La bestia umana
In “Niente resurrezioni, per favore” Fred Uhlman mette in scena la viltà, la paura e l’odio senza pentimento
C’è una pièce occulta, un piccolo gioiello drammaturgico nel cuore di “Niente resurrezioni, per favore”, breve e amarissimo romanzo di Fred Uhlman che compie i suoi quaranta gloriosi anni e racconta la storia dolentissima di Simon Elsas, pittore ebreo di Stoccarda, che ritorna nella sua città amata dagli Stati Uniti dove era riparato durante la Seconda Guerra mondiale per sfuggire agli aguzzini nazisti.
Amata, sì, eppure è chiaro che qualcosa non va fin dal primo momento: quel presago senso di estraneità in aereo, poco prima dell’atterraggio, a destinazione già annunciata, e poi le strade, la sistemazione all’Hotel Marquand, la Königstrasse, la spaesata sensazione di essere la parvenza di un déjà vu, il flash un’allucinazione o la reincarnazione di uno sconosciuto con quel nome tanto familiare – Simon Elsas: strano perfino pronunciarlo – ormai morto da tempo. Lo smarrimento esplode immediatamente, al Waldcafé, dove Simon si fa portare da un tassista. E il locale della sua adolescenza, il luogo da cui aveva contemplato per anni la vallata e la città circondata dagli alberi in piena fioritura mentre sprofondavano nel tramonto, improvvisamente si sfarina davanti ai suoi occhi e perde significato, come tutto il tempo trascorso lì con gli amici, nelle sere d’estate, bevendo vino del Nekar. “Ma adesso dov’erano Raiser, il poeta? Herzog, l’architetto? Müller, il filosofo? Cantavano ancora Lindenwirtin, du Junge, die Loreley? Erano ancora vivi o dormivano sotto l’humus? E se erano vivi, dove trovarli?”. Comincia così il viaggio di Simon Elsas nel mondo dei morti, anzi, dei vivi morti dentro, morti per sempre insieme al passato, morti a una vita che era la vita di prima e non sarà mai più la stessa. Sentirsi a Timbuktu ma essere a casa: e disubbidendo alla tentazione che gli sussurrerà spesso all’orecchio, durante il breve soggiorno, di alzare i tacchi perché nulla può tornare come prima e l’unica cosa è evocare quel mondo e trasformare il dolore in arte (ma nel proprio studio, a New York, lontano dall’epicentro doloroso della vita trascorsa), ecco che il pittore Simon Elsas vorrà farsi male fino in fondo e deciderà di guardare in faccia tutti i suoi fantasmi, tutti i sopravvissuti a loro stessi, tutti coloro che hanno contratto un debito morale con la Storia e l’hanno trasformato nella propria inguaribile malattia, perché quello è il destino dei complici e non esiste una perequazione possibile, non si può sfuggire all’orrore che si è voluto tollerare. La discesa agli inferi è irreparabile: prima l’incontro con Fritz Haber, ex compagno di scuola, vanesio e logorroico; poi la sosta davanti al cancello arrugginito della vecchia casa di Charlotte von Gültlingen, proprio nel punto esatto in cui lei aveva baciato lui alla chetichella, tremando, una volta, anni prima, chissà quando, timorosa che qualcuno la potesse denunciare perché baciava un ebreo; quindi la riunione, patrocinata dallo stesso stupido inconsapevole Fritz Haber, con tutti i vecchi compagni di scuola. Ed eccola, la pièce indimenticabile. Ecco il gioiello drammaturgico, e servita la Grande Resa dei Conti di un gruppo di amici e di un intero paese al cospetto della Storia. Pagine scritte come un crudo copione teatrale, perché dopo i primi brindisi e i primi canti la vergogna e l’alcol avranno la meglio, e il confronto, il botta e risposta, le sciabolate tra gli uomini e il loro passato si farà spietato, quasi sanguinoso, tra bilanci cocenti e indicibili e il nauseabondo orrore per l’odio generato, fatto pagare a un’intera generazione. Non ci sarà salvezza e non ci sarà perdono, e nessuno avrà una seconda opportunità sulla Terra. Bilancio tremendo, spietato, assedio senza uscita: Simon Elsas se ne andrà con le ossa rotte, irreparabilmente rotte, rafforzato – e indebolito – nella consapevolezza più atroce circa l’irredimibilità della bestia umana.
Un romanzo breve e grande, un mazzo di pagine di furiosa ma fredda verità che ci racconta in pochissimi capitoli tutto quel che la grande letteratura sa degli uomini: della loro viltà, della loro paura, della brutalità assuefatta con cui odiano senza pentirsene mai del tutto. Nessun riscatto, nessuna via di fuga, e quel che è fatto è fatto una volta per sempre. “Ognuno era colpevole, ognuno era vittima. Il veleno aveva compiuto la sua opera”.