Jackie Kennedy la parisienne
Si comportava come un’americana ma pensava come una francese. La jeunesse dorée della donna simbolo di grazia e bellezza. Un libro
Jacqueline Kennedy passò l’estate del 1963 sulla costiera amalfitana. Aveva raggiunto la sorella a Conca dei Marini, e di quella famosa vacanza molti di noi ricordano l’iconografia da rotocalco di una silfide che, avvolta in una maglietta nera e in un pantalone bianco alla pescatora, cammina a piedi nudi con in mano i sandali capresi, accanto a Gianni Agnelli sotto i flash dei paparazzi. Quell’estate, in realtà, la First Lady americana era anche impegnata in un corteggiamento diplomatico del ministro della Cultura francese, André Malraux. Trattava direttamente con lui per far tornare al museo di Atlanta un quadro di Whistler, e per cercare di portare la Gioconda in America. “Je suis un peu détachée de la vie actuelle ici” gli scriveva il 26 agosto 1963 nel suo francese compito, ma non del tutto mondo da qualche erroruccio, sebbene fosse venato di autoironia: “Les cosmonautes russe étaient dans l’air trois jours avant que j’ai découvert qu’ils étaient là – un état qui n’est pas sans charme – mais qui non plus est très propice pour arranger une chose aussi important (sic) que votre offre de Whistler’s Mother à la musée (sic) d’Atlante”. Questa lettera è stata riesumata di recente da Alice Kaplan, una francesista di Yale, studiosa fra l’altro del processo e della condanna a morte di Robert Brasillach, e fresca autrice di un saggio interessantissimo (“Dreaming in French. The Paris Years of Jacqueline Bouvier Kennedy”, Susan Sontag e Angela Davies, University of Chicago Press) perché rivelatore del carattere e della vera indole della ragazza americana destinata a diventare la perfetta incarnazione della grazia, della bellezza e del potere nella seconda metà del XX secolo.
Trattava direttamente con il ministro della Cultura francese per far tornare al museo di Atlanta un quadro di Whistler
La lettera spedita a Malraux da Ravello nell’estate 1963 era una delle tante che Jacqueline Kennedy scrisse a politici e capi di stato durante i suoi mille giorni alla Casa Bianca. “Erano lettere amichevoli, piene di chiacchiere”, spiegò in un’intervista del 1964 la sua segretaria alla Casa Bianca per gli affari sociali Letitia Baldrige Hollensteiner, raccontando come nell’East Wing diventavano pazzi “perché non esistevano brutte copie e nemmeno copie in carta carbone, e non sapevamo cosa dicesse”. Jacqueline Kennedy, in effetti, aveva l’abitudine di scrivere a mano, vergando pagine su pagine nella sua grafia alta, tondeggiante e marcata, per rivolgersi personalmente a capi di stato come il presidente francese De Gaulle o a primi ministri come l’indiano Nehru. Cosa che nessun’altra First Lady aveva osato fare prima di lei, e nessun altro presidente americano aveva mai autorizzato. In assenza di minute o di copie carbone è improbabile, dunque, che da qualche fondo d’archivio americano spuntino fuori altre lettere di Jacqueline Kennedy First Lady. Difficile pure pensare che riaffiorino un giorno o l’altro dall’archivio personale di De Gaulle, ancora secretato per i documenti che vanno dal 1958 in poi. Certo è vero che nel 2011, per il cinquantenario della presidenza Kennedy, il JFK Presidential Library and Museum ha annunciato l’inizio della schedatura delle carte personali di Jacqueline Kennedy, compresi gli album realizzati da e per lei, prima, durante e dopo l’incarico alla Casa Bianca, e ha reso pubblici i nastri della famosa intervista concessa nel 1964 a Arthur Schlesinger jr. Ma bisognerà aspettarne una disamina completa. In compenso, oggi è possibile leggere alcune lettere famose, come quella di ringraziamento che Jacqueline Kennedy mandò a Charles de Gaulle dopo la visita di stato a Parigi nel giugno 1961: “Ognuno ha il proprio eroe nella storia. Ma sono quasi sempre personaggi del passato, come Luigi XI, Luigi XVI, Napoleone – di cui lei mi ha parlato”, scriveva la First Lady rivolgendosi in francese all’eroe della “Libération”, divenuto il fondatore della Quinta repubblica e il suo primo presidente. “Io però ho avuto il privilegio, l’onore e la fortuna di incontrare il mio eroe”, aggiungeva Jacqueline, scusandosi di scrivere in modo personale e sperando che egli avrebbe perdonato i suoi errori di francese. Grande prova di seduzione e di abilità, insomma, e del resto non era la prima. Alla vigilia della partenza per Parigi, quando i giornalisti francesi si presentarono alla Casa Bianca per intervistarla, e il New York Times insinuò perfidamente che volevano testarne la conoscenza del francese, la First Lady li sbaragliò sussurrando risposte ellittiche con la sua vocina sospirosa, arrotando le r, e nascondendo artatamente le piccole incertezze sui congiuntivi o sull’accordo del participio passato. Tutto sotto controllo, insomma. Per la visita di stato, d’altra parte, lei stessa aveva dettato l’agenda, suggerendo di assistere a un balletto a Versailles, anziché a una pièce di teatro (perché il marito presidente, che non sopportava nemmeno il termine “consommé” sui menu della Casa Bianca, rischiava di non capire una parola) e indicando che avrebbe voluto incontrare Malraux e averlo seduto accanto a lei nei pranzi ufficiali. Inoltre, per i ricevimenti in programma all’Eliseo e all’Hotel de Ville aveva trasmesso la lista degli amici personali che avrebbe voluto rivedere, qualche giovane aristocratico conosciuto da ragazza, e persino la direttrice del programma di studi all’estero per i giovani universitari americani, che aveva seguito quando frequentava ancora il Vassar College, e alla quale era rimasta fedele. “Ecco la donna che mi ha insegnato ad amare la Francia” disse la First Lady presentando a Malraux Mademoiselle Saleil, una sessantenne professoressa di inglese dall’aria minuta.
Sin da ragazza la futura First Lady era un genio del brassage social, abilissima però nel tenere separati i vari mondi in cui orbitava
Eppure solo dieci anni prima Jeanne Saleil aveva dato un giudizio non proprio lusinghiero su quella ventenne francesista del Vassar College, che aveva fatto di tutto per partire in trasferta a Grenoble e a Parigi insieme a un gruppo di studentesse dello Smith College. “Jacqueline Bouvier è così brillante, che potrebbe essere una studentessa stellare, ma non si è tuffata nella vita intellettuale. Il suo cuore è altrove”, confidò Mlle Saleil a Martha Rusk, un’altra compagna di studi di Jacqueline, sperando forse che lo riferisse all’interessata. Oggi così di quel primo soggiorno in Francia di Jacqueline Bouvier nell’anno 1949-50, grazie a Alice Kaplan, disponiamo di una ricostruzione meticolosa, realizzata sulla base non solo di molti documenti amministrativi ufficiali, ma soprattutto della diretta testimonianze di alcune delle studentesse di sessant’anni orsono, che, ritrovate al culmine delle rispettive carriere – chi editrice di libri per bambini, chi redattrice del Reader Digest, chi prof di inglese, chi illustratrice e autrice di libri d’arte – e intervistate dall’autrice, hanno condiviso con lei i ricordi di gioventù, mettendole a disposizione foto, lettere, libri di appunti e memorie.
Da quel primo soggiorno in Francia, in realtà, Jacqueline Bouvier imparò molto di più di quello che doveva mostrare. Timida, felina, osservatrice attenta, dotata di intelligenza ipersensibile, ma alquanto enigmatica, lei stessa l’anno dopo ne avrebbe apprezzato il risultato: “I learned not to be ashamed of a real hunger for knowledge, something I had always tried to hide” (“Ho imparato a non vergognarmi di quella vera fame conoscenza, che avevo sempre cercato di nascondere”), scrisse candidandosi nel 1951 al famoso concorso per il Prix de Paris, bandito dalla rivista di moda Vogue, per uno stage di sei mesi nella redazione di Parigi e di altri sei in quella di New York, che vincerà, prima su 1.800, nonostante il ritardo, la richiesta di deroghe per mancanza di dattilografa e l’assenza dalla presentazione, dopo una prova fantastica (“è una vera scrittrice” diranno gli esaminatori estasiati dai dettagli rivelatori di sensibilità nel racconto della morte del nonno, e dell’originale acume nell’ autoritratto) e al quale premio rinuncerà per obbedire alla madre e puntare esclusivamente sul “male horse”.
Francesista del Vassar College, aveva fatto di tutto per partire in trasferta a Grenoble e a Parigi insieme a un gruppo di studentesse
Fin da bambina era stata francofila. Figlia primogenita di Jack Bouvier Vernou, un bellissimo agente di Borsa ridotto sul lastrico, che divorzia dalla moglie quando lei ha undici anni, aveva un cognome francese e un nome che pronunciava alla francese. Quando la madre si risposò col ricchissimo e sbiadito Hugh Auchincloss, un patrizio della Virginia che per lei e sua sorella sarà un padrone di casa più che un patrigno, Jacqueline cercherà nella francosfera il suo riscatto e la sua identità. Il nonno paterno del resto, un ricco avvocato di New York, che volle mettere per iscritto il racconto dell’ascesa sociale di famiglia, nel 1927 aveva pubblicato a sue spese un libro, Our Forebears, in cui descriveva i Bouvier come “un antico casato di Fontaine nei pressi di Grenoble”, e i Vernou come “una delle più illustri e antiche famiglie del Poitou”, ricostruendo persino l’annessa araldica e i titoli nobiliari conquistati col servizio ai membri del Parlamento, da quegli antenati animati da zelo rivoluzionario e però leali all’aristocrazia francese, visto che il capostipite americano, Michel Bouvier, era un veterano dell’esercito di Napoleone, approdato nel 1817 a Filadelfia, e destinato a una ricca carriera come carpentiere, arredatore di Giuseppe Bonaparte e poi speculatore sul mercato di carbone. Il viaggio a Parigi di Jacqueline dunque fu una migrazione al contrario, un ritorno alle radici, sulle tracce della leggenda famigliare, ben presto smentita dalla realtà. Claude de Renty, la ragazza parigina che l’accolse come ospite pagante nell’appartamento di avenue Mozart in cui viveva con la madre e altre studentesse, ricorderà Jacqueline alle prese con le ricerche genealogiche, e pronta a un sopralluogo a Pont Saint Esprit, il paesino d’origine nel Midi, durante il viaggio che fecero insieme nell’estate 1950 con i rampolli du Luart e de Lubersac.
Fin da bambina era stata francofila. Aveva un cognome francese e un nome che pronunciava alla francese
Il fatto è che sin da ragazza la futura First Lady era un genio del brassage social, abilissima però nel tenere separati i vari mondi in cui orbitava la sua esistenza. “Io ho davvero due vite” scriverà al fratellastro Yusha Auchincloss: “Dall’appartamento dei de Renty volo alla Sorbona e ai seminari di Reid Hall, in una tranquilla giornata piovosa, e poi, come una ragazza in libera uscita, mi metto la pelliccia per andare in centro e fare l’elegante al Ritz. Adesso ho l’assoluta mania di imparare a parlare francese alla perfezione. In casa non diciamo una parola di inglese, non vedo molti americani”. E così, per la francesista del Vassar College, che da ragazza scriveva poesie sull’amore in versione bilingue e da First Lady avrebbe continuato a leggere Proust e le Memorie di Saint Simon lasciando sgomenti i consiglieri del marito, i seminari su Maupassant alla Sorbona e i corsi di storia dell’arte si alternavano alle colazioni da Balzar con Paul de Ganay, cugino di un amico degli Auchincloss con villa a Newport, e suo chaperon nel mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francese, fra chassse à courre nel castello di Courances e feste di gala. Una vecchia foto riemersa dai ricordi di Claude de Renty, lo ritrae biondo, atletico e sorridente, in smoking come gli altri giovanotti del bel mondo, Henri de Clermont Tonnerre, Jacques Firmin-Didot, Jean de Maré, Louis de Gontaut-Biron, assiepati su una scala insieme a una mezza dozzina di fanciulle per il ballo al Ledoyen nel marzo 1950. Jacqueline, elegantissima in un abito da sera nero senza maniche, che lasciva scoperte le spalle perfette, figura in piedi in primo piano, bellissima, ieratica, padrona di sé e oggetto di sfacciata ammirazione da parte di Sabine de Noailles. Sembra accennare a un sorriso, come se fosse in posa, che equivale alla capacità di arrendersi alla macchina fotografica, e fissa lo sguardo oltre l’obiettivo su un altrove inaccessibile, come se fosse perfettamente conscia di non far parte di quel mondo della jeunesse dorée parigina, e nemmeno di quell’altro delle brave studentesse americane in trasferta a Parigi. Come se navigasse già verso un’altra meta, una meta incerta, di sicuro sconosciuta, forse soltanto interiore, ma perseguibile a costo di esercitare su di sé quella ferrea disciplina e l’estrema accortezza che di lì a poco le avrebbero permesso di conquistare un giovane senatore del Massachusetts, col quale entrare nella leggenda.