lunga e vasta, con venerabili seggioloni ad alta spalliera coperti di panno verde, e tutto intorno libri, libri vecchi, grossi e massicci, colle costole di pergamena e di pelle, scritte e fregiate d’oro: una meraviglia! E ognuno di que’ libri chiudeva quel che cercavo, offriva quel cibo che era fatto per me: storie di imperatori e poemi di battaglie, vite di uomini semidivini, libri santi di popoli morti, e la scienza di tutte le cose e i versi di tutti i poeti e i sistemi di tutti i filosofi”. La scienza di tutte le cose, sì: e quindi riprovarci di nuovo, a tredici anni e mezzo, con l’obiettivo di conquistarla, rodendosi di paura di essere scoperto, ma alla fine riuscirci, gabbando la sorveglianza di un tipo “alto e secco come un uccello pelato”. Riuscirci, essere scambiato per un sedicenne e finalmente tuffarsi a capofitto e nuotare in quel mare magno “santo e maestoso”, tra innumerevoli volumi e seggioloni stinti, in “quella stanzona così alta sopra la mia testa arruffata di adolescente trascurato”.
Comincia con la fame e la sete, “Un uomo finito”, autobiografia del 1913 di Giovanni Papini (Mondadori, pagg. 251, €13) che è in realtà l’autobiografia, da zero a trent’anni, di un cervello nato al lavoro e senza riposo, roso da inquietudini e da strepitosa hybris, da furori mistici e tuffi di sangue in rimescolamento. Perché se anche quel giovane smodato e furente andasse in giro vestito “con gli spogli del babbo” – divertentissimo il selfie da straccione che l’autore si scatta col capitolo 6 – la sua anima era in perenne stato di eccitazione intellettuale. Presto, però, arriverà la sconfitta. La disfatta. Il crollo al cospetto della vastità delle conoscenze che non si potranno mai acquisire per intero. E si farà strada, in Papini, il dolore per il tonfo a terra, per quella secchiata d’acqua gelida, per la constatazione di dover vivere, invece, una vita provinciale, striminzita, mortificante. Appena maggiorenne il suo intelletto si rivolta ancora contro la bestiale accettazione dell’esistenza e ne chiede ragione: “La vita è degna di essere vissuta?”
La risposta è nei cinquanta capitoli che compongono questo sismico mosaico individuale che, collocandosi nettamente al di fuori delle prospettive storiche degli anni precedenti la Prima guerra mondiale (di cui resta la testimonianza di maggior impeto e bellezza letteraria) scatta in realtà una fotografia di gruppo: il ritratto degli intellettuali del primo Novecento. Quelli delle “discussioni con amici e con nemici, a voce alta, con impegno, con furore”, che credevano nello scontro per meritarsi l’altezza e nella consapevolezza che passa per la schermaglia, la schermaglia sempre, da mattina a sera, sotto un cielo gocciolante di pioggia o “brividante di stelle”, in mezzo alla folla o al caffè la sera tardi, rintananti all’ultimo tavolino, imperterriti guerreggiatori delle idee, sordi a tutto meno che a quelle discussioni, “con tutta l’armeria gnoseologica brandita balenando”. La foto di un gruppo che battaglierà attraverso i propri giornali, necessari come lo stiramento di muscoli di un recluso che esca alla luce, “sfogo di tutti gli sdegni”. Papini fondò “La Voce” e “Lacerba”. Ma come tutti i suoi compagni dovrà fare i conti con il proprio ego-soggettivismo superomista, con l’altezzoso spregio del passato e tutte quelle idee, “a volte anche troppe”. Così gli ultimi capitoli di quest’opera, scritta come se Papini avesse una bomba sotto la sedia, diventano una toccante dichiarazione di impotenza generazionale ansiosa di nuove forme, una lama di rabbia contro se stesso per aver mal condotto vita e pensiero. “Ebreo errante del sapere”, non conobbe gli uomini. E non fu nulla proprio perché “volle esser tutto”.