Il poeta sa cos'è la verità
Un pezzo di Novecento e il canto delle parole nel “Conoscente”, il romanzo in versi di Umberto Fiori
La volgarità dell’estetismo sta nella convinzione che la verità si trovi in un oggetto, non importa quanto raffinato. In questo senso è speculare al bruto realismo, che la cerca letteralmente in un “trancio” di vita. Il suo equivalente politico, in cui gli uomini più machiavellici rischiano di convergere con i complottisti più naif, è l’idea che la verità consista sempre in un segreto, in un retroscena, in ciò che è nascosto “dietro” o “sotto” la soglia del visibile. Idea esoterica e feuillettonistica, seducente almeno quanto frustrante. Infatti è molto più difficile accettare che i destini si giocano davanti ai nostri occhi, in un’evidenza mai del tutto comprensibile da nessuno solo perché tutti ci viviamo dentro, e la modifichiamo con i nostri rapporti andando per forza a tentoni, prede come siamo di un’eterna eterogenesi dei fini. Fissare il pensiero su questa mancanza di fondamenta e di controllo dà le vertigini: meglio credere che la chiave universale si celi in una cinquecentina, in uno scrigno, nella cripta di Des Esseintes, di Licio Gelli o di Dan Brown. Con il suo fiuto per i sentimenti del tempo, Carrère si è accorto che l’interesse della vicenda giudiziaria da cui ha tratto il suo “Avversario” sta qui: non racconta la storia di un uomo che ha una doppia vita, ma di un uomo che ha costruito una falsa carriera e una vera famiglia su un castello di bugie per nascondere il niente – quel niente che mentre gli altri lo immaginavano all’Oms contemplava nelle piazzole di sosta dell’autostrada.
Il tema della verità vista come un’apparenza che non è il contrario dell’essenza, e il cui mistero sta anzi in una pienezza inconfutabile e inquietante, domina fin dagli esordi la poesia di Umberto Fiori (foto a sinistra). “La verità / non è una frase, / non è un oggetto che si lascia prendere, / spostare, chiudere a chiave (…) Non è una cosa / che si può dare o togliere, la verità” afferma oggi il suo alter ego nel “Conoscente” edito da Marcos y Marcos. Per una volta, di fronte a un libro nel quale pure i singoli capitoli hanno spesso la compiutezza di liriche autonome, si può parlare davvero di romanzo in versi, genere che nella seconda metà del Novecento è stato tentato da Pagliarani e Bertolucci, e sfiorato dalle sequenze poematiche di Luzi, Caproni, Sereni e Giudici.
Il personaggio che dà il titolo kafkiano a questo romanzo è un tipo maligno, abietto eppure stranamente ammaliatore, da cui un io che porta il nome dell’autore viene a un tempo aggredito e adulato. Di “Umberto Fiori” il Conoscente sembra sapere, anzi conoscere tutto, almeno tutto ciò che può scoprire e sbobinare un buon agente segreto: amori, figli, tradimenti, speranze sessantottine, gesti e parole del torbido decennio successivo, carriera musicale (il vero Fiori è stato il cantante degli Stormy Six), e approdo al mestiere d’insegnante durante un riflusso che sembra averlo ammutolito ma insieme reso poeta. Appuntamento dopo appuntamento, quest’essere insinuante ne sollecita i rimorsi pubblici e privati, lo deride e lo accusa, lo schiaccia in un angolo costringendolo a balbettare o provocandone la furia; ma poi subito, prendendolo sottobraccio, torna a parlargli in tono carezzevole, lo consola e gli accenna a vasti progetti. A prevalere, dice “Fiori”, è però il piglio di chi “mi grida in faccia chi sono”. Il Conoscente fa qui quello che nei precedenti libri facevano le figure, estranee e familiari, in cui il poeta s’imbatteva nell’anonimo paesaggio cittadino: passanti, commensali, cani… Solo che ora l’accusa rischia di venire indebolita dalla natura ripugnante dell’accusatore. Sotto questo aspetto la lotta tra i due potrebbe ricordare l’esame di coscienza affrontato “Nel magma” dall’io luziano - un io sempre più nobile, anche nella sconfitta, dell’avversario spettrale che gli rinfaccia i suoi peccati. Ma è pur vero che “Fiori” è messo in discussione dal fatto stesso di lasciarsi trascinare nel dialogo. Malgrado la sua umanità pudica, in quel tizio dal contegno viscido trova evidentemente qualcosa che gli somiglia e lo seduce. E il tizio in effetti esiste soltanto nel ruolo del seduttore, dell’illusionista. Caro Umberto, gli ripete, tu credi di sapere come sono andate le cose e invece non sai niente. Da qualche parte c’è un fascicolo o una cassetta in grado di svelare “la verità”, quella che il Conoscente ha registrato quando forse s’infiltrava da spia nei movimenti di sinistra. “Umberto” lo ascolta, vacilla, ma poi risponde con i versi che ho citato sopra. Il suo interlocutore, però, ha altre carte da giocare. Un giorno lo porta nel cuore della ricca provincia lombarda e gli presenta il volto immutabile del qualunquismo, incarnato dal “signor Olindo”. Olindo è un “moderato”, “un padre di famiglia” che al bar svolge il suo consueto comizio contro zingari e tasse, che grida i suoi quotidiani “Se c’ero io al governo”, “Sparargli a tutti!”, “noi italiani”, “Si stava meglio prima”, e che naturalmente si dichiara sghignazzando “Sconosciuto al fisco”.
“La verità / non è una frase, / non è un oggetto che si lascia prendere, / spostare, chiudere a chiave”, afferma il suo alter ego
A un tratto il narratore, esasperato, scoppia in un’invettiva violentissima contro quella pancia gioconda e truce del Paese, oggi più che mai al centro della scena politica; e il Conoscente, che non aspettava altro, subito gli dà del razzista, e gli chiede perché mai disprezzi la gente in nome della quale diceva di voler fare la rivoluzione. Ma l’epilogo del romanzo prevede una prova più intima. Nei postideologici anni Ottanta, l’ex demonio extraparlamentare ricompare camuffato da psicoanalista-guru. Qui il Conoscente diventa un misto di Lacan e Verdiglione, un tartufo nell’accezione di Garboli: è un politico della cultura e del profondo, un manipolatore che ora colloca il suo progetto di potere sotto insegne meno pubbliche e usurate. Trasferiti su un’isola meravigliosa, lo seguiamo mentre tiranneggia, umilia, ipnotizza e mette l’uno contro l’altro i membri della “Convenzione”, la comune che ostenta di voler liberare dalle inibizioni. Ora denuda le sue vittime anche fisicamente: quasi che sotto quelle pelli, in quelle tristi carni ricombinate come frutti di plastica in un cesto, si rivelasse un arcano che poi lui, prescritto il training dionisiaco, ridicolizza con la freddezza di chi non si lascia andare mai. Sussurra all’orecchio dei sedotti i segreti che non vorrebbero dire neppure a sé stessi, li fa impallidire e li piega, li rende materia malleabile. Di nuovo, mostra di avere il veleno e la medicina; con una parola atterra e con l’altra esalta; promette soluzioni miracolose, e un attimo dopo le rinnega con un ghigno. Ma anche in spiaggia “Fiori” non si integra, e alla fine reagisce con uno sfogo che stavolta annichila il Conoscente. Non lo riporta: quasi che la sua lingua, ormai davvero liberata, glielo impedisse. E tuttavia il ritrovamento di sé è inscindibile da quell’indignazione sporca quanto salutare, che non serve ad alimentare la dipendenza ma a scrollarsi di dosso il ricatto. Sotto il suo fuoco Tartufo rantola curvo, inchiodato al muro, devastato dall’imbarazzo che imponeva agli altri. Nel momento in cui si rinuncia alla sua sirena marina e poliziesca, la sua sagoma minacciosa ma fascinosa avvizzisce di colpo, scompare come un incubo.
Nel cuore della ricca provincia lombarda conosce il volto immutabile del qualunquismo, incarnato dal “signor Olindo”
Il Conoscente infatti è un padrone-servo, che ha bisogno di dominare e manipolare le cose, perché le cose lo oltraggiano di continuo: senza le sue mistificazioni, cioè senza coloro che ci credono, si riduce a un fantoccio sgonfio. Il narratore lo aveva già suggerito in uno splendido ritratto: “I suoi occhietti di sasso (…) le narici pulsanti come branchie, la faccia / rigida e smorta sotto l’abbronzatura, / portavano la traccia / di un torto, / di un’offesa subita. Una ferita / antichissima, / viva, presente. Il Conoscente / aveva la smorfia dura / di chi sia stato preso a schiaffi in pubblico / per punizione, o per vendetta, di chi / abbia dovuto ingoiare un boccone amaro / pesante quanto il mondo, / piegarsi a lungo, servire”. Ma questo Tartufo è la personificazione di un atteggiamento fin troppo umano. Tutti fatichiamo a stare nel nostro ambiente senza manipolarlo e renderlo irreale.
Sull’isola del guru, prima della rottura, “Fiori” scantona, vaga da solo, e arriva a una baia che al suo lettore ricorda il paesaggio della raccolta “La bella vista”. E’ uno scenario che si schiude come pura “presenza”, immanenza disumana che non sopporta né negazioni né apologie, perché consiste in una “gloria” evidente. Poco più in là raggiunge una valletta in cui torna più volte. Una donna del gruppo, Selva, lo segue pensando che nasconda chissà cosa. Lui non sa spiegarle il niente e il tutto che in quel luogo lo ristora. Teme giustamente lo scherno, l’incredulità. Si vergogna appunto di non avere segreti, motivi plausibili e riti sociali da compiere, travestimenti che legittimino il suo stato. Anche la donna, come il Conoscente, cerca nella seduzione il potere; ma anche lei, nonostante l’intimità erotica, non sa catturare il protagonista fino in fondo, e appena lo avverte scatena la sua ira. Oppure, pronunciando il termine “sociale” per eccellenza, e proverbialmente legato ai proustiani Verdurin, gli dà del noioso. Ecco: a produrre per difesa la falsità del “segreto” è il timore di riuscire noiosi, di non avere trame o sorprese da esibire - è l’imbarazzo di ammettere una pochezza inseparabile dalla resa alla verità gloriosa del cosmo: “E’ a noi / che si fatica a credere”.
Come in Sbarbaro, anche in Fiori il verso acquista la sua inconfondibile natura arrivando a coincidere con la pura frase
Si ha paura della radicale mancanza di fondamenta che questa resa costringe a percepire nella normale vita quotidiana. Ci si vergogna di essere “uno solo”, un individuo scisso senza giustificazioni dall’intero. Perciò qui come sempre l’io di Fiori vorrebbe divenire una cosa inanimata, una delle lapidi illustrate che scopre commosso nella valletta: cioè l’icona di un uomo ormai al riparo dall’incertezza, dalla malignità e dal disincanto. Se però ci sottraiamo agli illusionisti, pagando il prezzo “esistenzialistico” della vulnerabilità che questa scelta impone a chi è vivo, otteniamo un altro premio: di fronte alla maestà del mondo, in cui ogni nostra parola e ogni nostro gesto si radicano senza poterne dar conto, sperimentiamo una sorta di estasi. Il “coro” dei movimenti politici e delle comunità terapeutiche, degli Enti e delle Convenzioni, dei leader e dei guru autonominatisi “Cappio dell’Impersonale”, non ne offrono che una versione dolorosamente caricaturale. Ma rifiutare la caricatura, e i gerghi in cui si esprime, non è affatto facile. Non è facile spogliarsi dei veli che ipotecano il tempo e la visione, lasciar evaporare il falso io e il falso noi, abbandonare l’idea che in chissà quale futuro stringeremo finalmente in pugno la vita autentica. Perché quella seduzione, come si diceva, è attraente almeno quanto frustrante: rende irreale il nostro presente, come se le cose vere stessero sempre accadendo altrove, nelle stanze di qualche grande vecchio, ma al tempo stesso promette che un giorno quelle cose saranno nostre.
Quando il narratore dà l’addio all’isola, ancora si chiede vacillando se “Potevo chiamare aria / l’aria, far conto che fosse aria / e non il suo contrario, il suo segreto, / il suo scherzo”. Questo contrario è il frutto della paura, della lusinga e del potere, che inducono l’individuo a truccarsi e a interpretare ciò che vede come una valigetta a doppio fondo, un gioco di scatole cinesi, una crittografia ininterrotta che una volta decifrata farebbe tornare tutti i conti della Storia universale. Hitchcock la chiamava Mac Guffin. A Truffaut raccontò divertito di come i suoi sceneggiatori si arrovellassero invariabilmente sull’oggetto misterioso che doveva essere conteso tra gli antagonisti del film, elaborando complicate teorie su portasigari, armi o buste in grado di determinare il destino del pianeta, finché lui li convinceva che non si tratta che di un nudo nome, di un contenitore vuoto utile solo a mettere in moto l’azione e a tenere lo spettatore incollato allo schermo. Eccoci tornati al punto.
Cos’è dunque la verità? Vecchia domanda seguita dal silenzio. La verità non è un fatto che sta “dietro” o “sotto”, ma il senso di ciò che ci appare. Fiori ne è convinto anche sul piano stilistico. A differenza di quel che molta cultura moderna ha creduto, l’onore della poesia non sta per lui nel crittare un’apparenza quotidiana ritenuta troppo banale. E’ anzi proprio lo sguardo che la considera banale a esserlo, e a proiettare l’ombra della sua banalità anche sul codice cifrato che dovrebbe nobilitarla. No, bisogna lasciar cadere le “convenzioni”, anche le più squisite, e mostrare l’“ovvio” che ci circonda come se lo vedessimo per la prima volta o lo ritrovassimo intatto dopo un lungo delirio. Il che equivale a “perdere tutte le bravure”, a castigare il virtuosismo. Non ci si deve forgiare un linguaggio, ma far affiorare quello che già sempre ci tiene, la voce che è propria e che non si può scegliere. Non si tratta di dire la verità ma d’incarnarla, di stare inermi nella sua apertura: un heideggerismo light. Non per caso il modello di Fiori è Sbarbaro, che del resto propone anche temi simili ai suoi, a partire dalla vertigine della solitudine scontata in una società dove “gli uomini son tanti”. Come nell’autore di “Pianissimo”, anche in Fiori il verso acquista la sua inconfondibile natura arrivando a coincidere con la pura frase. Il discorso si appoggia a un’impalcatura di rime discrete, ipermetre, interne o imperfette, di assonanze o consonanze lontane. Sono sostegni costruiti per amplificare il canto senza enfasi, per far circolare bene il sangue in tutte le giunture del testo: echi, insomma, disseminati in modo che appaiano quasi dei naturali epifenomeni dell’esposizione.
Nei postideologici anni Ottanta, l’ex demonio extraparlamentare ricompare camuffato da psicoanalista-guru
Con questi mezzi, Fiori ha saputo ridurre efficacemente ai suoi termini essenziali i più tipici e anonimi paesaggi italiani. Ma nel “Conoscente”, sia nei momenti più alti sia nelle zone di passaggio, in cui non cede mai il mestiere, restituisce anche i connotati basilari della storia degli ultimi decenni, in particolare della storia dei settantenni di oggi. E lo fa, di nuovo, con concrete astrazioni e grande orecchio, sostituendo ai nomi “veri” certe etichette parodiche che suonano generali senza essere generiche. Non è l’ultima ragione per cui questo libro merita di avere un posto importante nel canone della nostra poesia - e della nostra narrativa.