Il paladino del lettore
Elogio dell’editing fatto per bene, quello che costringe lo scrittore a moderarsi, cancellando il superfluo
Parliamo di editing. Galeotta fu l’intervista di Ginevra Bompiani che attribuiva all’editing la salute precaria delle patrie lettere. L’argomento chiama il dibattito (è estate, provate voi a far leggere una recensione, meglio un giro di pareri: “Lei è favorevole o contrario?”). Per memoria: i dibattiti sono quei discorsi in cui possiamo essere pro o contro senza troppo impegno, senza litigare né rompere amicizie (la politica di questi tempi è più rischiosa, anche il calciomercato).
L’editing ha l’esatto fascino dei libri di cucina per chi è a dieta, o dei romanzi d’amore per chi è stato lasciato, altri due grandi classici sotto l’ombrellone. Tendiamo infatti a cercare quel che manca, e se dobbiamo giudicare da quel che si legge in giro, l’editing scarseggia invece di abbondare.
Può essere che sia colpa nostra, per via della cattiva abitudine di leggere i romanzi per intero. Tranne nel gioco di pagina 69, che appunto è un gioco, quindi non dovrebbe urtare le suscettibilità: scrittori e scrittrici possono sempre cullarsi nell’idea del capolavoro altrimenti impeccabile, solo quella pagina presentava un difettuccio. Abbiamo preso la cattiva abitudine perché in caso contrario non sapremmo cosa chiedere, nel caso di interviste. E perché temiamo che nella pagina saltata qualcuno potrebbe morire, o potrebbe esserci un altro colpo di scena altrettanto notevole. Tutto potrebbe accadere, a nostra insaputa di recensori puntigliosi. Alle nostre spalle di lettori malissimo educati da scrittori che inzeppano di informazioni ogni spazio disponibile. Prendete Stendhal, “Il rosso e il nero”: “Qualche ora dopo, quando Julien uscì dalla camera della signora di Rênal si sarebbe potuto dire, in stile romanzesco, che non aveva più niente da desiderare”. Una sola frase per una notte di passione, con frecciatina ai romanzieri meno bravi.
L’editing non abbonda e non rovina. L’editing scarseggia. Gravemente. Parliamo dell’editing serio, non di quello che sistema le maiuscole, mette le virgole dove devono stare, elimina le vedove e gli orfani (tranquilli, sono le righe singole che guastano la bellezza dell’impaginato, anche se gli impaginati belli son sempre più rari), fa in modo che la Lisa dagli occhi blu del primo capitolo non diventi una Lisa dagli occhi verdi nel terzo capitolo, elimini i “riagganciò” in tempi di smartphone, e i collant quando c’erano solo le calze con la riga. L’editing serio è – per esempio – quello che commisura le pagine alla trama, così da non rifilare al lettore inutili zeppe. Capita che certi romanzi, – anche candidati al Premio Strega – si siano fatti notare solo per la loro lunghezza: se avessero raccontato le stesse cose in meno pagine nessuno li avrebbe notati. Funziona, ma non è simpatico usarli per dichiarare al mondo: “Scrivo perché mi piace, chissenefrega dei lettori”. L’editor serio è quello che, davanti a trame che nel risvolto di copertina avranno la parola “crisi” (riferita a chiunque e a qualsiasi cosa), dice al suo pupillo: “Caro scrittore, fatti venire un’idea”. Non: “Un’idea migliore”. Proprio solo un’idea, che buchi la bolla dei giornalisti e dei conoscenti.
L’editor dovrebbe essere il paladino del lettore, non “colui che aiuta lo scrittore a esprimersi”. Gli scrittori – anche i non scrittori, ma disturbano meno – si esprimono già abbastanza, servirebbe qualcuno che metta freni e cancelli il superfluo. A richiesta, possiamo fornire molte pagine di molti romanzi, anche lodatissimi dalla critica, sottoposte alla necessaria cura dimagrante.