Che fine ha fatto la critica?
Lo stroncatore letterario rischia di scomparire come la tigre della Tasmania. Ma nel paese dell’uno vale uno e dell’indifferenziato ne avremmo più bisogno che mai
Per Mark sono stati i caratteri di stampa “troppo piccoli” (però “niente da dire sul romanzo in se stesso, che è un capolavoro”). Per Non sono Maggherita (sic) è stato il desiderio di “aggiungere un libro di questo colore alla mia collezione” a fomentare la curiosità verso un autore “che tanti reputano bravissimo” (ma quando, vinta dal tedio, ha chiuso il volume, s’è annoiata anche a leggerne il finale su Wikipedia). Entrambi su Amazon hanno licenziato l’opera con una sola stella, togliendo a Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij il prevedibile punteggio pieno. Profetando qualcosa del genere, nel remoto 1971 Giuseppe Pontiggia immaginò una traduzione del capolavoro russo che finiva, nella rinfusa dei dattiloscritti, frettolosamente esaminata dal lettore di una casa editrice: “Ci sono molti errori, molta enfasi”, fu il verdetto, però “è un autore che va tenuto d’occhio per il futuro”.
Il futuro che arrivò – di cui un pezzo è già passato – avrebbe esteso dalla politica alla letteratura la regola dell’uno vale uno. Perciò la striminzita stella di Mark il miope pesa quanto le cinque del più linceo fra gli accademici, ammesso (e generalmente non concesso) che l’impulso di digitare recensioni online pervada pure il professore.
Salvo casi ricordevoli, e perciò rari, vige davvero “una pax letteraria” con le case editrici? I danni sull’ecosistema letterario
E’ intanto scomparsa, o soffre quantomeno ineluttabile declino, la specie classica di recensore assai temuta ma essenziale all’equilibrio dell’ecosistema letterario. Il cosiddetto “stroncatore”, consegnato più all’araldica della critica militante che all’attualità, come le tigri della Tasmania tuttora rampanti nello stemma nazionale ma dichiarate estinte nelle lande selvagge dell’isola australiana. Forse è un segno dei tempi più che un sintomo italiano, se un paio d’anni fa anche la feroce critica letteraria del New York Times, Michiko Kakutani, s’è congedata dal genere dopo trentott’anni di recensioni e una collana di scalpi illustrissimi (da Jonathan Franzen a Philip Roth) con cui, al pari di una dea Kali, aveva inanellato la sua carriera. Nel mundillo editoriale nostrano Franco Cordelli l’aveva tuttavia preceduta: nel 2014 decise che non avrebbe più recensito libri italiani dopo le roventi reazioni suscitate da un suo articolo su la Lettura del Corriere della Sera, in cui mappava “la palude degli scrittori” e ne specificava le “tribù” formatesi nell’ultimo ventennio. L’astensione di Cordelli s’è allargata nel 2017 – l’anno in cui Michiko rinfoderava la katana – ai libri in generale. Il motivo si potrebbe riassumere nell’inoppugnabile teorema Troisi (Le vie del Signore sono finite): “Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere… mentre ne leggo uno ne hanno scritto già un milione…”. Oggi spiega Cordelli: “Nell’èra digitale la velocità di trasmissione ha incrementato la produzione editoriale a un punto tale che per qualunque critico è impossibile tenerle dietro. Come si fa? A questi ritmi industriali è diventato difficile, anche in senso fisico e temporale, individuare le opere importanti. Eppure ne escono. Ma la massa è composta di libri che paiono l’uno uguale all’altro, su cui si scrivono articoli che paiono l’uno uguale all’altro. Ormai le recensioni sono quasi tutte di natura informativa se non pubblicitaria. Guardiamo a supplementi come Robinson o Tuttolibri: sembrano diventati Gazzette Ufficiali dell’editoria”. Perciò adesso Cordelli, che scrive ancora a penna (“poi qualche persona gentile ribatte il testo al computer”), lo fa solo per le critiche teatrali.
E’ che l’habitat del recensore puro, a maggior ragione dello stroncatore duro, s’è vieppiù assottigliato sui giornali come accadde per l’habitat della tigre della Tasmania (thylacinus cynocephalus) dopo l’arrivo dei coloni occidentali. S’aggiungano le taglie per le stragi di pecore e la competizione col dingo, che s’adattava a cacciare qualsiasi tipo di preda.
Perché, naturalmente, si può recensire ogni tipo di libro senza straziarne troppi. Sembra convalidare la metafora un veterano come Paolo Di Stefano: “La stroncatura è in declino perché quella che tempo fa Franco Cordelli ha definito la palude si è molto estesa. Le recensioni sono fatte per lo più da scrittori amici di scrittori e il critico militante è una figura che non piace e che conta sempre di meno. Gli uffici stampa sono diventati molto più abili a organizzare il battage e ad assicurarsi la benevolenza e la complicità dei giornali”.
Eppure, aggiunge Di Stefano, “oggi la stroncatura, purché motivata e argomentata, sarebbe più utile che mai perché viviamo nell’epoca dell’indifferenziato: il valore non è un valore, l’unico valore è la quantità. Oggi una critica severa aiuterebbe a distinguere tra il grano e il loglio, esercizio fondamentale”. Altrimenti, resta solo la classifica mentre “i critici buoni e a volte ottimi ci sono ma non contano nulla. E non vengono cooptati dai giornali, che preferiscono affidare le recensioni ogni volta alle persone che garantiscono un giudizio benevolo o complice”.
Giovanni Papini fu forse il più maestoso stroncatore italiano. A differenza di chi respingeva la definizione, lui se l’appuntava sul petto
Salvo casi ricordevoli, e perciò rari, vige davvero – come sostiene anche Mirella Armiero, titolare di una rubrica settimanale sul Corriere del Mezzogiorno – “una pax letteraria” con le case editrici? Dice di più: “C’è troppa familiarità tra chi scrive romanzi e chi li recensisce. Così quando la recensione è negativa rischi di essere additato come uno hater, che ha stroncato per chissà quali ragioni. Credo al contrario che una ripresa del genere, non per alimentare pura polemica o antipatie personali, ma per stimolare un discorso intelligente attorno al libro, possa essere utile all’editoria. Più di un riassuntino asettico dell’opera, sintomatico di tante recensioni ‘dovute’ però scritte a malincuore. Oltretutto, quando le stroncature sono intelligenti risultano divertentissime”.
Non c’è dubbio. Ma fino a un certo punto: “Sì, le stroncature ben fatte sono divertentissime… purché le facciano agli altri. Io, quelle che ho subìto, le ho prese malissimo” ammette Antonio Pennacchi. La prescrizione, che estingue con il tempo la maggior parte dei reati, non estingue certe recensioni: trascorsi più di nove anni da quel 6 aprile 2010, quando apparve sul Corriere della Sera, Pennacchi non ha perdonato la stroncatura (in verità parziale) di Canale Mussolini firmata Cordelli. E assicuriamo, ammorbidendo il testo senza tradire il senso, che se dovesse incontrare il critico avrebbe ancora pronto un guanto per la sfida a duello. Eppure quella recensione (Pennacchi s’incaglia nell’Agro Pontino) pubblicata nel cruellest month portò fortuna allo scrittore, che nel luglio seguente avrebbe vinto il Premio Strega. Cordelli si sorprende: “La mia neanche fu una stroncatura tout court, anzi piuttosto argomentata. Dopo dieci anni ricordo ancora Canale Mussolini come un buon libro, interessante ma completamente fuori della mia idea di letteratura. Era una contrapposizione di poetiche in cui non entrava alcun motivo personale”. Pennacchi non ne sarà mai convinto.
Solo che a volte il karma – nell’editoria non fa eccezione – si manifesta all’improvviso come una scimmia dal fogliame. Quel 2010 sapido per il Cordelli recensore, acido si rivelò per il Cordelli recensito: un allievo di Cesare Garboli di cui non rammenta il nome, o forse finge, stroncò su Repubblica il suo romanzo “La marea umana” in un pugno di righe. (Antefatto: tempo prima Cordelli aveva fatto le pulci al maestro per un’incongruenza di date nell’introduzione a “L’odore del sangue” di Goffredo Parise). Da allora Cordelli giurò che non avrebbe più acquistato il quotidiano. Nove anni dopo, al pari di Pennacchi, nemmeno lui pensa alla prescrizione però, per eludere il voto senza violarlo, confida di leggere Repubblica purché la compri la sua compagna.
Pennacchi e Cordelli possono consolarsi ripensando a quanto più perfido fu, come una tigre non tasmaniana ma napoletana, lo stroncatore Enzo Golino sul mensile Millelibri di un ormai per forza nebbioso dicembre 1991. Non pago di bocciare “Enigma in luogo di mare” di Fruttero&Lucentini, aggiunse un post scriptum in cui fuse due temute specialità partenopee: quella della cazzimma e quella del trac col botto conclusivo proibito. Spoilerò (allora per fortuna non si diceva così) svelando il nome dell’omicida. “L’abbiamo cancellato dall’elenco delle persone civili”, lo esecrò Fruttero. Ed è noto che il codice penale non contempla prescrizione per reati puniti con l’ergastolo.
La compianta bravura degli stroncatori, essendo il più delle volte amarissima, quando cedeva a inaspettate approvazioni effondeva perciò ineguagliabile dolcezza. Dovette goderne Luciano De Crescenzo allorché un altro affilatissimo napoletano, Ruggero Guarini, nel 1989 lo promosse ai ranghi letterari appellandosi al detto di Karl Kraus (tuttora in gara con Flaiano per il titolo di autore più citato che letto) secondo cui esistono solo due specie di scrittori: quelli che lo sono e quelli che non lo sono. E iscrisse alla prima schiera il papà di “Bellavista”.
Nel 2014 Cordelli decise che non avrebbe più recensito libri italiani dopo le reazioni suscitate da un suo articolo sul Corriere della Sera
Perché la vera stroncatura non è mai fine a se stessa né può ridursi all’altra faccia di un’indiscriminata lode: “Altrimenti sarebbe un mero esercizio di stile con cui si può bocciare anche il libro veramente bello”, osserva Roberto Cotroneo, già eminente “specialista” del genere. “Preferisco parlare d’intelligenza critica, senza la quale la stroncatura si riduce alla demolizione di un nemico e la recensione favorevole a un elogio sperticato, che è ormai ben più frequente in un sistema collettivo animato dai reciproci favori e dal marketing, per cui se oggi io elogio te tu domani elogi me. La commercializzazione prevale sugli aspetti letterari, al punto che talvolta sarebbe più corretto parlare di réclame che di critica”. Senza contare, aggiunge, la riduzione degli spazi concessi alle recensioni: “Puoi spiegare in venti righe perché un libro ti è piaciuto o no? Puoi articolare una critica? E soprattutto: lo hai letto veramente? Come giudicare un autore sfogliandone appena qualche pagina o conoscendo un suo solo romanzo? Lo scrittore è un corpus, non l’opera singola”.
Mancando lo spauracchio della stroncatura critica, s’abbassa la qualità generale: “Quando non hai più la paura, o il pudore, che qualcuno ti faccia a pezzi perché sai che nessuno lo farà – continua Cotroneo – sarai invogliato a scrivere per narcisismo, tanto il dilettantismo non verrà sanzionato e troverai solo chi afferma: bene, bravo, fantastico. Poi dietro magari ne parlano male, ma davanti ne scrivono bene”. Risultato: “Romanzi come accessori da esibire la sera, poveri di lessico e sintassi, con un birignao di luoghi comuni che raccontano le tre cose generalmente più noiose: politica, sesso e omicidi”.
Ricordato sotto un dito di polvere negli archivi della letteratura, come un esemplare impagliato di tigre della Tasmania nel museo delle scienze, Giovanni Papini fu forse il più maestoso stroncatore italiano, tanto che a differenza di chi lo è stato dopo respingendo la definizione, lui se l’appuntava sul petto. Dotato di un cospicuo marsupio culturale (anzi enorme per chi sta accomodato nell’epoca di Google) e di straordinaria apertura mandibolare, sopperiva all’esiguità della vista con un fiuto acutissimo, che gli permise di agguantare prede sontuose con un’implacabilità non soddisfatta nell’occasionale bocciatura, ma incline a perseguire gli autori per lunghi tratti delle rispettive sorti letterarie. Dilacerò (dalla Logica all’Estetica) la “filosofia da maestri ginnasiali” del “sublime rinoceronte” Benedetto Croce. E tallonò D’Annunzio di cui lo infastidiva il “trombettar col culo pur di nascondere l’interno silenzio dell’animo suo”, ossia “lo strafare e non il fare”.
Chi si formò studiando le intuizioni, e anche gli errori, di Papini (citiamo lui dovendo scegliere par excellence un nome), oggi è legittimato a obiettare: - Siete proprio sicuri che sia tutta colpa del perfido sistema editoriale? Quanti recensori suscitano la voglia di leggere un libro? Se decadenza c’è, in questo Kali Yuga mettiamoci tutti. E se dite che la letteratura ha perso sapore, è lecito dubitare che sia solo colpa dei cuochi.
Se manca la critica, si abbassa la qualità: “Romanzi come accessori da esibire la sera, poveri di lessico e sintassi”, dice Cotroneo
Tant’è che, se sono “intelligenti” le stroncature di cui sopra, possono rappresentare il sale nella cucina. Perché a qualcuno daranno fastidio ma servono, sebbene i giornali ne continuino a erodere gli spazi: Marco Ciriello, che ha artigliato parecchie prede su Mattino e Messaggero, è convinto di una cosa: “Le stroncature finiscono perché è finito un certo tipo di società letteraria. Negli anni ’60 e ’70 c’era dibattito, si litigava… oggi si twitta. Gli scappati di casa, come sono arrivati in politica, sono arrivati nelle case editrici, dove ormai restano pochi grandi nomi come un Franchini o un Calasso. S’aggiunga che il genere della stroncatura non è mai stato tanto praticato in Italia”. Perché? “Se uno scrittore si mette a fare il critico deve avere il triplo pelo sullo stomaco, perché poi espone le sue stesse opere al tritacarne. E ci vuole coraggio. Inoltre manca la distanza: oggi c’è una contiguità, tipica anche del cinema e del teatro, per cui si frequentano tutti tra loro, si parlano e sparlano addosso perdendo il senso della realtà e della vera critica. Se arrivi e buchi la bolla, non la prendono bene”.
Se è dura la vita dello stroncatore, così tanta è la vocazione? “La verità è che non si stronca per odio o per invidia. Almeno non si dovrebbe”, risponde Ciriello: “Si stronca per amore: della letteratura, dei libri, della lingua italiana. Serve agli autori e più ancora ai lettori: proprio perché siamo un paese impoverito, la gente vuol sapere se vale la pena comprare quel determinato libro”.
Con più di trecento articoli in un quindicennio, di cui molti dedicati a tarantiniane sciabolature, anche Massimiliano Parente è convinto che la simpatia e l’antipatia debbano restare nella penna: “C’è una mia idea di letteratura alla base dei giudizi, un’idea sollecitata specialmente se mi trovo di fronte qualche autore sopravvalutato. Allora si può essere feroci, ricorrendo magari al più perfido modo che esista: stroncare l’autore citando lui stesso. Lasciare, insomma, che si stronchi da solo”.
Vale però, persino per chi stronca, il precetto verdoniano che “sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma”. Talvolta la mano di Parente è stata piuma: “Con i miei articoli ho sostenuto uno scrittore ignorato come Antonio Moresco, spingendo Mondadori a pubblicarlo. Ho appoggiato Aldo Busi, Piersandro Pallavicini e Isabella Santacroce della quale pure avevo bocciato ‘V.M. 18’. Ma ammisi successivamente di essermi pentito, perché bisogna essere pronti anche a mutare opinione”.
“Sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma”: è stata l’una e l’altra cosa con Roberto Saviano. “Fui tra i primi a stroncarlo – ricorda Parente – ma ciò non mi ha impedito di elogiare ‘La paranza dei bambini’ perché ne ho riconosciuto il valore letterario. La mia garanzia è avere la coscienza pulita: Moresco, Pallavicini, Santacroce non erano miei amici. Amico loro lo sono diventato dopo, perché mi piaceva quello che scrivevano”.
La specie degli stroncatori, seppure non sia estinta in senso papiniano ma perduri negli sparuti esemplari sopra avvistati e brevemente descritti, è comunque ad alto rischio di sopravvivenza. Per certo, non se ne sa la sorte. Anche sul web spunta ogni tanto qualche filmato amatoriale che mostra un fugace selvatico assimilabile, specie di notte, alla tigre della Tasmania. Intanto all’Università di Melbourne ne hanno sequenziato il genoma e progettano, con impervia ambizione, la clonazione. Ma queste sono cose che nel mondo delle lettere, signori cari, servono solo a scrivere un racconto.