Pastorale epsteiniana
Dalla scuola per bambini ricchi alla carriera da banchiere, la vita di Jeff Epstein è un romanzo di Philip Roth. O almeno un racconto
L’ultima novità sul fronte Epstein – lo sporcaccione seriale americano-stralunato che bramava di possedere tutte le ragazzine del mondo forse per fondare un mondo 100 per cento epsteiniano, poi suicidato misteriosamente in carcere – è che c’è un libro. Non tanto il “black book” che inguaia tutti, il manuale di istruzione epsteiniano con vittime, reclutatori, utilizzatori finali e iniziali, tra cui Andrea d’Inghilterra (ed è curioso come questi molestatori seriali e doviziosi tenessero queste contabilità, come il manuale di Weinstein con tutti i protocolli, che succede se chiama mia moglie, come si riaccompagna a casa la molestanda, ecc.); e nemmeno il romanzo uscito nel 2012, “Filthy Rich: The Billionaire's Sex Scandal - The Shocking True Story of Jeffrey Epstein” scritto dal serialista James Patterson, di cui Netflix stava già armando una miniserie prima dello scandalo ultimo e dell’increscioso suicidio carcerario. C’è soprattutto, anche se non c’entra niente, un brillante racconto di Philip Roth che è una specie di nemesi epsteiniana: si chiama “Epstein” ed è contenuto nella raccolta “Goodbye Columbus” uscita nel 1959, sessant’anni fa: qui il povero Lou Epstein, piccolo imprenditore risentito e stanco come spesso gli eroi delle pmi rothiane, si ritrova a un certo punto circondato da persone che non gli piacciono. Non gli piacciono e, soprattutto, scopano: scopa la figlia Sheila (con un cantante scappato di casa che di sicuro non sarà in grado di mandare avanti l’azienda da lui faticosamente fondata, la Epstein Paper Bag, borse di carta). Scopa il nipote Michael, figlio del fratello odiato, sportivo-soldato in visita allo zio, con una vicina di casa subito rimorchiata. Vorrebbe forse tragicamente scopare anche la moglie Goldie, che però è l’ombra del desiderio che fu (“ciò che un tempo si poteva pizzicare, ciò che un tempo era piccolo e sodo, ora poteva essere punzecchiato e stiracchiato. Ogni cosa penzolava. I capezzoli pendevano come quelli di una mucca, lunghi come il suo mignolo”).
Epstein – quello rothiano, ma forse come quello reale - è perseguitato dal tempo che passa, che nel racconto si manifesta soprattutto in rumori, rumori della zip della figlia e del fidanzato cantante folk, che appena arrivano a casa si dedicano a un sesso veloce e soddisfacente, “Zip. Anf-anf-anf! Ahh!” (le cerniere erano una piccola ossessione per Roth, che aveva messo anche in “Pastorale americana”, dove il terribile padre imprenditore del protagonista, Lou Levov, affitta l’ultimo piano del suo stabilimento a una fabbrica di cerniere lampo. Mentre in “La mia vita di uomo” Sharon Shatzky è la bella e liquida figlia di Al “il Re delle Cerniere” Shatzky, e gli scrive scurrili lettere che lo disturbano più che eccitarlo (“carissimo carissimo mentre a educazione fisica giocavo a tennis riuscivo solo a pensare che io mi mettevo carponi e a quattro zampe raggiungevo il tuo cazzo e poi mi premevo il tuo cazzo contro la faccia adoro avere il tuo cazzo sulla faccia premermi il tuo cazzo sulle guance le labbra la lingua il naso gli occhi le orecchie passarmi fra i capelli il tuo cazzo favoloso...”), indisponendolo per la sua prosa e gettandolo nelle mani della orribile moglie Maureen. In Epstein la cerniera tormenta il povero piccolo imprenditore. “Il mondo intero, pensò, i giovani di tutto il mondo, quelli brutti e quelli belli, quelli grassi e quelli magri, aprivano e chiudevano cerniere!”. Non si sa quale rapporto avesse Epstein – quello vero – con le cerniere, ma di sicuro era un personaggio cento per cento rothiano: professore alla scuola per bambini ricchi Dalton, a un certo punto incanta un genitore, Alan “Ace” Greenberg, manager alla banca d’affari Bear Stearns e appassionato di giovani “PSD” – poveri, smart e disperati. Nel 1980 è già partner della banca. Il suo jet privato, con cui reclutava ragazzine, era però nabokoviano: si chiamava Lolita Express.