Il Cristo della chiesa di San Giovanni Evangelista, a Scicli, firmato e datato: “Don Juan de Parlaz(er)in fecìt anno 1696”

Un Cristo con la gonna

Nadia Terranova

Si trova in Sicilia, raffigurato in un quadro del Seicento spagnolo, mistico e miscredente. A pochi metri di distanza pure una Madonna con la spada che schiaccia la testa ai saraceni

In via Mormino Penna, a Scicli, il commissariato più fotografato d’Italia splende di luce bianca e si offre ai turisti che con un leggero sforzo possono immaginare il loro idolo mentre si affaccia e li saluta, “Montalbano sono!”

 

Siccome, però, ogni cosa in Sicilia è un’illusione, il commissariato non è un vero commissariato: è il municipio della città, e questo lo sanno tutti – quello che meno si dice è che al suo posto c’era un monastero fondato nel 1650 da Donna Giovanna Di Stefano, baronessa di Donnabruna, la quale rimasta vedova di un castellano di Lentini sposò in seconde nozze un nobile spagnolo, Don Girolamo Ribera. Nel 1687, nel monastero che Donna Giovanna volle dedicare a San Giovanni Evangelista, c’erano dodici suore, e dieci anni dopo, quando la baronessa era con ogni probabilità già morta, dalla Spagna, su commissione sua o di chissà quale erede, piombò in mezzo alle monache un quadro decisamente originale: un Cristo su fondo scuro con addosso una gonna lunga, biancoargentea, orlata da un elaborato merletto a sfiorare, sensuale, le caviglie. Per il resto, questo Cristo ispano-sciclitano è regolarmente in croce, martoriato da una quindicina di ferite, il viso rassegnato e reclinante cinto dalla consueta corona di spine, ai piedi due coppe e un uovo di struzzo per ricordare ai fedeli la perfezione della rinascita. E’ firmato e datato: Don Juan de Parlaz(er)in fecìt anno 1696. Nessun dettaglio, insomma, tradirebbe la tradizione, se non fosse che non indossa né il perizoma né il colobio né una veste sacerdotale, soltanto una gonnella chiara e aggraziata sotto il torso lungo e magro.

 

Il commissariato di Vigata è in realtà il municipio di Scicli. E al suo posto una volta c’era un monastero, fondato nel 1650

Tutti i siciliani sanno che a ridosso della costa iblea, costa di miele e fiele, si verificano regolari prodigi, siamo pur sempre più a sud di Tunisi e ogni visione può essere raccontata come una botta di caldo: seduta al bar di fronte al commissariato-municipio-convento decostruisco la scenografia televisiva e ricostruisco la scena secentesca, e mentre finisco il mio caffè con la brioscia mi pare di sentire il clamore, i bisbigli nella comunità quando arriva il dono dalla Spagna, m’immagino le dicerie e le leggende intorno al Cristo femmineo, la sua permanenza fra le donne di fede. Non posso resistere, devo andare a guardarlo dal vivo, alla ragazza che mi porta via la tazzina chiedo quando apre la chiesa di San Giovanni Evangelista, che posta sul fianco è quel che resta del fu convento e lei mi guarda strano, stranissimo, non lo so – risponde – io l’ho vista aperta solo per i matrimoni. Giusto: chi meglio di una creatura androgina potrebbe benedire un’unione eterna, un perpetuo fondersi degli opposti. Non credo alla ragazza – può essere che una simile meraviglia non sia visitabile a tutte le ore? Mi avvicino e la chiesa è serrata, ma fa caldo e nulla è reale, potrei essere io a non avere forza nelle braccia per spingere la porta, mi allontano per prendere in un chiosco non distante una limonata al sale, che qui chiamano sgricciu: disseta e alza la pressione, si beve per forza seduti sulle panchine all’ombra, come dentro un’oasi. Ho sempre pensato che questa nostra ricetta siculo-orientale sia nata per regolare le allucinazioni, è la nostra bevanda del deserto, quindi una volta tornata in me risalgo tutta la strada fino a via Penna e infatti adesso la chiesa è aperta, o forse grazie alla pozione magica le mie braccia sono diventate più forti.

 

Dentro, a sinistra, Cristo ha davvero la gonna – il mio stupore nel vederlo dal vivo è eccessivo, ho temuto fosse un sogno, un mito perduto e inafferrabile come una ninfa o un satiro. E’ un quadro originale ma non unico, pare ce ne sia un altro vicino Como e pochi altri qua e là in Spagna; pare facciano tutti capo a Burgos, dove nella Chiesa Madre ce n’è uno ligneo e rivestito di pelle umana (ah, crudelissimi spagnoli!) Nessuno di questi crocifissi in gonnella, però, ha la stessa vicina di casa di quello di Scicli: qui, a poche centinaia di metri dal Cristo femmineo, abita una Madonna amazzone, guerriera e armata che, come fosse ogni giorno una mattina del 1091, ha appena ucciso due saraceni. E’ giusto che sia così, che un Cristo con la gonna e una Madonna con la spada siano i fauni di vie barocche, portali stracarichi e alte, bizzarre balconate.

 

Il mare ha preso la brutta usanza di restituire cadaveri. Poco più su, al cimitero, tombe senza lapidi e foglietti stropicciati dal vento

Forte dell’ebbrezza del gricciu non temo i deliri e mi incammino verso la Chiesa Madre, o di sant’Ignazio, dove questa volta trovo le porte già spalancate. Per rimirare la statua della Maria delle Milizie devo mettere un soldino nella fessura, fiat lux e mi prende un colpo: le due teste di turchi scafazzati senza pietà dallo zoccolo del cavallo dell’Amazzone mi guardano con gli occhi e le lingue di fuori. Nessuna pietà per loro, da parte della Vergine. Ah, crudelissima Maria! Pare che in passato, per rispetto dei visitatori africani, le teste morte venissero coperte da un panno: ricordare quando la nostra dea, arrabbiata e su di giri, aveva fatto fuori qualche soldato dei loro non pareva il miglior modo di dare il benvenuto agli ospiti; ormai invece, caduto ogni ritegno, si fa festa grande portando a spasso per il paese la soldatessa di cartapesta e mangiando i dolcetti tipici sciclitani, che si chiamano, ovviamente, “teste di turco.” Se un paese africano ci accogliesse mangiando teste di cristiani e festeggiando un saraceno che ha ammazzato due donne bianche richiameremmo a casa l’ambasciatore e urleremmo alla shari’a, ma i dolcetti sono squisiti e posso chiudere quel brutto pensiero nel cassetto, è anch’esso una visione, nient’altro che una visione, un altro sgricciu e passa la paura. Del resto, quando a maggio il carro con la Madonna mascolina se ne va in giro per Scicli non è il pride ma tradizione in purezza. E, per tutto l’anno, in ogni chiesa di Scicli c’è almeno un quadro della santissima guerriera, mi spiega un gentile custode apparso all’improvviso alle mie spalle, magrolino ed elfico come il Cristo di Burgos. E’ lui a narrarmi altri fatti insoliti e mostrarmi nuovi prodigi, come quello del dipinto che raffigura il miracolo della pastasciutta (no, questo non ve lo racconto: bisogna pur che andiate a Scicli a toccare per credere). Quando gli chiedo come si chiama mi sussurra in un soffio: come Ulisse disse di chiamarsi a Polifemo; allora grazie, signor Nessuno – c’è sempre un signor Nessuno da ringraziare in un viaggio, ed è sempre quello che bisogna ringraziare più di tutti.

 



 

Bevo una limonata al sale. Ho sempre pensato che questa nostra ricetta siculo-orientale sia nata per regolare le allucinazioni

Poi, all’improvviso, il sole comincia a calare. Il caldo si smorza, si trasforma in qualcosa di diverso, in una luce meno accecante e più pervasiva, un bluette che tutto avvolge – faccio in tempo a scappare qualche chilometro più in giù, a percorrere la strada che fiancheggia le spiagge, le rocce, il tramonto: Donnalucata, Sampieri, Cava d’Aliga. E’ qui che mi fermo a guardare il mare africano, tra agavi e palme su sabbia bianchissima o su scogli impervi e mi pare di scorgere la Tunisia all’orizzonte: ennesima allucinazione, anche ora che è finito il mezzodì ed è finito pure lo sgricciu. Le creature della sera non sono più statue e quadri ma i miei amici Carlo e Giusy, sposati da qualche decennio, un siciliano alto e chiaro e una veneta con le lentiggini e i capelli rossi, bellissimi e amorosi. Con loro mi spingo all’ingresso della ciaccazza, o spaccazza, una fessura nella roccia da attraversare come l’Origine del mondo di Courbet, per rinascere sull’acqua; è un canyon non più grande di un corpo umano non sovrappeso, ma gli iblei non temono claustrofobie e si portano dietro bambini, ombrelloni e borse frigo, alla fine si sbuca su uno scoglio per tuffarsi nell’acqua più trasparente che c’è. C’è sempre una storia di grotte, nella costa ragusana: poco più avanti, a Punta Secca, dove tutti vanno a visitare la casa del commissario, se uno riesce a chiudere gli occhi e far sparire la scenografia compare un altro set, ovvero la grotta di Ernesto. E’ attraversabile solo con l’immaginazione, perché è crollata molto tempo fa. Ne vengo a sapere la storia da un libro di Lucio Mandarà, che sfoglio di notte, insonne: per qualche tempo, all’inizio del secolo, fu abitata da un misterioso eremita sulla cui origine circolavano mormorii e ipotesi. Vestito di fustagno, baffi e capelli un po’ biondi e un po’ imbiancati, lo sguardo chiaro e assorto, Ernesto Terdich era una spia austriaca, un ufficiale di cavalleria accusato di un delitto, che aveva cercato e trovato rifugio tra gli scogli di un villaggio con quattro case. Il giorno che faccio un bagno a Punta Secca, dalle onde un bagnante ha tirato fuori un drone, un elicottero giocattolo, e lo sta ripulendo dalla salsedine. Non proprio un relitto di guerra ma la presa in giro del tempo che fu, quello di Ernesto di cui si è persa memoria, e chissà chi era davvero, delinquente o vittima di un equivoco, in fondo che importa? “Venne alla spiaggia un assassino”, recitano un verso di De André e il titolo di un libro di Elena Stancanelli: così si mescolano le storie sulla costa iblea, religiose, amorose, guerresche – quelle che tutti raccontano e quelle che nessuno racconta.

 

Per tutto l’anno, in ogni chiesa di Scicli c’è almeno un quadro della santissima guerriera. In un dipinto il miracolo della pastasciutta

Il mare che ho davanti, quello di cui la Madonna guerriera e il Cristo in gonnella sentono in città il profumo, quello davanti al quale viveva Guccione che lo inventò con i suoi quadri, variazioni infinite sulla linea che divide il blu dell’acqua da quello dell’aria, dovrebbe essere un mare di benvenuto e invece in tempi recenti ha preso la brutta usanza di restituire cadaveri. Poco più su, al cimitero di Scicli, tombe senza lapidi, senza marmi, con croci improvvisate e foglietti stropicciati dal vento: mi fermo davanti all’“immigrato 11” e mi ricordo dell’incipit di Uomini e caporali, di Alessandro Leogrande, dove nel mezzo della campagna delle Puglie una contadina vedova impiegava i suoi risparmi per costruire una tomba a un bracciante polacco dal nome ignoto. Chissà se accadrà anche quiggiù, per dare riposo ai morti senza nome della città: nella Scicli magnificata da Elio Vittorini nelle Città del mondo, viene detto che anche il povero è trattato come un principe – così mi ricorda Carlo, così è giusto che sia, così dovremmo fare e pensare e questa storia, fra tutte quelle iblee, è una di quelle che bisognerebbe cominciare a scrivere.

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