Ugo Nespolo, “My Book”, 2007, Acrilici su legno modellato, cm. 141x211x9

Discorso sulla creatività

Ugo Nespolo

Paradossi fiscali e burocrazia paralizzano e sfiduciano gli artisti. Penalizzati pure i collezionisti

Eccolo qua ispirato e trafelato proprio lui, l’artista. Creatore per eccellenza sempre pronto a scardinare il mondo a suon di creatività, quel concetto incognito, diafano, inafferrabile dalle mille opinabili definizioni.

 

Per uno che pareva intendersene come Sigmund Freud si tratta di “… un tentativo di risolvere il conflitto generato da pulsioni istintive, biologiche non scaricate, perciò i desideri insoddisfatti sono la forza motrice della fantasia e alimentano i sogni notturni e quelli a occhi aperti”. Tutto da capire e discutere naturalmente alla luce anche di una vera e propria inflazione del concetto. Anche il mio barbiere come il mio carrozziere e pure il vituperato ragioniere si vendono come soggetti ad alta creatività al punto che persino un filosofo ironico sino all’irriverenza come Maurizio Ferraris ha voluto lanciarsi in un raffinato Istruzioni per non essere creativi, senza peraltro riuscire ad arginare un fenomeno vuoto ma travolgente.

 

L’homo artisticus scalpita, la sua è una tensione per dotare il pianeta di opere immortali, testimonianze fondamentali

Ma l’homo artisticus scalpita, la sua è una tensione per dotare il pianeta di opere immortali, testimonianze fondamentali, concrete attestazioni dei suoi malesseri e della sua melancolia. Mano e mente han da essere decise e limpide, scevre di intoppi di natura bassamente pratica, rasoterra. L’artista sogna (o recita) vestito di una veste dal sapore sacerdotale, crea linguaggi criptici e originali sovente solo a lui intelligibili. Mal sopporta il mondo e le sue sciocche convenzioni e vuol vivere una distaccata dimensione messianica, di unto del Signore fino all’attimo in cui la violenta concretezza si paleserà in un risveglio sempre poco piacevole e doloroso.

 

E’ come lo sconcerto dopo esser penetrati in un intricato labirinto molto vicino a quelli di cui scrive Jorge Luis Borges in quei racconti della raccolta L’Aleph, tutti popolati d’incognite e di strade non tracciate, di quelle che rendono la meta ardua e parecchio distante. Ci si trova presto intruppati in un crudele gioco dell’oca fatto di stazioni da conoscere, barriere da superare, enigmi da risolvere, esclusioni incombenti.

 

Nel caso poi del giovin artista sarà prudente sappia da subito che l’Artworld è il regno del cinismo, quel mondo in cui il valore delle opere s’identifica col prezzo e che quindi l’arbitrio dei valori è totale ed esasperante. Bene sappia anche che l’epoca nostra sta vivendo l’eclisse di teorici e teorie, di movimenti e manifesti così come la non poco misteriosa estinzione di gruppi e movimenti e dei loro gloriosi progetti spesso utopici. Si stupirà forse della recente trasformazione del critico da studioso in manager e per colmare il vaso troverà sorprendente persino la mutazione dei musei in supermarket proprio come aveva previsto il pallido Andy Warhol.

 

Quando già si poteva credere d’aver maturata, sofferta e digerita l’invadenza e la quantità degli intoppi di natura vagamente culturale, quelli che già s’erano mostrati ostacoli alla generosa creatività intesa come fiotto irruento in grado di sostanziare opere fedeli all’antica ricetta del nuovo a ogni costo, ecco come le misteriose cupe e granitiche pareti dell’Isola dei Morti di Arnold Böcklin avvolte nella penombra di una notte avara di stelle si presenta l’intrico di obblighi tassativi, criptici decreti, articoli e commi di legge che gelano, spoetizzano non poco l’impeto tardo romantico del far arte.

 

Si tratta di una selva di costrizioni fiscali delle quali sarà più che prudente prender subito visione per saperle maneggiare con dimestichezza visibile e dimostrabile. Intanto: se non si svolge l’attività come mera attività occasionale l’artista è tenuto ad aprire una partita Iva. Obbligo solo in apparenza elementare poiché richiede la scelta del proprio codice di attività, il noto codice Ateco, per scoprire ben presto che attualmente non ne esiste uno specifico che includa tutte le attività artistiche sia pure in senso lato. Con un po’ di pazienza e qualche aiutino si arriverà alla conclusione che il codice più attinente è il 90.03.09 che ha da fare con Pittori, Scultori, Cartonisti, Incisori, Aerografisti. Salta subito all’occhio come queste categorizzazioni artistico-professionali non possano in alcun modo comprendere l’infinita odierna quantità di espressioni messe in scena dalla cultura figurativa all’epoca dell’everything goes, gli anni in cui tutto può essere arte e naturalmente tutti possono essere artisti. Soporiferi video statici o a scansioni per frames ripetitivi alla nausea, frattaglie di civiltà dismesse, scrap and waste materials, ombrelli spalancati, specchi frantumati, avanzi di un pasto vegano, tampax non più nuovi, materassi lerci e sfondati, cactacee invasate in porcellane cinesi, animali impagliati e così via all’infinito, vivono senza logica possibilità di categorizzazioni e quindi anche di appartenenza all’esclusivo recinto delle opere d’arte fiere del proprio status.

 

Facile intendere che il mistero già fitto si trasforma presto in enigma senza scappatoie in interpretazioni, allusioni, quando si tratta di porre a norma la ben nutrita quantità di opere performative come azioni corporali, con o senza sangue e violenza di stampo viennese, riti dal sapore anarco-sacerdotale, dichiarazione di poetica in lingue ignote, distribuzione forzata di criptiche saggezze esoteriche. Se in qualche modo – per ora non noto – si potesse sgrovigliare l’intricata matassa con eziologica pazienza, l’artista si sentirebbe allora pronto all’agone per canalizzare la propria opera verso il mercato e dunque verso il ruvido e affascinante mondo animato da galleristi, courtiers, collezionisti privati, musei, venditori porta a porta, non prima di sapere però se la futura e tassativa emissione di fattura elettronica godrà di Iva ordinaria al 22 per cento o ridotta al 10, a patto che la cessione sia effettuata direttamente dall’artista. In generale parrebbe trionfare l’applicazione dell’aliquota ridotta anche se in taluni casi risulterà impossibile e fraudolento fruirne in quanto i beni commercializzabili non saranno dal fisco considerati opere d’arte. E’ il caso in cui le opere sono realizzate ad esempio con processo serigrafico, dal momento che i telai matrice non sono fisicamente realizzati a mano dall’artista. Già, poiché il criterio di classificazione di Opera d’arte contempla il requisito fondamentale di esecuzione a mano dell’opera, cancellando senza pietà più di un intero secolo di capolavori prodotti da avanguardie storiche di ogni genere, nazione ed ideologia. 

 

Assolti gli adempimenti fiscali di inizio attività (D.P.R. n. 633/1972), versato l’emolumento relativo alla partita Iva a norma dell’articolo 36 del D.L. del 2/3/1989 l’artista entra ora nel vivo della veicolazione delle proprie opere. Si munirà dei registri previsti dal Codice civile e dalle leggi fiscali vidimati dagli uffici competenti. Il documento di trasporto seguirà ogni spostamento delle opere corredato sempre dei dati del mittente, luogo di partenza, destinatario, destinazione dei preziosi imballi, quantità opere, loro classificazione munita di descrizione sintetica e soprattutto il titolo non traslativo della proprietà secondo il quale si spediscono le opere.

 

A mostra conclusa serviranno analoghi documenti per il ritorno salvo per le opere vendute delle quali si emetterà fattura.

 

Molti sentono il diritto di ripensare a una dimensione più intima e riservata, persino tornare a tavolozza, trementina e cavalletto

Se però la mostra si è tenuta al di là dei confini del Bel Paese l’enigma sarà quale Iva applicare? Converrà dissertarne con specialisti, commercialisti, fiscalisti, legali. All’estero le opere viaggiano con il Carnet Ata, (per pietà trascuriamone le varie tipologie) documento doganale internazionale che consente l’esportazione temporanea nei paesi convenzionati per un massimo di dodici mesi senza dover prestare alle dogane alcuna garanzia per l’ammontare dei diritti relativi alle merci stesse.

 

Dopo avere con successo combattuto e digerito queste e altre angherie burocratico-fiscali, l’artista punterà ora al sodo, aspirare cioè con tutte le forze a far veicolare il suo lavoro da parte di una galleria influente e vivace per non restare forever un perdente lupo solitario non visto e mai valorizzato. Vagheggia la stipula di contratti – assai rari – e si sente già angosciato dall’eventuale valutazione della tipologia giuridica del documento sognato: mandato, commissione, consulenza, segnalazione e procacciamento di clientela e giù di lì.

 

Sa anche che a seconda del contratto che potrà sottoscrivere dovrà agire in maniera differente dal punto di vista amministrativo e fiscale; momento di emissione del documento elettronico, Iva da applicare, soggetto cui emettere la fattura, responsabilità della compravendita, responsabilità assicurativa, custodia e così via.

 

Intanto il fortunato e capace collezionista acquistando l’opera che vantaggi potrà avere? Praticamente nessuno se non in misura minima. Infatti da noi l’investimento in arte è considerato un fatto elitario e sospetto e mai un meccanismo utile alla circolazione di opere, diffusione del sapere e motore di un comparto economico di prima grandezza. Non sono infatti previste detrazioni particolari per l’investimento in arte a eccezione delle previsioni dell’Art Bonus limitate a particolari investimenti. L’indomito collezionista può decidere un investimento come società e quindi con la sua partita Iva ma sappia che dovrà valutare il requisito d’inerenza richiesto dall’articolo 109 del Tuir (il Testo unico delle imposte sui redditi) e scoprire poi che da noi comunque l’arte non è un bene ammortizzabile. Si dice che l’opera possieda una vita economica a utilità indefinibile mentre l’articolo 2426 n. 2 del c.c. prevede l’ammortamento solo per i beni la cui utilità è limitata nel tempo.

 

Il codice Ateco più attinente non comprende l’infinita odierna quantità di espressioni messe in scena dalla cultura figurativa

Per i professioni in base all’articolo 54 comma 5 del Tuir l’investimento in arte non può essere dedotto né giustificato come spese di rappresentanza se non nell’incredibile misura del 1 per cento. Se il collezionista è testardo e decide di comprare opere in paesi stranieri attratto anche dall’applicazione dell’Iva al 10 per cento lo farà a patto che la Dogana e il codice doganale riconoscano l’opera importata come un bene artistico. In quel codice rientrano in maniera eterogenea quadri, pitture, disegni, collages, incisioni, stampe, litografie insieme a francobolli, marche da bollo, marche postali, buste primo giorno d’emissione, interi postali e simili, obliterati e non, oggetti di zoologia, botanica, mineralogia, anatomia e così via. Escluse tutte le categorie non sopra citate. Dubbi e confusione ed esclusione possono sorgere di fronte a opere della più spericolata avanguardia, come si sarebbe detto un tempo. Oggetti ad esempio alla Franz West, trionfo dell’assemblaggio di materiali eterocliti da essere ricomposti poi nel sito espositivo. Non facile l’opera di convincimento d’esser di fronte a frammenti di arte multimediale e non soltanto in presenza di merci generiche per le quali l’esborso Iva sarà massimo e da sommarsi a non improbabili dazi doganali. Per questo sarà fondamentale che l’artista pretenda dai suoi fornitori scontrini, fatture a scarico per spese sostenute, documenti indispensabili alle prossime vitali detrazioni.

 

Molti e acuti dubbi sul capitolo delle spese documentabili in opere d’arte di radicalità totale. Salta in mente ad esempio la lunga luminescente teoria di bombole del Campingaz da esporre accese da Jannis Kounellis in una ben nota mostra di Arte Povera in versione romana. In questo caso si cercherà di contemplare voci composite suddivise – ad esempio – in costi ammortizzabili per l’hardware e spese probabilmente a consumo variabile per la combustione continua del costo del gas. Ridicolo, si sa, riparlare del vecchio Duchamp e dei suoi scontati readymades, oggetti trovati nei magazzini degli amici rigattieri, o l’Air de Paris piuttosto difficilmente quantificabile. Ancora di più Piero Manzoni con la sua più spinta creazione, la notissima Merda d’artista, dai costi francamente non quantificabili e documentabili.

 

Requisito fondamentale per l’Opera d’arte è l’esecuzione a mano: si cancella così senza pietà più di un secolo di capolavori

Trabocchetto avvelenato quello del Ddt (Documento di trasporto, D.P.R. n. 627/1978) indissolubilmente avvinto all’opera in movimento e alla persona del suo creatore. Odierno coacervo di stili, di antistili, zerostili possono con facilità generare un senso di noia e rigetto mai disgiunti dal sentimento di inutilità e scoramento prodotti dagli esiti radicali della Biennale veneziana del 2013 a opera di Massimiliano Gioni. Il Palazzo Enciclopedico sfondava la barriera di cos’è o può essere arte e chi artisti. Folli, psicopatici, autodidatti, sensitivi, veggenti, manufatti stravaganti, sacerdoti di nuove religioni, tutti sono chiamati con pari diritti alla ricca mensa dell’arte. Outsider Art uguale a Insider Art. Lo scoramento – si sa – può generare reazioni inattese persino antistoriche. Molti sentono il diritto di ripensare a una dimensione del fare arte più intima e riservata, persino tornare a tavolozza, trementina e cavalletto per uscire e dipingere en plein air.

 

Dal modesto appartamento di Rue Boulegon nel cuore di Aix-en-Provence, dopo aver dolorosamente venduto lo Jas de Bouffan, nido caldo e segreto, Paul Cézanne si spostava ogni giorno al piccolo e modesto atelier nella cava di Bibémus a est del centro abitato. Di lì percorrendo a piedi brevi distanze poteva – munito di colori, pennelli, cavalletto e tavolozza – portarsi di fronte al suo soggetto prediletto: l’amata montagna Sainte-Victoire. Per la gloria dell’arte ha potuto impunemente farlo a differenza dell’odierno sconsolato artista che – per essere in regola – dovrà invece avere con sé la copia fotostatica di inizio attività unita a una dichiarazione d’esonero dell’emissione del Ddt ai sensi dell’articolo 4 punto 8 del citato D.P.R. E’ anche bene che la dichiarazione sia motivata. Il problema vero sorge quando, dopo la foga creativa, l’artista ha tra le mani non più inerti somme di beni strumentali ma una vera e propria opera d’arte. Niente paura! Si munisca allora delle specifico blocco per Ddt e si autoemetta in loco il necessario Documento per il trasporto sulla via del ritorno.

 

Amedeo Modigliani, artista ribelle e maledetto, deluso da una città ingrata, lasciò Livorno inviperito non senza avere nottetempo sprofondato nel Fosso Reale una catasta di pietre scolpite. Lo fece sconsideratamente e oggi non potrebbe impunemente ripetere quel gesto plateale a meno di non essere provvisto di regolare Documento per il trasporto in carriola dei pallidi sassi e il nulla osta dei competenti uffici preposti alla distruzione di quei presunti refusi della creatività.

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