Il diario di un morto di fame che insegna a vivere e a non perdere tempo
Valentino Zeichen e il racconto di un'agonia letteraria romana
Stanotte vado a letto senza cenare. Digiuno dietetico, precauzione igienica, purificazione? La verità è che non ho niente da mettere sotto i denti”. Quello di Valentino Zeichen è un diario della fame, il racconto di un’agonia letteraria romana, l’attualizzazione della massima latina “carmina non dant panem”. Al poeta Zeichen le poesie procuravano molti inviti a cena, è vero, ma fra un invito e l’altro era complicato riempire il frigorifero, nella baracca a pochi metri da Piazza del Popolo dove ha vissuto buona o cattiva parte della sua incredibile vita. Io ci sono stato e quindi so che quando scrive, il 22 maggio, “la baracca avrebbe bisogno di una serie di lavori di manutenzione”, non sta facendo del vittimismo ma dell’eufemismo.
A Valentino (lo chiamavano tutti così, vuoi per la rarità del nome, vuoi per la difficoltà del cognome) davvero pioveva in casa, e non era più un ragazzo. Al tempo di “Diario 2000”, pubblicato ora da Fazi, aveva per la precisione sessantadue anni e si trovava senza lavoro, senza reddito, senza pensione, senza casa di proprietà, senza famiglia, senza libri in classifica, senza niente. Faticava anche a vincere quei premi letterari che per i poeti rappresentano delle pre-Bacchelli, oboli umilianti e però utili per pagare qualche bolletta, qualche mese di spesa al supermercato. Al Viareggio di quell’anno non riuscì nemmeno a entrare in cinquina, essendo la giuria “una banda di mafiosi comunisti, capeggiata da Cesare Garboli e Giovanni Giudici”.
Poche parole che dicono tantissimo: che Valentino non era comunista e nemmeno di sinistra, un’anomalia se non una iattura; che il mondo della poesia è quanto di più prosaico, tutto maldicenze e miserabili rivalità; che sono sufficienti 19 anni per terremotare un panorama culturale. Garboli e Giudici, chi erano costoro? E se anche qualcuno li ricorda, difficile che qualcuno li rilegga. Degli antichi commensali dello Zeichen 2000, limitandomi ai più noti e ai più (allora) influenti, risultano defunti Carla Accardi, Nico Garrone, Renato Mambor, Alda Merini, Mario e Marisa Merz, Ilaria Occhini, Nico Orengo, Vettor Pisani, Giovanni Raboni, mentre parecchi altri non si percepiscono più, ammutoliti dall’anagrafe. In qualche caso è un bene, in altri è un peccato, comunque è una tristezza. Se non ci fosse Elido Fazi, editore ma innanzitutto amico (“Diario 2000” non serve certo al fatturato), forse anche Zeichen sarebbe caduto nel pozzo dell’oblio.
In vita gli dedicammo una miriade di articoli ma più che il poeta poteva il personaggio: il profugo fiumano (era nato sulle rive del golfo del Quarnaro nel 1938), il letterato baraccato, il nuovo Marziale nutrito dai nuovi mecenati... I caporedattori dicevano sempre sì, un’intervista al bizzarro soggetto era sempre ben accetta. E infatti proprio nel 2000 lo incontrai, lo intervistai. Nel diario, con un misto di rammarico e sollievo, non mi trovo citato, eppure nella pittoresca baracca mangiammo insieme una peperonata e insieme bevemmo vino giallo e un po’ rancido versato da un inquietante bottiglione. Non è bello essere ignorati ma poteva andarmi peggio, potevo essere citato e stroncato come succede a Fulvio Abbate e a Giuseppe Conte, al giovane poeta ligure Lamberto Garzia che “vive al di sopra dei propri mezzi perché fuma e beve troppo”, ad Antonella Anedda “saprofita letteraria”, ad Alda Merini “la rastrella-premi, l’ex ospite di manicomi che intenerisce i giurati”.
A proposito della poetessa pazza: il razionale Zeichen era in qualche modo l’anti Merini ossia un poeta antisentimentale, completamente maschile, inutilizzabile per alimentare corteggiamenti. Oggi poco instagrammabile. Era addirittura un militarista, un nostalgico dell’Impero Romano, scrisse di radioattività, logistica, guerre delle Falkland, chi se lo doveva comprare. Se dovessi consigliare di Valentino Zeichen un libro, un libro solo, consiglierei questo, il diario di un morto di fame (definizione sua) che insegna a vivere e dunque a non perdere tempo con la poesia e a non perdere tempo con Roma, dove un poeta al massimo può sperare di imbucarsi a una “cena per cinquecento finti VIP” e ingozzarsi di filetto di tacchino.