All'amante ignoto
Incastonata nel muro di San Satiro c’è la dedica alla moglie di uno schiavo romano. Da vedere
Ci sono storie che s’insinuano in silenzio e ti tengono in ostaggio finché non ti ci dedichi completamente, raccontandole a qualcuno. Una di queste riguarda la chiesa di Santa Maria presso San Satiro, dietro al Duomo, meta di tanti pellegrini dell’arte che vi si recano soprattutto per ammirare la finta abside creata dal Bramante. In verità San Satiro è bella sia dentro che fuori, ma solo visitando il suo esterno è possibile fare uno di quegli incontri compiutamente poetici capaci di volgere la realtà in figura, vale a dire in destino. Il destino in questione è quello di uno schiavo romano, e la sua storia è giunta fino a noi grazie al reimpiego di materiali antichi, che era una pratica molto diffusa nel Medioevo. Per leggere il suo epitaffio bisogna sostare di fronte al campanile della chiesa, uno dei più antichi di Milano, nel tratto finale di via Speronari che confina col neonato largo Jorge Luis Borges. Lì, nel paramento di mattoni anneriti, ad altezza d’uomo si può notare una lapide romana collocata di traverso e scorciata al punto da rendere anonimo il suo titolare, rivelando così la natura interrogativa di ogni epigrafe, la cui iscrizione è una specie di appello rivolto all’osservatore affinché racconti e immagini la storia di quella vita inavvertita.
Nell’antica Roma le lapidi svolgevano una funzione promozionale, venivano esposte lungo le vie più trafficate per essere lette da tanti e le dimensioni, la qualità della pietra e la bellezza della grafia fungevano da status symbol, per cui era d’obbligo autorappresentarsi al meglio. I più vantavano parentele altolocate seppur lontane, un po’ come se oggi si dicesse che il morto aveva un cugino sottosegretario. Quella in via degli Speronari appartiene a un servo, la condizione più infima della scala sociale, un mero attrezzo da lavoro dotato di voce (instrumenta vocalia), come allora veniva considerato. Ma quest’ultimo degli ultimi era uno schiavo speciale, diverso dagli altri, e poteva rivendicarlo con orgoglio perché era al servizio dell’imperatore, il vertice di tutta la piramide, probabilmente al tempo in cui Milano era capitale dell’impero. Lo schiavo non dice nulla di sé, si limita solo a dedicare la sua piccola lapide alla moglie adorata, donna di grandi virtù “cum qua vixit sine ulla macula”, con la quale visse senza mai uno screzio. Questo monumento all’amante ignoto andrebbe omaggiato in qualche modo romantico, ma forse per questo servirebbe una narrazione adeguata (uno storytelling, direbbero alla scuola Holden), alla Moccia, come quella dei lucchetti di Ponte Milvio. Nel frattempo lo smog sta corrodendo sempre più l’iscrizione, e già oggi più che leggerla la si intuisce. Fra poco, della vita di quello schiavo innamorato si sarà persa ogni traccia, a meno che esista una memoria dell’universo, come congetturarono i teosofi.