Booktour? È meglio festeggiare lo scrittore che non si autocelebra
L’esempio di Tommaso Labranca, esploratore e grande assente
In Francia, dove esistono ancora i lettori, si chiama rentrée: da metà agosto i media pullulano di notizie sulle numerosissime uscite letterarie di settembre con tanto di previsioni meteoeditoriali: su quale nuovo romanzo splenderà il solleone di un probabile premio? Quali opere hanno chances? Quali neanche una? In Italia, di questi tempi, tira altra aria. La scia chimica dello Strega fumiga ancora calda lungo l’orizzonte degli eventi editoriali, mentre la TL del mio account Twitter è inspiegabilmente monopolizzata da fannulloni, bloggaroli, sedicenti giornalisti culturali “in direzione ostinata e contraria #divorolibri” che ancora cincischiano in spiaggia e commentano sarcastici e smagati – ovviamente in tempo reale – qualsiasi avvenimento qualsiasi, salvo poi proclamare di aver letto, tra Ferragosto e oggi, pour se distraire, la “Recherche du temp perdu”. (Ma davvero? E quando? E come? E soprattutto: perché fotografarne i sette volumi disposti a mazzo di carte su un tavolo in massello di acacia accanto a un cappuccino spumoso e a un bicchiere di spremuta col vetro madido, sabbiolina a velo su un numero di Repubblica adagiato a mo’ di runner e didascalia di un solo aggettivo, che è sempre: “illuminante”?).
Nel frattempo muoiono e nascono governi, crepitano indignazioni qua e là – o sono popcorn? – e siccome tutto accade su Twitter, ecco che anche noi abbiamo la nostra rentrée. O meglio, il nostro epifenomeno di rentrée. (Avremo presto anche un epifenomenico governo?) Il nostro epifenomeno di rentrée consiste in annunci social di imminenti uscite letterarie introdotte dalla suspense di claim del genere “ci siamo quasi…” lanciati nel maremàgno proprio dallo scrittore (denominazione ormai incontrollata) che in questo habitat prospera perché sa di poter contare su una cerchia rionale ed endogamica di affettuosi indifferenti, i quali, secondo il patto non scritto di questo pudibondo postribolo, ricommenteranno, rituitteranno e risponderanno con strike di cuoricini, prima di passare al seguente petting di prammatica, dimenticandoselo subito dopo. Ma a parte il grottesco sfoggio di entusiasmo dei finti lettori e degli autori che annunciano se stessi e le proprie trascurabili opere imporporandosi le gote digitali con timori da poseur (“speriamo vi piaccia!”, “che tensione!!”, “che emozione!!!”), l’aspetto più comico che caratterizza questi annunci è l’enfasi. Enfasi sempre e comunque. Enfasi anche nella simulata mancanza di enfasi. Enfasi non vana, ma atta a preparare il tweet clou: quello che annuncia il booktour. Il booktour è un chimerico giretto di una decina di librerie che si concede al proprio narcisismo. A castigarlo ci penserà una realtà di sedie vuote, oppure piene di vuoto, nulla cambia, tanto sui social verranno diramate foto (anzi, pic) dello scrittore triumphans in azione verbale, una mano a reggere un microfono e l’altra a sfarfallare nell’aria delle sue intuizioni verticali, decine di pic scattate dalla cugina, pic in cui lo scrittore ha proprio l’aria dello scrittore in seno al booktour e quindi un marasma di alberghi, autografi, città una via l’altra, melatonina a gogò, pressanti richieste, morbose attenzioni, centralità culturale portata con disinvoltura e ammirevole sopportazione dei disagi da notorietà – marasma del tutto immaginario, giacché in nessuna di quelle foto compariranno le teste canute dei tre o quattro che erano presenti (una drammaticamente inclinata di lato). Ora, tutto questo è più ridicolo che grave, certo. Ma davvero il ridicolo non è mai grave? Davvero il ridicolo fa solo ridere?
Proposta antibiotica: in tanto sovraffollamento di Giornate di Qualsiasi Cosa, perché non festeggiare – senza farlo sapere in giro – la Silenziosa Giornata dello scrittore che non sovraffolla? La giornata dello scrittore che non si celebra e che non ha alcuna voglia di incontrare il pubblico. La giornata dello scrittore che sa che la scrittura è il fasto di una nobile invisibilità vedente, e che esiste un patto tra chi legge e chi scrive, un patto che rende possibili l’uno e l’altro, e che come tutti i patti esige fedeltà. Uno scrittore che sappia quant’è doveroso ostacolare la propria deriva. Uno scrittore, insomma, che assomigli a Tommaso Labranca: isolazionista, esploratore, inventore di movimenti nati estinti e grande assente, seppe resistere anche alla suprema tentazione del narcisismo al contrario, quello di fare dell’assenza una bandiera. E che mi diceva sempre: “Il bello dei cialtroni è che passano”.
Perché Leonardo passa a Brera