Pranzi e cene da romanzo
Dove si consumano inganni, si fanno figuracce o si corteggia l’amata. Attenti ai cetrioli, però
I pasti, nei romanzi, sono il pranzo e la cena. Di rado la colazione del mattino. I pranzi e le cene, come le feste da ballo, servono per dare una spintarella alla trama: chi bisogna invitare, chi non verrà mai invitato, la frenesia dei preparativi, gli abiti delle signore, gli intrighi adulterini, i dialoghi e i pettegolezzi, le grandi e piccole manovre matrimoniali. Nulla di tutto questo può succedere all’ora del breakfast. Già più interessante, per gli intrighi, l’ora del tè (per chi, almeno, poteva permettersela: gli inglesi poveri bevevano acqua sporca zuccherata).
Senza l’ora del tè, con abbondanza di tartine al cetriolo, non avremmo “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde. E neppure la certezza che “Perdere un genitore è sfortuna, perderne due è distrazione”. C’era anche chi dissentiva: non sui genitori e la loro perdita, ma sulla bontà del cetriolo. Samuel Johnson, per esempio: l’uomo che nel Settecento scrisse da solo il primo dizionario della lingua inglese (per questo oggi Boris Johnson e i suoi compatrioti hanno a disposizione un ricco lessico, anche di insulti inventati da William Shakespeare, da usare contro gli avversari politici). “Prendete un cetriolo, affettatelo sottile, cospargetelo di sale perché cacci l’acqua, poi buttatelo via perché non serve a niente”. Era questa la ricetta di Mr Johnson, che peraltro riteneva i drammi di Shakespeare sprecati per il palcoscenico.
Nel “Grande Gatsby”, lo spremiagrumi riesce a spremere 200 arance l’ora, se il maggiordomo preme 200 volte di seguito il bottone che mette in moto il macchinario (se solo sapessero, gli scrittori che si occupano di trentenni e di precari, il piacere che Francis Scott Fitzgerald prova – e fa provare a noi lettori – quando racconta i ricchi). Arance e limoni arrivano a cesti dalla California. I party – senza invito formale, per impressionare tutti i vicini di villa, sperando che l’amata Daisy ne senta parlare e si incuriosisca – sono sfarzosi in proporzione. Gli antipasti risplendono, le insalate sono un’arlecchinata, tra un trionfo di prosciutti e pasticci di maiale o tacchino che in una traduzione italiana abbiamo visto figurare come “rustici” avvelenando la poesia. Per un tè, servono dodici torte al limone (Daisy si presenta solo perché è stata invitata da Nick, amico di Gatsby e narratore della vicenda, con l’inganno).
A tavola, o nei dintorni, si consumano inganni e si fanno figuracce. Nei “Viceré” di Federico De Roberto, il giovane Blasco Uzeda viene convinto a farsi monaco benedettino – contro la sua volontà e in assenza di qualsivoglia vocazione – con il miraggio dell’abbondanza. Gli racconta la principessa sua madre, un po’ per spingerlo verso il convento e un po’ per verità, che i monaci ogni anno consumano un centimetro dei taglieri di cucina. Mangiano a crepapelle e bevono a volontà, insiste la principessa, mentre noi dobbiamo tirare la cinghia. Basco si fa convincere, al cibo aggiungerà il gioco d’azzardo, e numerose amanti da cui avrà numerosi figli.
Nella “Fiera della vanità” di William Thackeray, Becky Sharp appena uscita di collegio scopre il cibo indiano. Siccome ha appena detto – mentendo spudoratamente per accalappiare un buon partito, “dell’India mi piace tutto” – mette in bocca un pezzo di piccantissimo curry. Cerca rimedio in una cosa fresca e verde – magari anche gli indiani hanno i cetrioli, chissà? – e la mastica per spegnere l’incendio. Rimedio peggiore del male, era un peperoncino. Sacrificio non ripagato: le sfugge anche il grasso (e goffo, anche se ha girato l’impero) giovanotto.