Al cuore della letteratura oracolare di Borges c'è il destino sempre cifrato
Il 120° anniversario della nascita dello scrittore
"Sourtout, pas de zèle". In occasioni come questa, in cui si celebra il centoventesimo anniversario della nascita di un mostro sacro come Jorge Luis Borges, l’ammonimento di Talleyrand andrebbe raccomandato con forza agli addetti alla manutenzione del mito, spesso inclini a esagerare con il fervore apologetico. Così, anche considerando che lo scrittore argentino non fu del tutto estraneo alla propria museificazione, in fondo quasi un inevitabile contrappasso per chi concepiva l’universo sotto forma di una biblioteca, ci piace iniziare la sua commemorazione citando i suoi detrattori più illustri e pervicaci. Fra questi, un posto di rilievo spetta al burbero Elias Canetti, per certi versi non molto distante da Borges nella sua visione del mondo, che però in uno dei suoi appunti pubblicati postumi dichiarò: “Borges non mi piace affatto. Non cozza con la pietra. La blandisce”.
Questo tipo di rimprovero, riguardante il suo olimpico distacco anche stilistico dall’attualità, negli anni della contestazione e in quelli di piombo gli costò un ostracismo sprezzante da parte degli intellettuali più engagé, al punto che Moravia si compiacque di definire la sua poesia “ormai infrequentabile”; proprio lui, così “frequentevole” e mondano. Ma Borges non se ne curava. In un paio di occasioni si limitò a replicare ironicamente che la definizione di “letteratura impegnata” gli pareva incongrua e risibile quanto quella della “equitazione protestante”. Ma fu Giovanni Raboni, in un articolo del 1977 (poi incluso nella raccolta dei saggi I bei tempi dei brutti libri), a sferrare l’attacco più duro e circostanziato. Il poeta e critico milanese rimproverò a Borges il fatto che “i suoi viaggi nel labirinto hanno l’aria di seguire un minuzioso, e tutto sommato rassicurante, sistema di frecce direzionali”.
Il non expedit fu rimosso poco tempo dopo, quando si smaltì definitivamente l’ubriacatura ideologica di quegli anni, ciononostante anche più di recente, sempre sulla scia di Raboni, Moresco e i paladini della “attitudine da combattimento e di sogno” – che non so bene cosa sia ma a volte mi capita di assumerla in bagno – hanno proclamato che oggi nulla è più consolatorio della figura borgesiana e calviniana del labirinto. Si potrebbe obiettare, come ha fatto il critico Matteo di Gesù, che in verità non c’è nulla di più consolatorio di una letteratura seria che voglia intestarsi la denuncia della consolatorietà di determinati temi letterari, oppure si potrebbe rimarcare che la consolatorietà dipende non già dai contenuti rappresentati, ma dalle modalità di fruizione. In questo senso, che il viaggio con Borges sia low cost, col biglietto di ritorno prepagato e un’apposita segnaletica, che insomma l’eroina convoli a giuste nozze o si butti sotto un treno, non ha grande importanza. L’approccio consolatorio va piuttosto ricercato nelle opinioni ugualmente ingannevoli che questa letteratura “dica”, cioè che costituisca una rappresentazione trasparente della realtà e una sua modellizzazione, oppure che “nasconda”, cioè che sia sostanzialmente fiction, immaginazione di mondi alternativi o virtuali, ma comunque provvisti dei caratteri dell’inattualità.
Per Borges, l’atto estetico consiste nell’imminenza di una rivelazione che non si produce, e che ciascuno deve produrre per sé. Per lui la letteratura era un’espressione oracolare, dato che, come avvertiva Eraclito, la sentenza dell’oracolo “non dice né nasconde, ma accenna”. Essendo il luogo del simbolico, dove segno e referente non si risolvono l’uno nell’altro ma convivono nella separazione, non può essere consolatoria in quanto non è mai conciliante, non soddisfa interamente, e questa mancata risoluzione provoca una sottile inquietudine. Come ogni espressione oracolare, il tema centrale della letteratura borgesiana è quello del destino, che per l’argentino è sempre cifrato e riassunto in un evento privilegiato che lo definisce e rivela a sé stesso. Nei racconti Il Sud, Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, I teologi, Storia del guerriero e della prigioniera e La morte e la bussola (per citare i casi più evidenti), il destino è svolta, varco improvviso, agnizione fatale.
I protagonisti di queste storie compiono un atto di libertà e insieme una coazione, perché le loro azioni obbediscono a un impulso irrazionale e profondo che li porta a scegliere ed accettare perfino una fine infausta. Destini paralleli e opposti, come nella Storia del guerriero e della prigioniera, in cui il longobardo Droculft abbandona il suo popolo per schierarsi con il nemico, mentre la ragazza inglese rapita dagli indiani finisce per sposare il suo rapitore e la causa della sua gente. O come nei Teologi, in cui le parti speculari dell’eretico e dell’ortodosso si scambiano e si confondono fino a rendersi indistinguibili, giacché agli occhi di Dio gli opposti s’incontrano, sono le due facce della stessa medaglia. L’unità del molteplice e la pluralità del singolo costituiscono uno dei temi portanti della scrittura borgesiana, che riaffiora carsicamente sia nei racconti che nelle poesie e nei saggi. L’identità mutevole che attraversa lo spazio e il tempo svela le segrete affinità che legano destini apparentemente lontanissimi. Nell’escatologia rovesciata di Borges, il tempo si curva fino a invertire la sua direzione, e così avviene che Kafka crei i propri precursori e noi si stia come le mummie di Ruysch, intenti a propiziarci il passato, più che il futuro. Ogni anacronismo diventa lecito, la causa è posteriore all’effetto, la sorgente è a valle, come notò Gerard Genette.
Un altro corollario del suo antistoricismo è l’idea panteistica, enunciata in Tlon, Uqbar Orbis Tetius, secondo la quale tutta la letteratura universale non è altro che una vasta creazione anonima, in cui ogni autore è soltanto l’incarnazione fortuita di uno spirito atemporale capace d’ispirare la più bella delle poesie al più mediocre dei poeti. Questa è la ragione per cui il miracolo dell’Aleph è appannaggio del tronfio Carlos Argentino Daneri. L’infinito si cela in qualunque angolo, polveroso e dimenticato, della quotidianità, e la capacità di scorgerlo e rivelarlo è affidata al nostro sguardo, allo sguardo di chiunque si disponga all’ascolto. Ecco perché è necessaria la collaborazione del lettore alla costruzione del senso dell’opera, perché il sapore dell’arancia non sta nel frutto e neppure nel palato di chi l’assaggia, ma nel loro incontro. La comunione postulata dall’estetica borgesiana ci svela che all’interno del labirinto non siamo soli, e tuttavia se è vero che lungo il percorso siamo assistiti da una comoda segnaletica, è altrettanto vero che quelle frecce non ci guidano verso la salvezza. Forse, la sensazione di caduta che spesso ci accompagna nella lettura dei suoi testi, come fosse l’ineluttabile adempimento di un destino antropologico, in cui ciascuno sdrucciola suo malgrado verso il precipizio come i porci di Gerasa, nasce proprio da questa amara consapevolezza. Condotti al centro, dritto nelle fauci del Minotauro, scopriamo infine che là dove temevamo d’incontrare il mostro, in realtà c’è uno specchio.